I migliori libri che abbiamo letto nel 2017 | L’indiependente

È un gioco che si fa tutti, a un certo punto delle ultime settimane di dicembre, e i titoli che escono fuori da blog e riviste sono più o meno gli stessi, un po’ perché i grandi libri li si riconosce in modo universale, un po’ perché non è che ogni anno ne escano centinaia. Noi de L’indiependente ne abbiamo scelti dieci, ognuno di noi per una ragione specifica: piuttosto che fare classifiche, cerchiamo di capire per quale motivo questi dieci libri ci sono piaciuti così tanto.

KENT HARUF – LE NOSTRE ANIME DI NOTTE

NN Editore

Kent Haruf scrive Le nostre anime di notte in fin di vita. Sa che è malato, sa che potrebbe trascorrere il tempo in due modi: affliggendosi in una stanza o concentrando le energie su una nuova storia. Sceglie la seconda strada perché è quella che gli infonde più sicurezza, quella che conosce meglio. I protagonisti, Addie e Louis, sono una donna e un uomo sulla settantina. Hanno vissuto più della metà della loro esistenza a Holt, una cittadina dal carattere posticcio, provinciale. Prendono a dormire insieme la sera per un’idea di Addie, ormai sola dopo la morte del marito e l’allontanamento del figlio. La proposta di Addie non ha a che fare col sesso: è piuttosto una richiesta d’aiuto ad un uomo che sente vicino e che potrebbe tenerle compagnia per i giorni a venire. Louis resta meravigliato da tanta intraprendenza, tuttavia si lascia avvolgere dal calore e dall’umanità accogliente di una donna che non è avvizzita ed è ancora capace di cogliere la bellezza di un incontro e le sfumature del vivere. Ci mette poco la gente a mormorare, ma Addie e Louis se ne infischiano: arriva sempre un momento nella vita in cui riesci ad ignorare il pensiero dominante e a fare proprio quel che ti va di fare. Addie e Louis si aggrappano l’una all’altro e si incontrano dentro le parole. Mettono in pratica il trucco di Sherazade che procrastinava la morte col racconto. Una dichiarazione d’amore universale, un lascito per chi vorrà e potrà comprenderne il senso. (Marina Bisogno)


MICHELE MARI – LEGGENDA PRIVATA

Einaudi

 

Michele Mari in Leggenda privata è un contorsionista e un feticista, in sostanza un fanatico del manierismo. Un bel modo di iniziare il 2018, direte voi. In realtà, lo è sul serio, se volete leggere qualcosa di diverso dalla dilagante sintassi asciutta e secca, dal lessico sempre più quotidiano e piatto, dall’ironia denigratoria e nichilista. In Leggenda privata si recupera lo studio della lingua come studio del mondo, lo studio della propria vita come analisi di una mitologia (per questo motivo “Leggenda”), e della scrittura come corazza, maniera che permette di rompere la reticenza, finalmente. E in più, a sorpresa, si ride. È la classica forma tragicomica: le piccolezze della vita quotidiana vengono trattate col filtro letterario e solenne dell’autore, che smorza il sorriso del lettore attraverso la percezione parallela dell’importanza effettiva e dell’ingigantimento sproporzionato. Nel libro, una sorta di autobiografia, lo scrittore rielabora la sua infanzia, la nascita dei suoi fantasmi, il suo rapporto asimmetrico con i mostri che nel frattempo proietta: i Membri dell’Accademia (rappresentanti del tipico lettore voyeurista) e i genitori. Da un lato troviamo quindi un presente psicotico, in cui lo scrittore dialoga (o piuttosto combatte) con gli immaginari Membri dell’Accademia che lo spingono a scrivere il libro, e dall’altro un passato fatto di reticenze in famiglia, punizioni, autodistruzione della madre e carneficina, inconsapevole e inevitabile, del padre. Nel farlo, lo scrittore si avvita su sé stesso, linguisticamente e analiticamente, una contorsione che cerca il perduto rapporto col mondo attraverso l’attaccamento a frammenti di realtà e la loro interiorizzazione spasmodica, e qui si spiega il feticismo in tutto il suo psicotico ricamo. Ciò che viene rimaneggiato sono nomi, parole, e quindi cose, e dunque ricordi. (Alice De Gregoriis)


