Gilda (in inglese pronunciato Ghilda) è una ragazza di ventisette anni, omosessuale e atea, protagonista del romanzo “Moriremo tutti, ma non oggi” della scrittrice canadese Emily Austin, in Italia pubblicato da Blackie edizioni. Sin dalle prime pagine del libro è chiaro che Gilda si trova in una condizione di estrema difficoltà: coinvolta in un incidente stradale si frattura un braccio, ma decide di non chiamare l’ambulanza perché, dice, «non mi piace attirare l’attenzione». Quando è costretta dal dolore a recarsi in Pronto Soccorso, si scopre che è un luogo a lei familiare perché Gilda è una donna ansiosa che vive in uno stato di prolungata e intensa preoccupazione, stato che la porta a confondere attacchi di panico e infarti, e a chiedere aiuto per momentanee crisi respiratorie. Il centro esatto del rimuginare è l’idea della morte: sua, dei suoi cari, ma in generale di tutti gli esseri umani che incontra, compreso un anziano signore che incrocia nell’autobus al ritorno dall’ospedale dopo l’ingessatura. Quella di Gilda, quindi, è una mente che lavora senza sosta nel tentativo di scendere a patti con la fine di tutto.
[…] Stringo ancora più forte il volante nel preciso istante in cui mi scontro intensamente con la realtà che sono un essere vivente, che respira, che un giorno morirà. Guidatori sconsiderati possono ammazzarmi. Sono intrappolata in questo corpo fragile. Potrei essere spinta fuori strada. Potrei essere investita da un minivan. Potrei strozzarmi con alcuni acini d’uva. Potrei essere allergica alle api. La mia esistenza è talmente transitoria che un misero insetto, saltando da una margherita sul mio braccio, potrebbe pungermi e io verrei a cancellata. Nero. Niente.
Un personaggio a pezzi che ha smarrito il senso delle giornate e delle routine necessarie per la sopravvivenza: dimentica di mangiare, non si prende cura di sé stessa, non si presenta a lavoro e si avventura in pochi e maldestri tentativi di trovare una soluzione al panico nell’indifferenza generale.
Succede, allora, per un caso del destino, che Gilda si ritrova a lavorare come segretaria amministrativa nella chiesa cattolica di St. Rigobert in sostituzione di tale Grace, scomparsa da poco a quasi ottant’anni. Per non perdere anche questo lavoro finge di essere cattolica devota e si immerge, suo malgrado, in un groviglio di bugie da cui diventa impossibile districarsi. Intorno a lei, in questa vita posticcia, il ricordo di Grace, anche se non l’ha mai conosciuta, l’anziano Jeff parroco della comunità, un vecchio burbero e conservatore di nome Barney e uno spasimante logorroico e irritante, Giovanni. Dall’altra parte, nella vita “reale”, ci sono Eleanor, una ragazza di cui sembra che Gilda sia innamorata, Eli, il fratello alcolista, e due genitori problematici.
In questa trama grottesca e avventurosa, immersa nella paura di essere scoperta e vittima della sua stessa incapacità di relazionarsi col prossimo, Gilda diventa un simbolo attraverso il quale Austin descrive gli stati ansiosi nel minimo dettaglio, fino ad arrivare a un chiaro stato psicotico nel finale. Si inizia con le frasi senza contesto per stemperare l’ansia sociale, gli stati dissociativi in cui la protagonista alterna ricordi e azioni in un gioco di rimandi fra traumi passati e presenti, e si arriva ai sospetti verso gli altri e la perdita momentanea del contatto con la realtà. Qua e là emerge l’invalidazione emotiva che Gilda subisce in famiglia, con un padre con problemi di gestione della rabbia e una madre che preferisce ignorare i segnali d’allarme. A questo proposito, c’è da sottolineare la cura speciale dell’autrice nel racconto del background familiare di Gilda, che dimostra, con pochi e ben selezionati ricordi chiave, come nasce un soggetto ansioso di quel calibro.
