Nino Pedretti è un poeta da riscoprire. Si è appena conclusa la terza edizione del Cantiere Poetico per Santarcangelo in Romagna, quest’anno dedicato alla figura di Pedretti e ai suoi bellissimi versi. Abbiamo raggiunto la figlia del poeta, Anna, per farci raccontare com’è andato il Cantiere, perché vale la pena riscoprire i versi di Nino Pedretti e chi era l’uomo dietro il cantore. Un ritratto che è anche viva testimonianza del nostro Paese e della poesia del Novecento italiano. Con un invito a leggere i versi.
Il Cantiere Poetico per Santarcangelo quest’anno era dedicato alla figura di Nino Pedretti, poeta italiano. Com’è andato l’evento? E in che modo ha risposto la cittadina che ha dato i natali a tuo padre?
L’edizione del Cantiere poetico di quest’anno è andata davvero molto bene e i cittadini hanno risposto con un entusiasmo sorprendente. Sono stati coinvolti soprattutto i giovani attraverso azioni di poesia urbana con letture e recitazione di versi e brani per le strade, e laboratori teatrali. Tutti gli spettacoli sono stati seguitissimi e con enorme affluenza di pubblico. Emozionante per la partecipazione e l’interesse della gente è stata la serata in cui si chiedeva a chi avesse piacere di leggere o recitare poesie o monologhi di mio padre. C’è stata una risposta calda ed entusiasta, con un’affluenza da ogni parte della Romagna e dell’Emilia. Bisogna ringraziare anche l’organizzatore e ideatore del Cantiere, Fabio Biondi.
Tra i vari ospiti c’era anche il cantautore Mannarino, che abbiamo scoperto essere influenzato dalle poesie di Pedretti. Lo hai incontrato per l’occasione?
Sì, ho incontrato di persona Mannarino ed è stato un incontro piacevolissimo. Ho trascorso assieme a mio fratello Paolo un bel pomeriggio con lui prima della sua esibizione serale a parlare di mio padre, della poesia, dei suoi viaggi, della gente. È una persona deliziosa e autentica, dai modi molto semplici, immediati, che ha una sua visione poetica. Anche lui come mio padre molto sensibile alle ingiustizie sociali, alle istanze dei più deboli e meno fortunati, degli offesi e i calpestati, con un’insofferenza forte verso il Potere e certe imposizioni. E come mio padre sente profondamente il valore delle cose più piccole e semplici, la bellezza e l’importanza dei silenzi… È mia figlia che me l’ha fatto conoscere: è entusiasmante ascoltare la sua musica per l’energia e gioia di vivere che trasmette, ma nei suoi testi c’è anche rabbia, denuncia e desiderio di consegnare messaggi importanti.
Nino Pedretti è il poeta delle piccole cose, dell’umanità. Spesso nelle sue poesie si sente forte la presenza dell’uomo comune, come Federico García Lorca sembra essere il portavoce e il cantore degli esclusi. Che tipo di uomo era tuo padre?
Sì, mio padre amava cantare le piccole cose, riusciva a vederci dentro ricchezza e poesia: un tavolo, una sedia, una bottiglia, una porta, evocavano in lui immagini poetiche, calde, spesso legate ai ricordi d’infanzia. Sosteneva di non avere bisogno di possedere tante cose perché aveva un mondo dentro di lui che lo faceva sentire ricco. Era affascinato dalle persone più umili e semplici, che secondo lui avevano un maggior ‘senso armonico’ della vita, da quelle che ogni giorno usavano con fatica le mani per vivere, si sentiva vicino alla loro sofferenza e cercava di dare loro la voce che non potevano avere.
Gran parte dell’opera di Pedretti è scritta in dialetto romagnolo, eppure la forza poetica delle sue parole non si perde tradotta in italiano. Secondo te il dialetto ha frenato la diffusione dei suoi versi?
No, non penso che il dialetto abbia frenato la diffusione delle sua produzione poetica. Penso che la responsabilità risieda molto nella pigrizia, ignoranza e poco coraggio di tanti intellettuali, giornalisti, editori e librai che preferiscono andare dietro a certe mode e certi autori di affermato e sicuro successo, e non mettere in evidenza e riconoscere la grandezza di autori che sono scomparsi prematuramente e non hanno avuto il tempo (o la possibilità) di farsi conoscere o far parlare di sé. Insomma è mancata una certa onestà intellettuale da parte degli ‘addetti ai lavori’. C’è anche da dire che mio padre si è trovato a vivere insieme ad altri grandi poeti di Santarcangelo (Tonino Guerra, Raffaello Baldini – ndr): era loro grande amico, e le loro figure han preso un po’ il sopravvento dopo la sua morte. Ma la gente comune che sente le poesie di mio padre ne riconosce subito forza e bellezza, ne rimane folgorata e ha voglia di continuare ad ascoltarlo, e questo è quello che conta.
Poi ci sono anche delle belle eccezioni, come l’editore Raffaelli di Rimini che qualche anno fa ha curato la ripubblicazione di tutte le sue poesie in lingua, con dei bellissimi inediti, tutti i suoi monologhi e racconti, cogliendone la grandezza e la dimensione ‘internazionale’. Il tutto anche grazie alla sollecitazione della professoressa Tiziana Mattioli dell’Università di Urbino, che ha tenuto corsi sulla scrittura di Pedretti e organizzato un seminario di studi sulle sue opere nel 2012. Senza dimenticare il grande attore Silvio Castiglioni, che in questi ultimi anni ha interpretato e curato la regia di diversi suoi monologhi in molti teatri italiani. E ancora la cantante e attrice Daniela Piccari (figlia di uno dei primi editori di mio padre), che per mio padre ha un affetto profondo e per anni ha messo in musica le sue poesie.
Il dialetto era anche un modo per tuo padre di sentirsi più vicino alle persone di cui scriveva?
Per rispondere a questa domanda ti riporto ciò che lui scrisse in una nota introduttiva alla sua prima raccolta “Al vòusi”:
Contrariamente alle apparenze, scrivere in dialetto è un operazione molto rischiosa. La lingua dialettale infatti può facilmente condurre verso le sterpaglie del luogo comune e del vezzo plebeo. (..) Il dialetto sta per morire, è ormai agli sgoccioli, chiuso nei paesi dell’interno e travolto dalla lingua dei mass-media. In quest’area risicata e terrosa, questa lingua umiliata, questo relitto, come può ancora esprimere, liberare, farsi arte? Dipende dall’operatore, che non deve farsi illusioni, che deve usare il suo strumento nella direzione giusta. Il dialetto per essere stato la lingua del sotto proletariato e del proletariato non può essere che la lingua della sofferenza, di dolore e di rabbia. Il dialetto è per me una lingua tragica. Senza mezzi termini, senza figure allusive, questa lingua brutale serve all’artista per portare testimonianza di quello che egli ha veduto, e cioè la miseria fisica e morale, l’ingiustizia, la sofferenza collettiva delle classi oppresse nella guerra, nel lavoro, negli uffici, nelle fabbriche. E poiché questa storia non è finita, poiché ancora viviamo in un mondo di privilegi e di soperchierie, questa voce del passato a me sembra attuale e presente, e nell’eco della passata sofferenza me ne fa sentire una nuova, più mascherata, ma non meno esiziale, dentro la gommosa società del momento. Ma c’è dell’altro; è quella nota allegra, quell’ilare e coraggioso piglio del povero abituato all’ingiuria, che ci accompagna nel comporre in questa lingua, una qualità che s’appoggia al gusto elementare del vivere, a certe immediate verità del cuore sulle quali resiste la forza morale del popolo. (..) Umilissimo come l’acqua e pieno di virtù, il dialetto del mio paese ha un’immensa ricchezza fonica e un’eleganza ritmica che piega il lessico e lo costringe al rigore del suo spartito. Il dialetto è una lingua parlata e perché tale, è un messaggio caldo di fiato, è un suono della carne.
Pedretti meriterebbe di essere riscoperto tra i grandi poeti del Novecento italiano. Penso a versi come:
“Non è per via della gloria, che siamo andati in montagna, a far la guerra. Di guerra eravam stanchi, di patria anche. Avevamo bisogno di dire: lasciateci le mani libere, i piedi, gli occhi, le orecchie; lasciateci dormire nel fienile, con una ragazza. Per questo abbiam sparato, ci siamo fatti impiccare, siamo andati al macello col cuore che piangeva, con le labbra tremanti. Ma anche così sapevamo che di fronte a un boia di fascista noi eravam persone, e loro marionette.”
Riescono a essere ancora attualissimi, eppure continua a restare un poeta sotterraneo.
Sono pienamente d’accordo sul fatto che mio padre, pur avendo come poeta e studioso di lingue una grande statura, sia rimasto ingiustamente e per troppo tempo nell’ombra, e che di lui si sappia molto poco. Speriamo che questo Cantiere poetico sia stata una buona occasione per invogliare tanti a leggerlo e studiarlo di più.
Che ricordi hai di tuo padre? Raccontaci un aneddoto per capire l’uomo dietro il poeta.
