Con l’anno che volge al termine, la redazione ha raccolto per voi i film più belli del 2016. Non una vera classifica quanto una rassegna dei lungometraggi che hanno lasciato un’impronta in noi, capace di ampliare la nostra immaginazione e destinata a durare nel tempo.
The Neon Demon – Nicolas Winding Refn (Francia, Usa)
Il regista danese è riuscito a far confluire in The Neon Demon una spietata sete di bellezza verso quello che resta dietro le quinte di un ipotetico mondo della moda. Jesse, interpretata da Elle Fanning, finisce sotto le grinfie del potere esercitato dall’ossessione per l’efficienza estetica, la stessa che divora instancabilmente il resto delle protagoniste che le gravitano intorno come pianeti spenti alla ricerca del proprio raggio di sole che non riuscirà mai a scaldarle. Il sangue che cola da ogni fessura veicola i princìpi di una battaglia che si respira sulla pelle dei corpi rifatti a colpi di chirurgia estetica. Refn realizza una finestra attraverso cui poter ammirare uno scontro che solamente quel sangue denso e scuro riuscirà a dissetare. Le pause, i silenzi e i primi piani mandati quasi in slow motion danno vita a un’atmosfera che divora lo spettatore, lo lascia dinanzi ad una realtà precisa che non fa sconti a nessuno e lo trascina verso la fine lanciandolo nel vuoto di una piscina abbandonata dal tempo che scorre. Il teatro ideale è una Los Angeles ai margini della narrazione, dove i motel pullulano di relitti umani e i magnati della moda si muovono liberi nelle loro corsie preferenziali fatte di volti disinteressati sulla condizione intima dell’altro. (Michele Nenna)
Sole Alto – Dalibor Matanic (Croazia, Serbia, Slovenia)
Jugoslavia. Tre storie. Tre anni diversi: il 1991, il 2001, il 2011. Il regista croato Dalibor Matanic, autore del soggetto come della sceneggiatura, mette in scena la ferite del suo paese attraverso tre storie d’amore affidate alla medesima coppia di attori: Tihana Lazovic e Goran Markovic, prima amanti multietnici innamorati della vita, all’alba delle prime tensioni che porteranno al conflitto, quindi poli distanti che si attraggono come animali selvatici incapaci a lasciarsi andare completamente per le terribili cicatrici che ancora portano addosso, infine ex che cercano di ritrovarsi in una Croazia che non riesce ancora a liberarsi degli orrori del passato. Con una formula che sembra guardare al teatro e che invece si fa cinema purissimo, Matanic ci porta con grazia e straordinaria onestà intellettuale dentro all’orrore che ha sconvolto l’Europa vent’anni fa. Non cerca colpevoli, né assoluzioni e, grazie a due attori semplicemente straordinari, restituisce il malessere dei corpi, delle anime, dei cuori di una guerra fratricida. (Fabio Mastroserio)
Juste la fin du monde – Xavier Dolan (Canada, Francia)
Xavier Dolan va a segno per la sesta volta con E’ solo la fine del mondo, un film claustrofobico stretto sulle vicende di una famiglia (a)normale in cui tutto, dai sentimenti ai gesti, sembra essere estremizzato. Come in uno spettacolo teatrale, in cui la recitazione ci sembra sempre troppo enfatizzata per essere credibile, in questo film i protagonisti (per la prima volta tutti francesi) si muovono, parlano, reagiscono con una drammaticità intensa e struggente che prende dritta allo stomaco dal primo all’ultimo minuto. Dolan, al solito, è un generatore automatico di perle dagli anni ’90 e tra bellissime riprese pastello stile Polaroid ci regala una colonna sonora che sembra uscita dal Walkman di una sedicenne. Se questo film fosse un libro, sarebbe probabilmente Le correzioni di Franzen in versione politicamente scorretta. (Veronica Ganassi)
Neruda – Pablo Larraín (Argentina, Cile, Spagna, Francia)