Quando l’invalidazione, poi, arriva anche dagli estranei, per Gilda si fa tutto più complicato. Nella ritualità che si instaura con le visite in Pronto Soccorso e l’assistenza telefonica dell’assicurazione sanitaria, Gilda interagisce con un sistema che non comprende le problematiche dei pazienti affetti da disturbi d’ansia o depressione, che argina gli attacchi di panico con pochi consigli distratti riassumibili nella frase rivolta a Gilda dall’addetto alle pulizie dell’ospedale diventato suo amico: «Pensi troppo», è quella la radice dei suoi mali. E Gilda ci prova talmente tanto a rincorrere il mito della normalità che arriva a mostrarsi felice solo perché «è ciò che preferiscono le persone», ma il prezzo da pagare è un senso di oppressione talmente invadente che le rende ingovernabile persino la normale respirazione.
In questo quadro di profonda crisi emerge una verità non sempre evidente a chi legge: anche le persone così incrinate hanno un lato brillante. Ed è proprio la comicità il super potere di Gilda, nonché il tratto predominate dell’intero romanzo che si prende la responsabilità di narrare uno spaccato comune a molte persone in questo periodo storico, l’ansia e gli stati depressivi, senza ridicolizzarli e senza cedere all’uso di metafore posticce e linguaggio forzatamente poetico. Il buco nero del malessere di Gilda è ritratto nella sua essenzialità, ovvero un misto ricordi, azioni nel presente narrativo e un rimuginare sempre attivo in sottofondo che talvolta prende il sopravvento nei momenti d’assenza, da cui la donna riemerge con fatica crescente man mano che si procede con la narrazione. Ma in tutta questa sofferenza c’è ancora spazio per l’innescarsi di una catena di eventi comici e teneri costruiti con grande padronanza da Austin, che svelano il fine narrativo ultimo del romanzo: ritrovare la propria umanità, anche per un solo istante, in questo percorso senza lieto fine che è la vita.
La profilazione psicologica di Gilda, quindi, non deve spaventare perché per chi legge c’è spazio solo per empatia e tenerezza nei suoi confronti. Sicuramente i soggetti ansiosi si riconoscono nelle fissazioni che nel suo caso stemperano il peso delle bugie della vita lavorativa, ma di fatto ci si rivede del proprio perché sono una strategia di sopravvivenza comune per mantenere l’illusione del controllo degli eventi. E non c’è niente che abbia un maggiore effetto calmante, per una persona ansiosa, dell’illusione del controllo e la prevenzione degli imprevisti. Ma in questo quadro condiviso si inserisce, a sorpresa, il già citato elemento comico che spariglia le carte e sostiene la storia. Gilda è un personaggio comico a modo suo, capace di cogliere l’ironia delle cose nei momenti di lucidità, e la scelta ulteriore di inserirla, da atea, in una realtà cattolica ha un effetto esilarante che trascina la lettura fino al doppio colpo di scena finale.
La vicenda della Gilda di Emily Austin si inserisce nel solco delle protagoniste millennial della letteratura anglosassone contemporanea: più brillante della Eleanor Oliphant dell’omonimo bestseller di Gail Honeyman, più amabile della protagonista de “Il mio anno di riposo e oblio” di Ottessa Moshfegh, meno pretenziosa dei trentenni in crisi di Sally Rooney.
“Moriremo tutti, ma non oggi” è uno sguardo peculiare sul mondo, perché peculiare è la voce che Emily Austin confeziona per la sua protagonista: una donna disperata e tenera che si commuove così tanto per una scatola di biscotti ricevuta in dono da doverla seppellire nel fondo di un armadietto per non stare troppo a lungo in quella dolorosa felicità mista a nostalgia. Con Gilda si ride pur rinnovando l’ossessione per il tempo che finisce, da cui nessuna persona è immune, ma lo si fa distraendosi di frequente con il suo singolare monologo interiore, le scelte bizzarre e il coro dei personaggi che la circondano. E tutti, dal prete di St Rigobert ai vicini di casa, passando persino per l’insopportabile Giovanni, tentano di andare avanti facendo del loro meglio in un mondo che non è stato costruito certo per il benessere dell’individuo. E non è forse fare del proprio meglio il senso stesso della vita?