MOHSIN HAMID – EXIT WEST

Einaudi

Exit West non è un bel libro, perché descrive in modo fedele una realtà brutta, quale quella in cui viviamo. Proseguendo l’esplorazione avviata in Il fondamentalista riluttante (2012), forse suo malgrado Hamid instaura un dialogo con uno dei libri che mi ha più colpito l’anno scorso, Bussola di Mathias Énard. Direi che Exit West è tutto ciò che è stato il libro di Énard, ma al contrario, un suo complementare. Se Bussola è stato criticato perché succube di una certa visione esotizzante dei paesi musulmani e intendeva restituirne la meraviglia al lettore disincantato e sommerso da immagini di terrorismo e violenza, Hamid riporta la nostra attenzione proprio su questo Oriente che nessuno vorrebbe vedere. Attraverso la vicenda di due giovani personaggi che cercano di avvicinarsi sentimentalmente senza riaprire le loro ferite, molto diversi tra loro ma uniti dallo stesso trauma, così come erano stati, nelle loro diversità accademiche, i due protagonisti del libro di Énard, Hamid ci racconta la caduta progressiva verso il baratro della guerra civile di una cittadina senza nome che potrebbe trovarsi in uno qualsiasi dei paesi vittima dei conflitti dalle cui immagini siamo bombardati ogni giorno. Non c’è tentativo di romanticizzare una realtà brutale, né di nascondere o minimizzare niente, seppure il libro di Hamid proceda col tono sospeso di chi scopre le cose passo dopo passo e sembra non comprendere pienamente ciò che succede intorno, e a tratti parli il linguaggio della fantascienza, a tratti peschi nel fantastico più deliberato. La storia che Hamid mette in scena ci riguarda anche nel momento in cui si svolge in posti che vediamo al telegiornale, e ci riguarda in particolare nel momento in cui i protagonisti diventano dei migranti che vengono a bussare alle nostre case. Allora possiamo concordare coi molti critici che hanno scritto che Exit West, che forse non è bello, né appassionante, sia un libro “necessario”, così com’è stato necessario un certo Pasolini, quando ha mostrato con ostinazione problemi occidentali di cui nessuno all’epoca voleva prendere coscienza. Se avete amato Bussola perché vi ha trasmesso il desiderio di scoprire questi paesi, provate anche ad aprire gli occhi sul retro scuro della cartolina, che parla direttamente alla nostra coscienza di occidentali. (Francesco Chianese)


MORTEN A. STROKSNES – IL LIBRO DEL MARE

Iperborea

Hugo e Morten hanno un obiettivo: catturare lo squalo della Groenlandia, mostro rozzo e atavico, longevo come una leggenda e terribilmente reale. I due perlustrano a più riprese le acque limpide delle isole Lofoten, tra distese di sole abbagliante e solitudini artiche, trascinati dall’irresistibile impulso che spinge il capitano Achab all’inseguimento di Moby Dick. Sotto di loro, dall’altra parte delle terre emerse, si stende un mondo silenzioso e multiforme- vivo e ricco di mistero. Il libro del mare spazza via il romanticismo polveroso ed estetizzante -l’immenso mare vagheggiato- e lo sostituisce con pesci, barche, gomene, marosi. Alla meraviglia di una natura spettacolare come in Verne, si aggiunge la risposta agli infiniti tecnicismi che popolano le pagine di Melville e Conrad: raccontare il mare esige parole esatte . E il norvegese è una lingua mare-centrica, contemplante navigazione e pesca, silenzi rotti solo dallo sciabordio delle onde e varietà di tempeste. Tra reportage e racconto naturalistico e di avventura, un libro estremamente fisico: dalla puzza di budella putrefatte all’odore di paraffina, dalla massa scivolosa e mobile del grasso di balena al riflesso della luce sull’acqua, dai flutti che schiumano bianchi e si disperdono in moltitudini di gocce, al vento gelido che sembra frizzarti nelle narici. Una lettura originale con un’aneddotica vasta, frutto di un lungo lavoro sulle testimonianze e di una corposa bibliografia che spazia dalla letteratura: Rimbaud, Verne, Conrad, Poe, Stevenson, Melville, all’oceanografia, passando per miti e leggende, astronomia ed ecologia. Storie di guardiani di fari cui fanno compagnia libri di saghe islandesi; bestiari del Cinquecento popolati da sconvolgenti mostri marini; apparizioni di sirene e tritoni; incauti turisti del mare risucchiati dalle onde; delfini che salvano umani e umani che distruggono ecosistemi. Indagare il mare è cercare le origini stesse della vita, realizzare di abitare il rovescio sbiadito e limitato di un pianeta blu, elettrico e meraviglioso. (Simona Ciniglio