Larraín prosegue, dopo Tony Manero, No – I giorni dell’arcobaleno, nell’intento di raccontare la storia del suo paese con Neruda, rappresentando probabilmente uno dei simboli più riconoscibili nel mondo, il profilo di chi, con le proprie parole, ha saputo intrecciare poesia, militanza e resistenza. Per farlo ricorre, ancora una volta, a Bernal nei panni dell’ispettore Peluchonneau incaricato di rintracciare il poeta esiliatosi per sfuggire alla prigionia, ricostruendo uno sfondo fatto di citazionismi militanti e situazioni tragicomiche. Non si tratta solo di un biopic su uno degli aspetti forse meno approfonditi di Neruda ma la resa ironica dei rischi di un paese che tradisce se stesso e chi più l’ha servito con le proprie parole. Un tassello mancante nell’interpretazione di un personaggio, di un’opera e di uno stato intero, che amplia lo spettro di simboli e significati con cui guardare le lotte per la libertà sudamericana del secolo scorso, primavere che vivono ancora nelle sue parole. (Francesco Pattacini)
Animali Notturni – Tom Ford (Usa)
Fedele traduzione del titolo originale, ma non di quello del romanzo da cui la storia è tratta, Animali notturni è stato presentato lo scorso 2 settembre a Venezia. È già la seconda pellicola diretta da Tom Ford, stilista, costumista e, ormai, anche regista dalla mano piuttosto ferma. L’apertura estraniante (e per qualcuno disturbante) ne sottolinea subito il carattere deciso, che per tutta la durata del film si manifesta soprattutto nelle scelte estetiche e, dunque, nella fotografia, composta di immagini molto forti e descrittive. C’è da dire che senza le splendide performance di Amy Adams e Jake Gyllenhaal il film probabilmente perderebbe in credibilità e trasporto, ma questo non è necessariamente un male. Ad ogni modo, non c’è dubbio che valga la pena andare al cinema per vederlo. (Eleonora Danese)
Il Caso Spotlight – Tom McCarthy (Usa)
Il Caso Spotlight si è aggiudicato l’Oscar 2016 soprattutto per il tema che affronta, l’inchiesta giornalistica del Boston Globe che aprì la strada alle indagini sui casi di pedofilia all’interno della Chiesa Cattolica. Per gli appassionati del genere, del filone narrativo realista e dei grandi reportage d’inchiesta traslitterati nel linguaggio cinematografico (vedi Tutti gli uomini del Presidente), è una pellicola da non perdere. Mentre da un lato il cinema d’autore cerca il suo linguaggio più autentico, negli ultimi anni stiamo assistendo a un’ondata di biopic e sceneggiature dalla vocazione realista come un probabile bisogno tutto umano di ritorno alla realtà e alla storia. In questo senso Il Caso Spotligh riesce a colpire nel segno di una grande domanda irrisolta nella storia, perché la Chiesa Cattolica tende a coprire i suoi misfatti? (Giovanna Taverni)
Lo chiamavano Jeeg Robot – Gabriele Mainetti (Italia)
Per molti considerato il film rivelazione dell’anno, Lo chiamavano Jeeg Robot è un prodotto cinematografico che deve gran parte di quest’inaspettato successo al fatto di essere una novità per il pubblico italiano. Mentre negli Stati Uniti i personaggi della DC e della Marvel si scontrano all’ombra dei grattacieli di New York, in Italia i supereroi combattono il crimine a Roma, tra le strade di Tor Bella Monaca e le sponde del Tevere. Il protagonista di questa storia è Enzo Ceccotti, un delinquente come tanti altri che, dopo un inseguimento, scopre di essere entrato in contatto con una sostanza radioattiva e di aver acquisito dei superpoteri che gli torneranno utili per difendersi dalle continue vessazioni dello Zingaro e della sua banda. La trama nasce da una combinazione di generi che spaziano dalla fantascienza all’azione fino ad arrivare a toccare spesso con ironia il dramma della periferia e delle borgate romane. Claudio Santamaria, Ilenia Pastorelli e Luca Marinelli hanno fatto il resto, diventando i supereroi di questa nuova stagione cinematografica italiana. (Ilaria Del Boca)
Veloce come il vento – Matteo Rovere (Italia)
