È difficile dire qualcosa di interessante di un artista e del suo lavoro quando questi si prestano poco alle categorizzazioni usuali delle quali ci serviamo per descrivere un’opera; lo è ancora di più se un determinato artista rifiuta esplicitamente ogni incasellamento, anzi fa di questa irregolarità la chiave di volta del suo lavoro. Il doppio disco di Moses Sumney è già dal titolo (græ, il nostro “né bianco né nero”) un’opera basata sull’impossibilità del giudizio, sull’assurdità dei confini. Per parlarne allora abbiamo deciso di concentrarci su due elementi, seguendo anche la struttura del doppio album, a nostro avviso chiave del suo discorso: il linguaggio e la voce.
Il linguaggio
L’affermazione da cui si potrebbe partire proviene dalla riflessione greca sul linguaggio, che informa tutta la storia del pensiero occidentale: il concetto quindi di logos, inteso come parola, discorso, definizione, argomentazione, giudizio, ordine o logica. Fondamento di ogni riflessione sul linguaggio è la convinzione che dire significhi dire una qualche cosa; da questo deriva il fatto che ogni cosa che viene detta è un’entità dotata di un’essenza: parlare di una cosa significa quindi dire il senso di quella stessa cosa (quante volte si dice che qualcosa “non ha senso?”). Ogni entità per cui esiste una parola è quindi un concetto individuale, separato dagli altri, con caratteristche definibili univocamente (il “significato” di quella parola). Da questa verità data per assodata discende il principio di non contraddizione, alla base di ogni ragionamento già per Aristotele, per il quale è impossibile che due entità opposte appartengano alla stessa “cosa”. Vengono quindi escluse, già dagli inizi della riflessione sul linguaggio, le infinite possibilità che la parola porta con sé, su tutte quelle dell’indeterminatezza e dell’ambiguità.
Tra due contrari non c’è una via di mezzo, tra bianco e nero non c’è il grigio, un’affermazione o è vera o è falsa, una cosa “o è o non è” (il famoso “l’essere è e non può non essere” etc etc che insegnavano a scuola). Parlare di qualcosa che sta tra questi due estremi, già per Aristotele equivale a non dire niente, a dire qualcosa senza senso. La scelta di basare i meccanismi del ragionamento sull’esclusione di ciò che non è definibile con precisione, che non ha confini netti (il cosiddetto tertium non datur) è, per l’appunto, una scelta, non dissimile da quella, opposta, che altre culture hanno compiuto millenni fa (il simbolo del tao ad esempio, che come il nostro logos è presente fin dagli albori del pensiero ma in modo opposto, nel suo simboleggiare, per farla breve, la coesistenza degli opposti, e quindi la legittimità di tutto quello che in una cultura logocentrica non trova spazio. Il principio di non contraddizione esclude due possibilità, ovvero l’essere una cosa e un’altra e l’essere né una cosa né un’altra. Qualsiasi affermazione, frase, cosa che risponde a una di queste due caratteristiche è il tertium non datur, non ha senso, non dovrebbe esistere, non può essere detto.
È da qui che parte la riflessione di Moses Sumney, che per tutta la durata del suo doppio disco cerca di decostruire questi assunti dati per scontati dalla logica. Non a caso due dei suoi pezzi, messi uno dopo l’altro, si intitolano also also also and and and e Neither/Nor, letteralmente “anche anche anche e e e” e “né/né”. Precisamente ciò che rimane fuori dalla logica, perlomeno da quella occidentale, l’inclusione e l’esclusione. E se il primo pezzo è un interlude in cui si riflette parola isolation, il secondo potrebbe essere interpretato come un manifesto del suo essere sfuggente alle categorie di pensiero tradizionali (d’altronde, se una cosa è senza senso si definisce sempre negativamente: si dice né carne né pesce, no e carne e pesce).
Il lavoro di Moses Sumney allora appare come il tentativo di creare uno spazio in cui il discorso non si riduca a categorie già date per scontate, uno spazio in cui si possa dire senza tenere conto del principio di non contraddizione. Il nome di questo spazio è il titolo stesso del disco. Græ è il colore grigio, che non bisogna intendere come una prudente via di mezzo tra opposti, ma piuttosto come un colore a sé: non come tertium non datur tra bianco e nero (né bianco né nero), ma come “cosa” definibile di per sé e non in opposizione ad altre cose. Che il grigio sia un concetto e non solo una via di mezzo lo si percepisce fin dalle prime parole del disco, dove la la scrittrice e fotografia Taiye Selasi dice “welcome to THE græ”, come a darci il benvenuto in uno spazio dove si può cercare di decostruire le categorie linguistiche preconfezionate per crearne di nuove. Questo intento è palese in Boxes, dove la stessa Selasie dice: “Very concerned about giving names, giving names / dissatisfaction seems like the natural byproduct of identification / I truly believe that people who define you control you”. Identificazione e insoddisfazione: identificarsi, definirsi in qualcosa di statico, immobile, conduce all’eliminazione di un ventaglio di possibilità. In Keeps me Alive, Sumney canta “Finding hard to differentiate / are my proclivities of society or innate?” La difficoltà di scegliere chi e che cosa essere, e il chiedersi se questa difficoltà sia solo sua o conseguenza del suo tempo, delle categorie della società contemporanea.
