Con la pubblicazione dell’intenso e corposo Missitalia, Claudia Durastanti si conferma un’autrice da opere uniche. Mettendo in fila i cinque volumi finora pubblicati, si ha la chiara visione dell’appartenenza dell’autrice a una specie rarissima nella giungla della letteratura italiana contemporanea, una specie “temeraria”, come la Amalia Spada che ci viene presentata a pagina 1, che concepisce la scrittura come sfida contro il mercato e con se stessa.
Non c’è un libro che somigli al precedente, nella struttura, nelle atmosfere, nell’ambientazione, eppure tutti sono uniti dalla riconoscibilissima voce dell’autrice, che possiamo quasi ascoltare mentalmente mentre scorriamo le righe sulla pagina. È la qualità della sua scrittura a ricordarci che le sue opere sono indubbiamente parte dello stesso contesto, o anche universo narrativo, se vogliamo anche accettare la sfida della credibilità che ci viene posta dall’autrice quando apriamo una sua pagina e siamo invitati a schierarci dalla parte della fiction o da quella dell’autobiografia.
Missitalia, romanzo dal titolo per molti versi inintelligibile – che cosa ci aspetta, dietro un titolo del genere, ci chiediamo osservandolo misterioso come la luna in copertina, sullo scaffale – esce a cinque anni dal fortunatissimo La straniera, che pure aveva un titolo altrettanto impenetrabile. Cinque anni sono un periodo di silenzio lunghissimo, nell’editoria contemporanea, soprattutto se seguono il libro che ha consacrato l’autrice al mondo della grande letteratura nazionale e internazionale, viaggiando in molteplici traduzioni e numerose lingue. Un libro che, come è evidente a chi abbia seguito le prime prove di Durastanti – ma anche per una dichiarazione esplicita dell’autrice in una precedente intervista al sottoscritto, ribadita durante un bellissimo viaggio in macchina tra Echo Park e Venice Beach a Los Angeles – ha segnato il passaggio alla maturità: un libro con cui si registra il passaggio all’età adulta.
Si tratta di cinque anni riempiti di pezzi brevi, traduzioni di opere altrui, articoli di musica e cultura, cura di volumi per una collana importante come La Tartaruga, partecipazioni a convegni ed eventi e migliaia di presentazioni sparse in tutto il globo, che sono fermentati variamente e finalmente ci consegnano un’opera che si può affiancare alla precedente per la capacità di meravigliare, sorprendere, disattendere, spiazzare qualsiasi tipo di aspettativa, al pari della Straniera.
In copertina, il rosso acceso del primo volume per Nave di Teseo è stato sostituito dal blu intenso su cui torreggia, misteriosa, una luna piena. Il numero di pagine decisamente importante promette un riscatto immediato al lettore impaziente: sono passati cinque anni, forse ne passeranno altri cinque, ma intanto, anche a livello quantitativo, è un’attesa che è ricompensata. Il punto che voglio sollevare preliminarmente, in un momento in cui pochi hanno davvero potuto leggere in modo approfondito il volume, e dunque in cui è meglio accennare che rivelare troppo, è che non si può scrivere un libro come Missitalia subito dopo La straniera, se non attraversando molteplici strati di realtà vissuta: come scriveva Montale, c’è un tempo per vivere e uno per scrivere.
Fin dall’inizio, Durastanti a questo giro ribalta la prospettiva: il volume tradisce un desiderio di abbracciare totalmente la fiction e porsi al di là delle ambivalenze annunciate dal memoir-ma-anche-no La straniera, tenuto in equilibrio dalla capacità di Claudia Durastanti di dire e contraddire e risultare in ogni caso convincente, seppure non venga meno l’abilità del portare avanti una storia e poi subito dopo smentirla con una narrazione opposta, come nei due ritratti della madre e del padre che aprivano il libro precedente. Se La straniera era un memoir che faceva finta di essere un memoir, Missitalia è un romanzo storico che racconta una storia perlopiù inventata, strizzando l’occhio a Elsa Morante, procedendo di secolo in secolo verso il futuro, ma è soprattutto un romanzo che cerca il dialogo a distanza tra tre donne dall’esperienza importante.
Credo che Durastanti riesca a parlare meglio di sé quando si nasconde, e dunque in Missitalia torna alle origini raccontando storie multiple che esplodono nel tempo e nello spazio partendo da un incipit di quelli che si scolpiscono nella pagina e restano impressi come un marchio sulla pelle, quasi da farsi tatuare: “Era temeraria”. Il focus è sulla Lucania e sulla Val D’Agri, una dimensione molto presente nella Straniera ma che qui diventa totalizzante, un universo dotato di sue regole che scorrono parallele a quelle del nuovo stato d’Italia appena formato, nella prima sezione ci presentano Amalia Spada come eroina cresciuta in un contesto matriarcale. Dal passato più distante, che coincide con l’origine dell’identità che l’autrice ha abbracciato in modo sempre un po’ obliquo nella sua fiction, come nella vita, ci si sposta a Roma negli anni ’50, seguendo il viaggio di Ada che si rivela una spia alla scoperta delle radici magiche rimaste sepolte in un Sud Italia che non vuole inseguire il resto della penisola nella sua corsa verso le contraddizioni del progresso.
Ma è nella terza sezione che Durastanti osa e stupisce, inseguendo un desiderio di esplorare nuovi modi di raccontare il Sud che aveva già evidenziato nella fortunata intervista concessaci a ridosso all’uscita della Straniera, che sono anche percorsi che individuano nuovi modi di esplorare il sé attraverso la moltiplicazione delle sue proiezioni. Durastanti dunque una e molteplice, al pari di un autore nato nel giorno dell’uscita di Missitalia, Pier Paolo Pasolini, con cui condivide l’elezione della capitale come città elettiva, e “temeraria” come chi decide di imbarcarsi in un’impresa simile, capace di coltivare visioni del futuro popolate da personaggi calviniani come A, che ha abbandonato la Terra fuggendo verso la Luna.
Dal paesaggio calcareo dei Calanchi a quello del satellite che ci è più vicino, il mondo magico di Missitalia ci racconta donne sprovvedute ed eroiche come Chloe e Cleopatra, come la madre e la figlia nella Straniera, e l’epica sfrontatezza con cui la voce di Durastanti si traduce in scrittura si dipana e riavvolge in stili diversi procedendo sempre più sicura, sempre più evocativa.
La pagina si arricchisce di nuove letture, grazie all’esperienza della traduzione, della cura delle autrici pubblicate per la Tartaruga, delle avventure vissute sulla strada presentando le sue molteplici attività, diventa un faldone incontenibile, un balenottero inafferrabile e che non si può contenere con le parole come un Moby Dick scritto a duecento anni di distanza che cerca di imprimerne sulla carta la durata. Ci sono scrittori che fanno tremare i muri di una biblioteca mettendo in fila due parole: penso al Moravia di Gli indifferenti, al García Márquez di Cent’anni di solitudine, al Conrad di Heart Darkness, alla Morrison di Beloved, alla Luiselli del Lost Children Archives, e ribadisco che la voce della Durastanti di Missitalia è quella più adatta a descrivere il qui e ora del nostro paese e affermarne il no, “in thunder”, come appunto affermava Melville: è tutto qui, quello che non siamo, tutto qui quello che non vogliamo. Gli eventi che seguono diventano una spiegazione quasi irrilevante di fronte alla monolitica apertura che annuncia secoli di letteratura, eppure ci si perde dentro con la facilità di una nuotata. Ogni pagina fondamentale e inessenziale, ogni pagina impregnata del suo passato e del suo futuro.
Parlando del romanzo, Claudia mi scrive che le dispiace di essere finita così lontano dalla nostra amata Chloe, una frase in cui risuonano più cose di quante se ne possano immaginare. Ma io trovo che Chloe sia in ogni pagina di Missitalia, e l’unica cosa che non perdonerei a Durastanti, dopo ormai dieci anni di assidua lettura che hanno accompagnato e facilitato il mio progressivo reinsediamento in Italia e almeno cinque di chiacchierate e messaggi digitali che restano sospesi in una dimensione temporale autonoma, sarebbe quella di scegliere di descrivere un personaggio che tradisca quest’incipit, dimostrare di aver deposto le armi, di non essere più “temeraria”. L’altra cosa, è che anche stavolta mi viene da chiedermi, a libro chiuso: ma è una storia vera?