Veloce come il vento è la storia di Giulia e Loris De Martino, due fratelli separati da dieci anni ma uniti dalla passione per i motori. I loro destini tornano a incrociarsi dopo la morte del padre durante una gara del campionato italiano GT a cui partecipa la diciassettenne Giulia. Il lutto familiare e il rischio di perdere la propria casa inducono la ragazza a chiedere l’aiuto del fratello che, prima di entrare nel tunnel della tossicodipendenza, era un pilota di successo. Al centro della pellicola non ci sono soltanto l’adrenalina, i rombi e la velocità raggiunta in pista, ma emergono soprattutto le difficoltà che i De Martino incontrano per ricostruire il loro nucleo famigliare. Ambientato in Emilia, terra di osterie e di case automobilistiche, con l’esordiente Matilde De Angelis nei panni di Giulia e il veterano Stefano Accorsi nel ruolo di Loris, non può e non deve stupire che si tratti di una produzione interamente italiana. In sintesi “Vacca boia!” (Ilaria Del Boca)
Rogue One: A Star Wars Story – Gareth Edwards (Usa)
Sarebbe troppo facile schematizzare Rogue One secondo i codici di un perfetto successo commerciale e di un format perfettamente riproducibile. Cos’è, invece, quella sensazione che ti stringe la pancia, e perché non riesci a trattenere le lacrime negli occhi durante l’ultima mezz’ora di visione? La verità è che Star Wars mette in scena una miscela di fede e speranza che produce un effetto sempre superiore alla somma delle sue parti. Così Rogue One, nato per essere un film di passaggio, si rivela molto di più di quanto ci si sarebbe aspettato da uno spin-off. Dietro la patina della space opera, in Rogue One si fa spazio anche un realismo truce da film bellico, perché si mette in scena la feccia della ribellione, la canaglia che fa il lavoro sporco: spie, assassini, terroristi veri e propri, ossia le frange più estreme che si sporcano le mani per portare avanti il sogno. Allora, sullo schermo al posto di Scarif vediamo Aleppo, Gaza, gli scenari di guerra che ci scorrono davanti nei telegiornali. E si esce dal cinema devastati, perché hai avuto conferma che per quanto possano essere nobili gli ideali, la guerra è di chi rimane sul campo di battaglia, e tutti gli altri sono solo spettatori. (Francesco Chianese)
The Witch – Robert Eggers (Usa, Canada, UK)
The Witch è un film girato come si faceva un tempo, e, proprio per questo, porta una ventata di freschezza al genere horror. Abituati a pellicole girate come mockumentary, The Witch sorprende non solo per una fotografia di prim’ordine, ma anche per una sceneggiatura ben studiata e per attori che sanno fare il proprio mestiere. La storia, è ambientata nel New England, agli inizi del 1600 vede una famiglia, composta da padre, madre e cinque figli, essere allontanata da un villaggio per le proprie vedute, fin troppo estremiste e bigotte. Rifugiatisi in una baracca nel bosco, la famiglia verrà sconvolta dalla scomparsa della neonata di appena pochi mesi. Da questa tragedia s’innescherà una serie di rivalità familiari, di sospetti e tradimenti, che porteranno la famiglia a implodere. Film raffinato, che spaventa – fortunatamente – per le suggestioni create e non per porte che sbattono e mostri di gomma, The Witch è di certo tra i migliori horror degli ultimi anni. (Nicola Bartolini)
Carol – Todd Haynes (UK, Usa)
New York, Manhattan, 1952. Therese, commessa dei magazzini Frankenberg è avvicinata da Carol, donna algida ed elegante. Un paio di guanti galeotti, lasciati distrattamente sul bancone, porteranno a una storia d’amore di straordinaria sensualità e sconvolgente impatto sulla vita delle due protagoniste, le straordinarie Cate Blanchett e Rooney Mara. Haynes, in maniera maniacale, ricostruisce ambienti, costumi, atmosfere di un’epoca perduta regalando agli spettatori un film che è un autentico gioiello per gli occhi, la testa e il cuore. Con le musiche affidate a Carter Burkwell e la fotografia sgranata di Edward Lachman, Carol non racconta solo una storia d’amore omosessuale in tempi inammissibili, ma partendo dal racconto di Patricia Highsmith confeziona un’opera di rara eleganza ed equilibrio che sa interrogarci sulla forza dirompente e vitale dell’amore, senza alcuna distinzione. (Fabio Mastroserio)
