Quanto ci manca Monica Vitti

La letteratura, come tutta l’arte, più che la confessione che la vita non basta, è il tentativo di tradurre e disciplinare la vita debordante che invade travalica esonda da ogni angolo del quotidiano. La vita è ovunque e nello stesso momento, e tale ovvietà stordente giustifica il fatto che: “Qualunque inezia può essere degna di attenzione. Per un artista, intendo dire, gli altri possono anche giocare a carte”. Così Monica Vitti su Michelangelo Antonioni. Con Deserto rosso, ispirato da una fase depressiva di Vitti, il regista seppe donare senso e dignità a una frase dell’attrice: “Mi fanno male i capelli”, che sarebbe altrimenti caduta nell’oblio, o bollata come sciocchezza priva di senso.

A un anno dalla scomparsa di Monica Vitti Mondadori ha ripubblicato Il letto è una rosa, raccolta di scritti del 1995, da cui emergono la vivacità e la malinconia, già apprezzate al cinema, circonfuse da un’aura surrealista e animista che più che trasfigurare la realtà, provano a tradurre il molteplice. Solo apparentemente una fuga, gli scritti autobiografici, tra rêverie e ricordi, finiscono per essere un amplificatore di realtà.

«Lasciatemi l’emozione, e tenetevi pure la memoria. Io non la voglio, perché è una truffa, e non la si può nemmeno portare in tribunale perché vincerebbe lei. La memoria non è con me, ma contro di me»

L’avventura, 1960, Michelangelo Antonioni

Dell’infanzia riporta la confusione, come un vuoto, acquisito da un’educazione borghese che voleva i bambini distanti dai discorsi degli adulti, discorsi che venivano immancabilmente troncati a metà se i bambini si palesavano durante una conversazione. Di qui un’incapacità di collegare i fatti, come un freno allentato sul controllo del reale, e la volontà di inventare per coprire quei vuoti nelle storie, confondere, mescolare.
Le davano della “smemorata” e lei quell’epiteto se lo teneva, ben contenta di essere diversa dagli altri bambini.

Ma non è sempre semplice stabilire dove termini la realtà e abbia inizio la fantasia in una narrazione che è per lo più un fluttuare tra suggestioni, con pochissimi appigli al reale. Come nel testo “Sogni”, in cui viene inseguita per strada da un vecchio zio, e al risveglio finisce in un nuovo inseguimento e un nuovo incubo, questa volta a opera di una donna che esige l’attrice la faccia ridere.

<<Lei di qui non passa, se prima non mi fa ridere>>.
<<Non ci riesco, ora. Le ripeto, oggi per me è una brutta giornata>>.
<<Affari suoi, lei mi deve far ridere>>.
<<Ma è un incubo: non mi sento bene, ho la testa confusa, come posso farla ridere?>>.

Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca), 1970, Ettore Scola

Anche nell’incubo, trapela l’ironia, come nel racconto del tentativo di seduzione di un collega di Accademia, che la invita a casa sua abbassandosi senza troppi convenevoli i pantaloni e causando un passaggio repentino dalla tensione al ridicolo nell’attrice, che fugge accampando un impegno per risparmiargli l’umiliazione del riso.

Ancora, è venato di ironia amara il racconto della reazione degli amici alla smentita in carne e ossa della notizia del suicidio dell’attrice pubblicata da “Le Monde”, delusi per i commenti rilasciati a vuoto.

Meravigliosamente grottesco l’incontro con un produttore francese: priva di materiale da consegnargli a dispetto della scadenza superata, Vitti prova a distrarlo filosofeggiando:

<<Mi scusi, ma perché dobbiamo sempre paragonare la vita a qualcos’altro? La vita non ha bisogno di paragoni, è lei che fa divisioni e sottrazioni. Siamo in fila, in aria e passiamo in un raggio di luce come granelli di polvere. È d’accordo, dottore?>>.

Tutto ha un’anima bruciante in queste pagine, gli oggetti come i luoghi, il mare, la luce, i colori. Le strade appaiono diverse, e a seconda delle ore del giorno raccontano storie differente. Un montaggio può risultare difficile se dall’appartamento di fronte provengono suoni che preludono a un mistero possibile, a un racconto tangente che reclama attenzione.

<<La vita ha una fantasia imprevedibile: non cerca, trova>>.

Io so che tu sai che io so, 1982, Alberto Sordi

Tutto ha un’intensità che non si fatica a ricondurre ai personaggi interpretati, come “musa dell’incomunicabilità” per Antonioni, e come fonte di comicità e leggerezza irresistibili ne La ragazza con la pistola, Ninì Tirabusciò, Dramma della gelosia, L’anatra all’arancia, Amore mio aiutami, Polvere di stelle, Flirt, Teresa la ladra.

La vastità di sentimenti, l’umanità larga, formato stella, sono i tratti che ci hanno fatto amare Monica Vitti al cinema, e che qui risuonano – solo in qualche momento, ché la lettura è trasmissione di pensiero, ad allontanare un po’ il libro si riesce a sentire la voce inconfondibile, calda, che risveglierebbe i morti perché di vita è fatta, e ad altissima frequenza.

<<Vorrei qualcosa di concreto: un albero con le radici che passano sotto il mare, o una barca che navighi anche sulla sabbia. Vorrei una vela attaccata alle spalle, e navigare sulle nuvole. Vorrei un bacio lunghissimo, da levarmi il respiro. Vorrei più di quello che posso desiderare. Vorrei un bambino da cullare mentre lui, curioso, mi osserva le mani. Vorrei un prato. Vorrei una fontana. Vorrei parole chiare, semplici, che non ne nascondano altre. Vorrei un sogno leggero e potermi svegliare per vedermi dormire. Vorrei essere seduta ad ascoltare un amico. Vorrei avere il tempo di capire, il tempo di parlare, di amare. Vorrei che qualcuno ora, proprio in questo momento, non più tardi o domani, mi guardasse negli occhi con semplicità e mi dicesse: “Stai tranquilla, tutto deve ancora cominciare, è stata una prova, una brutta prova, quando farai sul serio il risultato sarà migliore, perché ci sarà il pubblico ad ascoltarti, ad applaudirti”>>.

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