FERNANDO ARAMBURU – PATRIA

Guanda

Patria è un romanzo che mette al centro della narrazione non solo il destino intrecciato di due famiglie, ma anche le sorti del popolo basco e di un’intera nazione, la Spagna. Il libro di Fernando Aramburu è diventato un caso letterario ed è stato tradotto in undici lingue, raggiungendo culture e comunità diverse da quella che viene presentata e analizzata nelle 632 di quest’avvincente saga, basata su trame politiche, sociali e sentimentali, e che ruota principalmente intorno agli esseri umani con tutti i punti di forza e le fragilità che li caratterizzano. Dopo aver preso confidenza con l’euskera, i nomi e le parentele che legano i personaggi tra di loro, il racconto accelera e i tasselli del puzzle iniziano a incastrarsi uno dopo l’altro, unendo le vicende inventate ai fatti di cronaca, veri e propri atti terroristici causati dall’ETA, macchiando di sangue la Spagna per mezzo secolo fino al 2011. Da una parte Txato e Bittori e dall’altra Joxian e Miren, due coppie che vivono sospese in un limbo fatto di omertà e insicurezze, di porte chiuse in faccia e di messaggi minatori. I protagonisti di questa storia non versano lacrime, ma cercano giustizia e seguono ideali duri a morire, anche quando la paura si insinua serpeggiando nei luoghi sicuri, dove la vita continua dietro i battenti serrati delle finestre. Questa è un’opera che tiene il lettore incollato alle sue pagine fino al mattino, mentre la tensione narrativa cresce e gli occhi si arrossano di lacrime e di stanchezza. Leggere Patria è un esercizio indispensabile non solo per ripassare la storia dei Paesi Baschi, ma anche per comprendere i recenti movimenti indipendentisti catalani, legati da fili invisibili alla corona di Spagna. (Ilaria Del Boca)


LAWRENCE OSBORNE – CACCIATORI NEL BUIO

Adelphi

Cacciatori nel buio è un thriller del sessantenne inglese Lawrence Osborne, autore della genia dei Graham Greene, dei Paul Bowles, vale a dire di quegli scrittori viaggiatori tra mondi diversi (nel suo caso Parigi, la Turchia, il Marocco, Bangkok) che portano addosso, insieme ai propri abiti firmati, la morbida eleganza delle parole con cui tessono il racconto consegnando al lettore, al posto della curiosità verso un oriente misterioso, la ricerca di uno specchio esotico e deformante dove più nitido appare, improvviso, il vuoto di senso che attraversa le vite occidentali, perennemente coperte da quella patina di rumore spazzato via violentemente al contatto con l’aria densa di luoghi lontani che non lasciano più alcuna possibilità di fuga da se stessi.  Cacciatori nel buio, soprattutto è un noir capace di avvolgerti nell’indolenza cambogiana, nel fumo delle sigarette Alain Delon che si accendono e si spengono di continuo e che riescono con naturalezza a entrare nel club delle sigarette letterarie (in compagnia, tra le altre, delle Gauloises delle notti parigine di Cortázar e delle Delicados dei vagabondi dell’anima di Bolaño) mentre il romanzo, con uno scarto notevole, che lo strappa dalle trappole del genere, riesce a farsi storia del paese che gli fa da scenario, attraverso la figura di un poliziotto corrotto che con improvvisi scollamenti temporali ci lascia appena intravedere l’orrore dell’anno zero della dittatura khmer. (Fabio Mastroserio)


