Morrissey – Low in High School

Quando inizi a far parlare di te più per quello che dici in giro che per la tua musica, c’è qualcosa che non va. Negli ultimi tempi siamo invasi da dichiarazioni di Morrissey, se qualcosa succede – dal caso Weinsten agli attentati dell’Isis – lui sa sempre dispensare pillole in pieno stile Bigmouth Strikes Again. Somiglia a quegli opinionisti d’assalto che riescono ad avere un’opinione su tutto, e terribili certezze.

Eppure non possiamo certo dimenticare che Morrissey è stato il cantore di un certo disagio giovanile, un poeta per chi ama crogiolarsi nei propri dilemmi. L’epica degli Smiths ancora oggi ci insegue, dopo aver battagliato con il nuovo millennio: ci sono pezzi che sono rimasti nella storia della musica, e nessuno li spazzerà via, fosse anche una dichiarazione di Morrissey. Quando si pensa a Manchester e alla sua musica gli Smiths sono uno di quei gruppi che saltano subito alla mente insieme a Joy Division e Oasis.

Tuttavia il mio approccio al nuovo album di Morrissey ha deciso di tenere da parte tutte queste considerazioni.

Chi è Morrissey, chi è stato, cosa dice, o cosa – più prevedibilmente – dirà. Sappiamo come negli ultimi tempi il dibattito sul rapporto tra opere d’arte e ogni genere di aspetto etico connesso a chi le realizza, sia tornato di moda – per quanto sia irresolubilmente personale la risposta al problema. Ma se vogliamo trattare l’opera d’arte nella sua accezione più pura tralasciamo pure ogni contorno, e ascoltiamo il disco liberamente.

La prima domanda che si insinuerà nel cervello sarà allora: Steven Morrissey, where art thou? – dove sono le illuminanti passeggiate con Keats, Yeats e Wilde nei cimiteri inglesi, dov’è quella divinità a cui invocavi di farti avere quello che volevi dalla vita per una volta tanto, dove sono le tue battaglie intime, i mostri, i giochi di parole no sense alla Some Girls are Bigger Than Others, e la sacra ispirazione? Low in High School è soprattutto un disco non ispirato, un surplus dove persino i mantra che potrebbero evocare i nostri tempi imbevuti di Brexit e Trump suonano fuori-tempo. E non al passo e ritmo.

Il cantore ora ci suggerisce di innamorarci per scrollarci di dosso i tempi, All The Young People Must Fall In Love, ma la voce non è più quella di un tempo, anche se parliamo di uno dei più pezzi che più funziona nell’evocare certe atmosfere à la Smiths. Dico funziona perché per il resto pare di assistere al grigio tramonto dell’epopea-Morrissey, e già dal primissimo pezzo – My Love, I’d do anything for you – in cui sembra che ora il nostro cantore provi a giocare ai Depeche Mode. E che dire del ritmo spagnolo che si respira in The Girl From Tel Aviv Who Wouldn’t Kneel in cui Morrissey si fa crooner?

Spent the Day in the Bed. Morrissey ci aveva avvisati con quel titolo perfettamente smitshsiano che era il piccolo antipasto dell’intero nuovo lavoro. Il problema è che l’intero album scivola via come l’occasione mancata di fare i conti con l’Inghilterra di oggi, e tutti i suoi travagli. In questo il disco sembra mancato. Come un appuntamento che si rimanda.

 

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