Nel discorso di Sumney i concetti messi in discussione nel græ sono due: la razza e la mascolinità, le due cose più identitarie e politiche dell’attualità. Per quanto riguarda il primo punto, bisogna dire che Sumney è di origine ghanese, e per un po’ di tempo ha vissuto da irregolare in America, per poi fare ritorno in Ghana. Doppia esclusione: né americano né ghanese, una irriducibiltà vissuta prima da una parte poi dall’altra. Sempre in Boxes sentiamo “And the most significant thing that any person can do / but especially black women and men / is to think about who gave them their definitions / and rewrite those definition for themselves”. Nel gospel iniziale Cut me Sumney canta “Guess I’m a true immigrant’s son / no vacancies, no vacations”. Ancora, né una cosa né l’altra. Diffidare quindi dalle generalizzazioni fatte sulla base del colore della pelle ma accettare all’interno della propria narrativa l’essere apolidi (per negazione, né…né) o cittadini con più nazionalità (per inclusione, e…e).
Nel video del pezzo hard rock (il genere più connotato sessualmente dal punto di vista maschile) Virile vediamo un Sumney dal corpo di un Cristiano Ronaldo ballare in un macello tra carcasse di animali: lo stesso Sumney ne ha parlato in termini di “due estremi […] una persona che si libera dal proprio corpo e anche la rappresentazione del corpo nero maschile come oggetto di consumo”. Una sorta di This is America in cui il teatro della violenza è il corpo stesso. Parlando di corpi, l’altra tematica è quella della mascolinità tossica, basata su prevaricazione, vigore fisico, sessualità esibita fino al parossismo. Sempre in Virile, “You wanna slip right in / amp up the masculine / you’ve got the wrong ‘I’”. L’esibizione forzata della virilità non significa essere “maschio”, non è costitutiva di quel concetto, ne rappresenta una deviazione. Allo stesso tempo, con le parole di Sumney, “la cultura pop ci è andata pesante contro il patriarcato, dimenticando che la mascolinità – fuori dalla sfera tossica – non è necessariamente negativa. Bisogna tornare a guardare alle cose positive”. Di nuovo, approcciarsi a un concetto per mezzo di ciò che non è, da entrambi I lati della questione. La mascolinità può includere a questo punto elementi come la fragilità e il dubbio (“If I split my body into two men / would you then love me better? […] You love dancin’ with me / or you just love dancin’?” in Polly, o “With your imprint in my bed / a pit so big I lay on the edge / will love let me down again?” in Me in 20 Years).
Abbiamo visto come il linguaggio di græ sia quello dell’eccezione, del tertium non datur. Un linguaggio che può significare inclusione (essere una cosa e l’altra) o esclusione (non essere né una cosa né l’altra). Nel disco quest’ultima modalità è quella che sembra prevalere. L’altro lato della medaglia dell’irriducibilità è, purtroppo, spesso, l’isolamento, la solitudine. Non accettare di essere determinati dall’esterno può provocare dolore (nel gospel iniziale Cut me ascoltiamo “That’s when I feel the most alive / masochistic kisses are how I thrive”) e condurre all’isolamento (la penultima traccia si chiama appunto and so I come to isolation. Qui sentiamo Selasi dire “that’s exactly what I’ve been my whole life / I’ve been islanded”). Cercare di vivere le proprie contraddizioni sfuggendo al dominio del logos, cercare di vedere “sfumature di blu nel grigio” (parafrasando un altro pezzo, Colouour, in collaborazione con FKJ) è un compito ingrato per tutti (“I gave my life to something / something bigger than me” in Gagarin).
La voce
Teniamo presente che in græ la vera voce di Moses Sumney non la sentiamo praticamente mai. La voce con cui lui parla è bassa, baritonale, roca, profonda, “come se Macy Gray avesse fumato troppe sigarette”, nelle sue parole. Se le canzoni nel disco sono cantate con una voce, mettiamo così, camuffata, cosa ci dice questo del messaggio che Sumney vuole lasciare? Possiamo provare a partire da Roland Barthes che nella raccolta dei saggi L’ovvio e l’ottuso scrive che il canto significa “godere fantasticamente del mio corpo unificato”. Ma che cos’è il corpo unificato? Niente di più che la percezione di se stessi. Così come da bambini iniziamo a percepirci come individualità guardandoci allo specchio, ascoltare la propria voce ci restituisce una sensazione di unità. Non la nostra voce normale, però, anzi: a tutti capita di risentire un vocale o una registrazione della propria voce e sentirsi diversi, strani. La propria voce, poiché è sempre indirizzata a un altro, in qualche modo non ci appartiene più appena viene portata fuori: sentirsi parlare è quindi perturbante, perché implica la realizzazione del fatto che la nostra voce ci appartiene fino a un certo punto, in quanto noi diciamo sempre qualcosa a qualcun altro. Il canto invece, nel suo essere estraneo alla logica simbolica della lingua, nel suo non dire niente, ci appartiene in quanto godimento, espressione di una coscienza pre-linguistica. Il canto non è rivolto a nessuno in particolare perché non ha una finalità se non quella di far parlare il corpo; in questo è godimento puro, unitario, separato dalla sfera linguistica dove la voce aquista tutto un altro piano simbolico e viene usata per comunicare cose.