GEORGE SAUNDERS – LINCOLN NEL BARDO

Feltrinelli

Se state cercando il grande romanzo americano state alla larga da Lincoln nel Bardo, il nuovo (e primo) romanzo di George Saunders, vincitore del Man Booker Prize 2017. C’è molto più Dante e John Milton di quanto possa esserci Mark Twain, e la tradizione narrativa in salsa yankee. Ci sono echi di gran teatro, potremmo facilmente immaginarne una trasposizione teatrale in stile shakesperiano / brechtiano. Quello che ha fatto Saunders è sorprendente, ci ha spiazzato con una storia quasi cantata, a metà tra narrazione realistica che va a scavare la grande storia americana (epoca di Abraham Lincoln) e contro-canto a più voci: delirante, profondo, misterioso, nel suo evocare una Spoon River ricca di umanità. Alla prima prova con il romanzo (e la narrativa non breve) Saunders scrive qualcosa che va al di là del romanzo stesso, e non è un caso che il Washington Post abbia parlato di questo libro come qualcosa che rimette in discussione la nostra idea di romanzo. Il Bardo è il limbo della tradizione buddhista, quel momento in cui la coscienza si separa dal corpo dopo la morte e ci troviamo in uno stato a metà tra la nostra vita passata e quella successiva. In questo limbo affollato seguiamo la figura del figlio di Abraham Lincoln, morto da bambino, che si intreccia a quella delle altre anime sospese in un racconto profondamente umano e straniante. Se vi sentite arditi, provate a “sospendervi” per un attimo con questa lettura. (Giovanna Taverni)


COLSON WHITEHEAD – LA FERROVIA SOTTERRANEA

SUR

Per molti è il romanzo spinto da Oprah Winfrey nel corso del suo programma, per altri è il capolavoro sulla schiavitù che ha ottenuto meritatamente il Premio Pulitzer e il National Book Award. Quello di Colson Whitehead è un libro che ripercorre, attraverso la storia della protagonista Cora, una lunga serie di contingenze che emergono da uno dei paesi in cui il razzismo non smette di riempire le pagine della cronaca nazionale e locale. In un’America sempre più allo sbando in fatto di diseguaglianze sociali particolarmente salde a quella che è la sua storia, in un’America in cui il presidente eletto gioca a ad una sorta di partita a scacchi con quelle che sono le problematiche di un’intero popolo, Whitehead rimette al centro del dibattito culturale la situazione attuale del razzismo, e lo fa scegliendo di immergere tutta la sua energia narrativa in una vicenda intrisa di schiavitù e deportazione ambientata in pieno Ottocento. Lontano dai riflettori che non perdono tempo nel cercare le impronte ed i lineamenti del Grande Romanzo Americano, Colson Whitehead tiene a precisare la sua posizione alla larga dalle etichette che lo vorrebbero incasellare come esponente di spicco del filone letterario prettamente afroamericano insieme al talento di Ta-Nehisi Coates . Da sempre famoso per la sua commistione di generi, questa volta ne La ferrovia sotterranea ci si imbatte nel realismo magico marqueziano più autentico che possa esistere. (Michele Nenna)