One more time with feeling – Andrew Dominik (UK)
Chissà cosa deve aver pensato Andrew Dominik quando Nick Cave gli ha proposto di girare One more time with feeling, in un anno, il 2015, in cui l’artista australiano si è ritrovato spaccato in due tra la realizzazione di Skeleton Tree (sedicesimo album in studio) e la sconvolgente e inaspettata morte del figlio Arthur. I rischi erano tanti, tra tutti quello terribile di scadere nella strumentalizzazione di quel tragico evento. Il risultato è invece un documentario sincero e commovente in cui Cave ci appare in tutta la sua meravigliosa, fragile umanità e ci apre le porte dei suoi luoghi più intimi lasciandoci entrare in punta di piedi. La musica, come sempre, è la vera, grande protagonista e la scelta del bianco e nero nelle riprese è la metafora perfetta di chi in un mondo apparentemente spento riesce, come solo i più grandi artisti sanno fare, a mostrarci ancora più luce. (Veronica Ganassi)
The End of the Tour – James Ponsoldt (Usa)
Chi è David Foster Wallace? Soprattutto un uomo in preda ai suoi démoni. The End of the Tour racconta un breve scorcio di vita dello scrittore americano, gli ultimi giorni del book tour di Infinite Jest nell’inverno del 1996, insieme al giornalista David Lipsky di Rolling Stone. C’era il pericolo che ne venisse fuori una pessima agiografia dal punto di vista di Lipsky (che è l’occhio e il narratore vero della storia), invece le grandi qualità di una figura fragile ma ricca di grazia e umanità – che sono proprie anche della narrativa di Wallace – sono salve. Un film che in qualche momento diventa commovente, e questa commozione ci riporta immediatamente alla mente alcune pagine strazianti di uno dei più grandi della letteratura contemporanea. (Giovanna Taverni)
Captain Fantastic – Matt Ross (Usa)
Ne Gli Equilibristi, film del 2009 con Valerio Mastandrea, un padre separato che si ritrova improvvisamente impossibilitato a pagare gli alimenti salatissimi stabiliti dal tribunale, per non perdere i pochi giorni in cui può vederli si indebita, perde tutto e rischia la morte. Nel film scritto e diretto da Matt Ross anche Ben (Viggo Mortensen) si ritrova in una situazione simile, perde la moglie Leslie e il mondo si ribalta. Questa volta contro di lui non ci sono le bollette da pagare ma uno spicchio di società che non crede che i suoi metodi di educazione possano permettere ai figli di crescere come dovrebbero. È una lotta simile, quella per l’affido, che ha il pregio di evidenziare, con un tocco ironico, alcuni limiti di una società sempre meno disposta a comprendere e ad accettare chi non sembra aderire ai suoi dettami. L’effetto che fa Captain Fantastic è proprio questo, oltre alle questioni interne dei figli che perdono la propria madre, c’è il gelo di chi spesso non viene raccontato. (Francesco Pattacini)
La Pazza Gioia – Paolo Virzì (Italia)
Valeria Bruni Tedeschi, sorella della Carlà Brunì che tutti conosciamo, è fra le attrici che meritano più riconoscimento in Italia e in Europa. Nonostante il fatto che spesso le vengano assegnati ruoli fra loro essenzialmente molto simili possa sembrare una soluzione noiosa, in realtà fa sì che tutte le sue perfomance siano vere in un modo in cui poche altre lo sono. Particolarmente in questo film – il dodicesimo del buon Virzì – il suo piglio caratteristico assume un aspetto ancora più accentuato di disperata comicità che, a braccetto col personaggio della Ramazzotti, delicato e attuale più che mai, produce un dolcissimo ed esasperato ritratto di vita reale. La pellicola finisce per suscitare nello spettatore quel sentimento misto di leggerezza e smarrimento che, a tutti gli effetti, si ritrova proprio nei momenti più intensi di pazza gioia, come sappiamo tutti. (Eleonora Danese)