In un pezzo uscito sul New Yorker l’autore Hua Hsu, chiedendosi cosa di preciso susciti emozioni in una canzone, se la musica, le parole o chissà cosa, cita la psicologa Carroll Pratt, la quale dice che “la musica suona nello stesso modo in cui si sentono le emozioni”. Una frase a primo impatto assurda, incomprensibile, o totalmente ingenua. Quello che si può ricavare da un’affermazione del genere però è che il piano linguistico è del tutto assente: nella citazione non esiste nessuna parola riconducibile al campo semantico della logica o del ragionamento. Ora, non si vuole dire che la musica è solo passione o banalità del genere, ma che esiste un piano, nella percezione di una canzone che va al di là della lingua, la cui definizione è assimilabile a quella del canto come voce non linguistica ma espressione del godimento di un corpo.
Abbiamo detto che la voce di græ non è quella di Moses Sumney. Bisogna correggere questa affermazione dicendo piuttosto che, nella sua poetica, Sumney non ha una sola voce. Essendo la sua identità dissolta nel græ, non può concepirsi come un corpo unico, come un individuo definito. Ne consegue che la voce come “corpo unificato” si dissolve in una pluralità di registri. La maggior parte dei pezzi del disco sono cantati in una voce tenorile o in falsetto, soprattutto nella seconda parte: nelle parole dello stesso Sumney, I suoi esordi da cantante consistevano in lui che si registrava cantare e poi si riascoltava. Quando, con la pubertà, la sua voce ha iniziato a diventare quella che è ora, riascoltarsi è diventato -aggiungiamo noi- perturbante: come ascoltare una voce appartenente a un altro. Per questo il falsetto è diventato un porto sicuro, la voce del suo corpo unificato di sua proprietà. Ma il falsetto non è l’unico registro utilizzato da Sumney: lungo tutto l’album troviamo modalità di editing della voce che ormai sono largamente usate nel pop, ma che vale un attimo la pena di approfondire.
In Boxes ad esempio troviamo, oltre alla base prodotta da Dan Lopatin degli Oneohtrix Point Never, voci passate al vocoder che risultano spezzate, friabili, come se provenissero da un citofono rotto. In Gagarin, sopra un sample jazz, troviamo Sumney cantare con una voce con effetto pitched-down, quindi rallentata e abbassata di tono. Ancora effetti di pitch e sample, che rendono difficile intuire il genere di chi sta parlando, nella successiva jill/jack. Ma il cambio può avvenire anche all’interno della stessa canzone, come in Neither/Nor, dove Sumney passa con disinvoltura da una tonalità all’altra toccando note molto alte e poi riabbassandosi. Infine, possiamo trovare anche sovrapposizione tra voci, in un modo che ricorda Frank Ocean su Blonde (Lucky Me) o l’utilizzo di cori (Cut me o Bless me, le canzoni più imparentate con la ballad soul tradizionale).
Se quindi la voce è l’espressione di un corpo unitario, una voce così estesa, capace di passare dalle note più basse a quelle più alte anche nel giro di una strofa, è l’espressione di un corpo che si percepisce come moltitudine (torniamo all’inclusione, all’e…e); allo stesso tempo, una voce processata, distorta può scaturire da un corpo ancora in formazione, ancora non unitario ma frammentario (qui all’esclusione). Græ è il lavoro di un corpo che fatica a comprendersi e per questo fatica ad avere una voce propria. La grande abilità di Sumney sta nel fare della propria voce il centro delle tensioni che riguardano la sua personalità, e di trasporre sul canto il tentativo di essere un corpo unico non per esclusione dei contrari, ma per inclusione di tutto quello che ritiene giusto includere. Questo aspetto fa di græ un disco politico, nel suo tentativo di guardare a categorie decisive nel mondo di oggi, come la razza e il genere, in termini non convenzionali, ma cercando continuamente di riscrivere le definizioni che decenni (o millenni?) di logica dell’esclusione ci hanno consegnato. Questa lotta la vive sul suo corpo, e dal corpo la trasferisce alla sua voce, che per questo motivo non è mai uguale a se stessa, e alle volte può anche essere sgradevole e perturbante (in Gagarin è abbastanza evidente), esattamente come quando ci si guarda allo specchio (anche metaforicamente) e si stenta a riconoscersi come un’identità definita, coerente, logica.