PAUL AUSTER – 4 3 2  1

Einaudi

4 3 2 1 è un romanzo discusso, che incute timore a tratti (a partire dalle 939 pagine che lo compongono), sicuramente imperdibile. Racconta la vita di Archie Ferguson, o sarebbe meglio dire, le sue vite. Da un’unica matrice perfettamente innestata e descritta nel suo contesto storico, si dipanano le quattro (possibili) esistenze di un giovane uomo, dall’infanzia fino al raggiungimento dell’età adulta. Il nostro Ferguson nasce alla fine dei agli anni ‘40 in New Jersey, e percorre tutte le strade che Auster ricama per lui, ognuna con le scelte, i legami affettivi, gli agenti esterni che di volta in volta segnano Ferguson, lo formano, e ne rendono peculiare e consistente ogni versione.  Ma sarebbe riduttivo definire 4 3 2 1 come la semplice somma di quattro opere minori. L’impresa, magistralmente affrontata, da Paul Auster è proprio quella di restituire attraverso la forma del romanzo le mille sfaccettature di un’identità, le mille variabili in grado di plasmare un individuo senza comunque interferire con la sua vocazione spirituale. Ed è così che il lettore affronta e si perde una narrazione fittissima, in una rete di collegamenti, anche minuscoli, tra uno e l’altro capitolo; in un microcosmo straripante di nomi, personaggi, luoghi. Perché ogni dettaglio può avere un peso, dai più ridicoli e ironicamente trattati dall’autore stesso, alle grandi vicende degli Stati Uniti. 4 3 2 1 è infatti un’opera il cui intreccio affonda le proprie radici nelle vicende storico-culturali dell’epoca, consentendo, tramite Ferguson, di far prendere voce anche a un ventennio di storia americana. Non solo dal punto di vista politico, ma anche sociale e culturale; in un puzzle seducente di aneddoti sportivi, citazioni cinematografiche e liste infinite di letture improrogabili. Il confronto con 4 3 2 1 è quindi un’avventura in un labirinto, in cui è facile perdersi, sentirsi persino stanchi a volte, ma in cui la penna acuta e capace di Auster non può che rapire e trascinare in questo meraviglioso giro di giostra. (Martina Neglia)


CHRIS OFFUTT – NELLE TERRE DI NESSUNO

Minimum Fax

Negli Stati Uniti, lontano dalle luci delle metropoli, dai lungomare infiniti e dai quartieri residenziali divisi da ordinate file di staccionate bianche, esistono luoghi remoti, impossibili da dimenticare per chiunque li abbia visti con i propri occhi. Sono territori sconfinati, diversi per conformazione geografica ma tutti uguali nella loro ostilità. In Nelle terre di nessuno, Chris Offutt, ha scelto di raccontare un pezzo di queste realtà e con esso le vite di una manciata di uomini che vivono in un piccolissimo fazzoletto di terra nel Kentucky orientale, simile in tutto e per tutto a quello in cui lui stesso è nato e cresciuto. Nove racconti in cui si intrecciano le avventure di personaggi che parlano pochissimo e vivono di valori antichi, tramandati attraverso le generazioni. Vite che seguono il ritmo delle stagioni e onorano una legge dettata dalla sopravvivenza e dal rispetto, più cruda e inviolabile di quella che vige altrove. In questi non-luoghi, più simili a creature viventi, la natura regna sovrana e decide instancabilmente della vita e della morte. Qui sapere leggere e scrivere non conta ma è indispensabile conoscere come tornare a casa dal bosco quando il sole sparisce dietro le colline. I personaggi di Offutt popolano l’ultimissimo gradino della scala sociale e da qui guardano con sospetto tutto il resto. Sono carveriani nel loro modo unico di essere gli ultimi, e così veri da spezzarci il cuore. Le storie di cui sono protagonisti sono spaccati di vita reale in cui l’uomo si presenta in tutta la sua tragica bellezza. La prosa è sempre essenziale e priva di fronzoli come i luoghi in cui l’autore ci trasporta ma, nella sua semplicità, riesce a esprimere magistralmente anche il più profondo stato d’animo. 156 pagine di fame, sangue, riscatto e amore per sé ma soprattutto per la propria indomabile terra. (Veronica Ganassi)

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