La grande scommessa – Adam McKay (Usa)
Il regista Adam McKay segue il filone intrapreso da Martin Scorsese con The Wolf of Wall Street per raccontare gli antefatti che hanno portato alla crisi finanziaria scoppiata nel 2008. La drammaticità dei temi che emergono da questa storia di cui conosciamo fin troppo bene i risvolti, si intreccia continuamente alla comicità del linguaggio impiegato dai protagonisti, Michael Burry, uno stravagante manager di un fondo speculativo interpretato da Christian Bale, il trader Mark Baum (Steve Carell), l’investitore di Deutsche Bank, Jared Vennett (Ryan Gosling), i due giovani investitori Jamie Shipley (Finn Wittrock) e Charlie Geller (John Magaro) consigliati e seguiti dal banchiere in pensione Ben Rickert (Brad Pitt), gli unici che intuirono realmente la gravità della situazione che avrebbe destabilizzato l’economia mondiale. Cosa aspettarsi da questo film? Non una lezione accademica sui fatti legati allo sgonfiamento della bolla immobiliare, ma un quadro pop art sul sistema capitalistico, talmente realistico da risultare paradossale. (Ilaria Del Boca)
Sausage Party, vita segreta di una salsiccia – Greg Tiernan e Conrad Vernon (Usa)
C’erano una volta una piccola salsiccia – o meglio un wurstel – e un’affascinante panina che volevano soltanto potersi unire, dopo mesi passati sullo stesso scaffale a sognare quel momento. Un incipit necessario, per un film di animazione, che con la Disney ha in comune soltanto quei messaggi subliminali a sfondo sessuale che, però, ricorrono senza necessità di nascondersi. Il tema principale si mescola a tante altre sottotrame e complotti fra i prodotti stessi, gli immortali senza scadenza e i sopravvissuti all’acquisto, unici testimoni di ciò che accade al di là delle porte del supermarket. Demenziale e scorretto, Sausage Party è un film per risate sardoniche sul divano, e nemmeno così scontate. Who let the sausages out? (Francesco Pattacini)
Perfetti Sconosciuti – Paolo Genovesi (Italia)
A una cena tra amici, uno dei partecipanti propone di scambiarsi gli smartphone tra di loro e di leggere i messaggi che arriveranno durante il tempo della cena. Siamo tutti fin troppo consapevoli di come i nostri cellulari siano diventati ormai delle banche che custodiscono i nostri segreti più intimi. Amori, tradimenti, bugie: la cena fra i sette amici non potrebbe avere esito peggiore, rivelando sentimenti quanto mai lontani dall’amicizia e la fiducia che pensavano li accomunasse. La vera forza della pellicola – tra i film capaci di disegnare una linea di demarcazione nel nuovo cinema italiano – non sta tanto nella sceneggiatura che è si ben scritta, ma punta troppo a essere una critica esistenzialista al modernismo tecnologico – quanto in quello che è un ottimo cast, formato da attori come Battiston, il sempre ottimo Giallini, Foglietta, Mastandrea, Leo, Rohrwarcher e Smutniak. Film da vedere se si vuole passare un’ora e mezza in leggerezza e convincersi a non affidare mai e poi mai il proprio smartphone a nessun altro a parte se stessi. (Nicola Bartolini)
Knight of Cups – Terrence Malick (Usa)
Presentato a Berlino nel 2015, il settimo film del leggendario regista texano segue il nuovo corso inaugurato dal capolavoro The Tree of Life. Otto carte dai tarocchi accompagnano il peregrinare di un’anima tormentata, quella di Rick, sceneggiatore hollywoodiano, ricco e di successo (interpretato da un sempre ispirato Christian Bale) che non riesce a trovare il senso del proprio percorso. Fra donne bellissime (Cate Blanchett, