Milkman e le mille declinazioni della violenza

Tra i vincitori passati più in sordina degli ultimi Man Booker Prize quest’anno vinto ex equo dall’accoppiata Evaristo / Atwood c’è sicuramente Milkman di Anna Burns, arrivato da pochi mesi in Italia grazie a Keller Editore con la traduzione di Elvira Grassi.

Il giorno in cui Qualcuno McQualcuno mi ha puntato una pistola al petto e mi ha chiamata gatta e ha minacciato di spararmi è lo stesso giorno il cui il lattaio è morto.

Anna Burns – autrice nordirlandese, classe 1962 – ci trascina nella Belfast degli anni Settanta, nel pieno del conflitto dei Troubles – durati formalmente dal 1968 al 1998. In un contesto storico e geografico solo vagamente accennato che disegna i confini di una realtà distorta, come nelle migliori distopie in cui l’eco del passato continua a modulare il presente e il presente continua a prestarsi come calco di un passato irrisolto.

Anna Burns fotografata da Nils Jorgensen/Rex/Shutterstock

La voce che assorbe e ingloba tutte le vicende per poi restituircele con lunghi, a tratti soffocanti, paragrafi è quella di una diciottenne senza nome, che si presenta a noi solo attraverso le sue relazioni con gli altri. Lei, la protagonista, è sorella-di-mezzo, poi c’è quasi-fidanzato, ma’. Di nessuno ci viene concesso di sapere il nome, a partire dal Lattaio che dà il titolo al libro, per cui l’incipit si fa tragicamente rivelatorio e che l’accompagnerà per tutta la narrazione.

Sorella-di-mezzo viene infatti seguita dal Lattaio – un uomo adulto con più del doppio dei suoi anni –, sfiorata senza mai essere realmente toccata, giudicata da quest’ultimo nelle sue azioni quotidiane e poi dalla comunità in cui vive perché da questo strano rapporto, da cui non trova la forza di svincolarsi o non ha semplicemente i mezzi per farlo, iniziano a germinare dicerie e gli sfoghi delle malelingue.

Le cose stavano in questo modo: il lattaio non mi aveva toccata. E nel secondo incontro non mi aveva neppure rivolto lo sguardo. Perciò, su quali basi potevo affermare che il lattaio aveva imposto la sua presenza nella mia vita? Ma è così che andavano le cose da noi. Tutto doveva essere fisico, tutto doveva essere intellettualmente ragionevole per poter essere comprensibile.

Burns affonda le mani in una storia a lei vicina, la spoglia dei connotati che possono rendercela distante – se non per dovuti riferimenti, come quello che assomiglia alla seconda ondata di femminismo – e ci presenta circostanze più che riproponibili nell’oggi. Milkman infatti dipinge con una tensione narrativa invidiabile gli effetti che un clima di militarizzazione ha sulle popolazioni e le conseguenze di quest’ultimi. E lontano da ogni retorica tratteggia un reale in cui a pagarne le spese sono sempre i più “deboli”, le minoranze; dove inevitabilmente ogni azione violenta si manifesta amplificata nei riguardi delle donne.

La parola “femminista” era inaccettabile. La parola “donna” si sollevava di poco dall’inaccettabilità.

Tra queste donne ci sono anche le giovani, e sorella-di-mezzo. Violentata non fisicamente ma nello spirito da un esercizio di controllo della società, e poi nello specifico dal lattaio. La capacità di Burns sta nel tracciare la violenza come qualcosa di ben più articolato dello stereotipo che ci viene proposto – anche a poco più di una settimana dal venticinque novembre. La violenza, e quindi anche la violenza di genere, può prendere pieghe ben più sottili della violazione fisica e si annida in atteggiamenti di controllo sulla libertà e il pensiero della persona estremamente invasivi anche quando non platealmente manifesti ai nostri occhi. Esistono e logorano alimentati dalla mentalità capillare che li vuole taciuti.

La protagonista si fa esempio di tutte le piccole rinunce a cui le donne sono costrette pur di risultare invisibili a chiunque possa approfittare e abusare del proprio potere, come abbandonare il suo innocuo leggere l’Ivanhoe camminando. Non importa quanto si è davvero in pericolo; la vulnerabilità percepita, soprattutto in un clima di pieno conflitto, può essere castrante come una ferita aperta. Così come non importa quanto accada realmente, ma come il passaparola che ti ritrae come una “poco di buono” possa macchiare un’esistenza come una condanna.

Lo sguardo di Burns però non si limita alla sua protagonista, ma anzi attraverso i suoi passi e i suoi incontri arriva a ritrarre un intero clima di tumulto di una società che ha ormai elaborato e integrato la violenza come sfondo fisso e strumento assuefacente. D’altro canto il gioco di rimozione di nomi e definizioni rende sbiadite anche le fazioni del conflitto, ma non l’impronta vivida della brutalità nell’immaginario collettivo e le conseguenti piaghe sulle salute mentale, come la diffidenza costante e in ultimo il male oscuro di questo e altri tempi: la depressione.

Ovviamente a quel tempo non si parlava di stati depressivi. Li chiamavano gli “umori”. Le persone avevano gli “umori”. Erano “umorali”.

Oltre la capacità dell’autrice di gestire un quadro sociopolitico complesso nonostante la mancanza voluta di coordinate, uno dei punti di forza di Milkman risiede nella lingua usata da Anna Burns. Spesso ironica e sferzante nei toni ma sempre in grado di scendere nell’abisso collettivo, Burns gioca continuamente con le parole cambiando spesso ritmo – perfettamente riproposto nella traduzione di Elvira Grassi – e registro. L’impatto col testo non è dei più facili, ma è proprio nel muro di paragrafi che si respira con difficoltà, come se avessimo un peso sul petto, il senso di attanagliamento di Sorella-di-mezzo. Per poi in qualche modo adeguarsi, e in ultimo vedere la luce.

Come ha ammesso lo stesso presidente di giuria del Man Booker Prize: «Non è una lettura leggera. È una sfida nel modo in cui lo è scalare una montagna: ma ne vale la pena, perché una volta in cima la vista è magnifica».

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