Cosa si può dire di Every Country’s Sun che non sia già stato detto, e che non sia stato già detto a proposito di un disco precedente dei Mogwai, a partire da Young Team, l’album con cui vent’anni fa questi quattro ragazzotti scozzesi hanno introdotto al mondo il post-rock con l’intenzione di riportare sulla scena un po’ di “serious guitar music”? Tutto e niente.
Non è una dichiarazione polemica: provare a descrivere i brani dei nostri beniamini di Glasgow è un’impresa che anche in questo caso si colloca tra l’inutile e il necessario, nella convinzione che sfuggirà a ogni possibile descrizione e classificazione. Allora proviamo a cercare dei dati più concreti su cui fornire commenti più significativi: Everybody’s Sun è un disco solido e di contenuti notevoli, a opinione di molti il più complesso e maturo presentato dalla band negli ultimi anni tra LP, soundtracks e varie fin dalla pubblicazione di Hardcore Will Never Die, But You Will, nel 2011.
Vi si riconosce la volontà di costruire un discorso intorno a un centro di gravità, di seguire una traccia precisa nell’esplorazione della pluralità di suoni esplorati nel disco, al contempo individuando un superiore livello di eleganza e raffinatezza nel tradizionale repertorio post-rock. Le chitarre scoprono nuove vie di compenetrazione e sublimazione nelle tastiere e nei Synth, già nel pezzo di apertura Coolverine, a tratti una tipica suite strumentale di chitarre che cresce costruendosi per sviluppi progressivi fino alla cavalcata finale, messa lì a mostrarci da subito che se avevamo pensato ci fosse un livello di profondità e di intensità al di là del quale fosse impossibile giungere, si può andare ben oltre, pur rimanendo all’interno della nostra dimensione e del nostro mondo e senza ricorrere a oppiacei.
Molto diverse le atmosfere di Party in the Dark, al contrario più omogenea e luminosa nei suoni, più genuinamente e melodicamente pop nei vocals, come sempre piuttosto rari nei dischi dei Mogwai. Ancora inaspettate, proseguendo nel disco, ci appaiono le sonorità languide e minimali di Brain Sweetes, e subito dopo le aperture dei synth squillanti di Crossing the Road Material, e così via ogni singolo pezzo successivo, che costituisce un piccolo mondo che ruota intorno, appunto, a un sole comune a tutti, Every Country’s Sun, elegia di chiusura eponima guidata da un solo di chitarra che si avventura attraverso pareti friabili di sonorità appena levigate in delay e distorsione, che ci aiuta a mettere via il disco e tornare ad affrontare il mondo reale.
Insomma, Every Country’s Sun è un disco felice e riuscito, ricco, vario, caldo, in cui ci specchiamo: il sole di cui abbiamo bisogno in questo periodo di buio, al di là dell’appartenenza alla nazione in cui risiede la nostra cittadinanza. John S.W. MacDonald di Pitchfork si chiede ancora una volta la medesima domanda che ha perseguitato la bad dopo tutti questi anni: sono riusciti ad andare oltre, in modo significativo, il ‘guitarmageddons’ del loro primo disco, riuscendo anche ad aggiungere qualcosa di genuinamente interessante? A parere mio come di MacDonald, si e si.
Al tutto va aggiunto il fatto che se non si riduce un disco ai soli contenuti, ma si da la sua giusta importanza anche a come sono suonati, in questo caso ci troviamo davanti a una band fottutamente in forma e che va assolutamente ascoltata dal vivo non appena vi capita, nonostante sia orfana di uno dei fondatori, John Cummings. Eric Clapton qualche giorno fa ha officiato immalinconito l’ennesimo funerale del guitar rock, ma forse è semplicemente offuscato e non sa bene in che direzione guardare. Perché i Mogwai sono tornati, e come ogni volta, nel loro stile assolutamente lontano da qualsiasi pretenziosità, hanno trovato qualcosa di nuovo da mostrarci e da insegnarci, nuovi modi per stupirci.