Mio padre è morto tanto tempo fa, nel 1981 e io ero allora molto giovane, i miei ricordi quindi sono piuttosto vaghi e sfocati. Lo ricordo sempre in mezzo ai libri a leggere o studiare qualcosa. Un’immagine molto nitida che ho è lui – seduto davanti all’inseparabile macchina da scrivere – battere i suoi testi, che quasi sempre poi leggeva a mia madre per sentire se la convincevano, se ‘suonavano bene’. Era un uomo curioso di tante cose, appassionato d’arte (aveva tantissimi amici pittori con cui amava intrattenersi), di musica classica, jazz e cinema. Inquieto e sempre alla ricerca di stimoli per le sue creazioni, insofferente verso ogni tipo di banalità, mediocrità e volgarità. Era capace di trascorre ore seduto al tavolo di un bar a osservare la gente, i particolari, che poi riportava nei suoi versi. Timido ed estroverso allo stesso tempo, a seconda delle persone e situazioni che incontrava. Aveva un forte senso dell’amicizia e ci teneva a coltivare rapporti veri e intensi. Sapeva farsi voler bene. Era capace di capitare nelle case altrui senza preavviso, a qualsiasi ora, preso dall’entusiasmo e desiderio di far ascoltare qualche suo nuovo verso e avere il loro parere. Ricordo soprattutto a casa dei suoi amici poeti di Santarcangelo bellissime chiacchierate sulla poesia, il dialetto, l’arte, la politica. Poi mio padre che aveva uno spiccato e acuto senso dell’ironia e diventava divertentissimo facendo imitazioni di questo o quel personaggio.
Viveva male il suo lavoro di insegnante di liceo, perché si sentiva costretto da certe imposizioni, frustrato dalle ‘assurdità burocratiche’ e i mancati riconoscimenti. Era cronicamente distratto, concentrato nei suoi pensieri e fantasie. A volte a noi figli capitava di incontrarlo per strada senza che lui ci vedesse neanche, oppure se a casa qualche amico ci cercava al telefono lui dimenticava di chiamarci e teneva l’interlocutore in vana attesa per lungo tempo. Ricordo che una volta si dimenticò di venirci a prendere alla fine di uno spettacolo circense e dovemmo aspettare ore prima che arrivasse. Sicuramente, come tanti artisti, non è stato un padre facile, soprattutto quando eravamo piccoli e avevamo bisogni concreti e immediati, e non potevamo apprezzare la grandezza di certe cose. Ora da persone adulte è diverso, e godiamo di più di quei ricordi.
“La poesia si fa con tutto il corpo e non solo coi sentimenti. Voglio dire che il corpo e tutto quello che lo muove diventa poroso, filtra, lascia passare odori di cose. Gli occhi, le mani, il ventre, l’arcata del petto sono investiti da questo vento che ci scuote, che ci fa partorire i sogni”, scriveva Pedretti. Questo corpo di Pedretti, che pullula vivo nei suoi versi, che corpo era?
Il corpo, in quanto sede dei sensi, per mio padre era importantissimo, e come hai visto lo dice spesso nelle sue poesie. Erano importantissimi gli occhi, le orecchie, le mani, la pelle e il naso per sentire gli odori delle cose.
“Non ditemi che il mondo è brutto /ammalato, ridotto in merda. / Il mondo ha bisogno di bellezza / anche se ti urla il cuore / anche se ti mozzano le dita” – tuo padre era un ottimista?
Forse ottimista non è una definizione giusta per lui. Era fortemente innamorato della vita, con un senso tragico delle cose e della vicenda umana, perché destinata a subire i colpi del tempo e della morte, così presente nelle sue poesie.
Quanto credeva nella poesia e nel potere della parole tuo padre?, perché è una cosa che si sente nei suoi versi come necessaria.
La poesia era per lui la salvezza, il SUO modo di stare al mondo, non c’era vita per lui senza poesia. Le parole erano importantissime, una materia che lui sapeva maneggiare con grande maestria, ed era fondamentale per lui trovare il vocabolo giusto, quello più preciso che definisse al meglio ogni cosa. Avevamo a casa non so quanti vocabolari.. Con le parole si divertiva anche, e molto. Tra gli studi che lo appassionavano c’erano quelli di linguistica e quelli che indagavano le relazioni tra linguaggio e pensiero. Ricordo che diceva che la lingua inglese riflette perfettamente il carattere pratico e concreto del suo popolo, per esempio mi faceva notare che i verbi ‘accendere’ e ‘spegnere’ in inglese descrivono un’azione, e non un concetto astratto come in italiano.
Ha vissuto anche in Germania, per un periodo..
Della sua esperienza in Germania non so molto, perché avvenne un po’ di tempo prima che io nascessi. Ma dai ricordi che ho fu un’esperienza molto importante per lui, soprattutto per la lingua da cui era affascinato. Lì ebbe anche una prima relazione amorosa intensa, ma aveva trovato lavoro come impiegato di banca, quindi era costretto a fare qualcosa che non era nelle sue corde, e dopo qualche anno tornò in Italia.
E ora come gestisce Santarcangelo la sua eredità?
Quasi tutto il materiale e documenti si trovano presso l’Archivio della Biblioteca comunale di Santarcangelo, alla quale mia madre consegnò anni fa le sue carte.
E allora non resta che leggerlo, Nino Pedretti.