Leggenda narra che siano nati nel marzo 2014 in un box sotteraneo di Roma. Oggi, 25 gennaio, pubblicano il secondo album Guadalupe, un album che conferma la loro volontà di ricercare nuove sonorità senza allontanarsi dai loro impulsi indie-folk.
Loro sono i Mòn, e con quest’ultimo lavoro i giovanissimi cinque componenti della band sono riusciti a creare un variopinto caleidoposcopio di suggestioni e armonie. Già il singolo che ha anticipato l’uscita del disco, IX, pubblicato a dicembre aveva messo le cose in chiaro con quel ritmo incalzante, il contrapporsi della voce femminile e maschile in stile intimista, l’utilizzo del synth e di effetti analogici, le tastiere: un frenetico fondersi di suoni pronto a dar vita al sound che caratterizza le 10 tracce di Guadalupe.
What you love is where you left it
Plants are there for you to cure
Your jug is filled with rain water
While the peak still stands away
Questo nuovo album, che segue Zama, pubblicato nel maggio 2017 sempre per Urtovox Records, ha sicuramente risentito in positivo della produzione di Giacomo Fiorenza, conosciuto per diverse produzioni indie italiane dai primi anni ’90, ma al di là dei dettagli tecnici, è un album che semplicemente funziona.
Tutto sembra mescolarsi alla perfezione: le parole danno il ritmo alla musica, la musica sembra messa lì apposta per cullare i testi. Basta premere play, mettere le cuffie o lasciare che questi suoni esplodano nella propria stanza per accorgersi che quaranta minuti non bastano per assaporare appieno le sonorità della band romana. Uno dopo l’altro i brani sembrano trasportarci da una realtà all’altra, da una dimensione ad una affine ma allo stesso tempo completamente diversa. Mantis che apre il disco, ha toni quasi esotici tropicali scanditi dall’incanzante suono di uno xilofono, mentre a creare un’amofera più intima, come fosse una storia sussurrata ad un orecchio, ci pensa il singolo When I was a child I was afraid of the sea.
“Guadalupe significa il guado del lupo” hanno raccontato loro, “ed è un rito di passaggio. Le immagini scorrono come simboli, rievocando piccoli gesti, sogni e sensazioni”. E traccia dopo traccia, durante l’ascolto di questo album si percorre un viaggio fra tastiere placide che forse a tratti suonano ispirate ai The XX, e lasciano spazio alle calde e sensuali voci di Rocco e Carlotta, sovrapposte in una danza ispirata da cui farsi rapire a trasportare lontano.
Architetture orchestrali fanno da sfondo a un indie dai ritmi incalzanti in Calypso, un brano che si pone quasi come un ritorno alla realtà o meglio, all’attualità, dopo i sogni ad occhi aperti generati dai primi due. Le voci da sole poi accompagnate dalla batteria e dalle tastiere, i silenzi voluti che lasciano il tempo alla mente di vagare un po’ nella musica, e poi perdersi tra rumori e distorsioni. Questi sono gli elementi che contribuiscono alla creazione di un’atmosfera magica, quasi onirica. È un album dettato dagli incastri di voci, di sequenze ritmiche, di strumenti, come dimostra quello che forse è il brano più riuscito del disco, Crowns.
Non si tratta però di un sound completamente inedito: l’utilizzo di tempi lenti e la creazione di atmosfere intimiste è quello che quasi tutti i maggiori artisti e produttori di musica indie-pop hanno tentato di replicare a un certo punto negli anni 2010. E in effetti tra un brano e l’altro è chiaro qualche richiamo a gruppi come i Sigur Ròs, gli Alt-J, i già citati The XX. Sono atmosfere, però, non così facili da trovare nella produzione musicale italiana di questi anni, ma che funzionano evidentemente benissimo a livello internazionale.
La sensazione che resta dopo l’ascolto di Guadalupe è un misto di pace ed euforia, che ricorda po’ ciò che si prova guardando un quadro di Kandinskij: un ordine geometrico che nasconde il caos e viceversa. Ci si perde infatti nei colori dell’ambient e nei richiami al post-rock, si seguono le linee dell’elettrofolk sotto l’onnipresenza dell’indie e nonostante la convivenza di tutti questi elementi, regna una certa armonia. Un’armonia che caratterizza, nel caso in cui l’ascolto non bastasse, anche la copertina del disco e il videoclip che ha accompagnato l’uscita del primo singolo IX, ad opera di Marco Brancato, noto illustratore e animatore bolognese.
Il risultato è un disco eclettico, multidimensionale e ambizioso, che permette ai Mòn di definire meglio la loro personalità, senza rinnegare le proprie origini ma anzi muovendosi da queste.
a cura di Fiorella Di Cillo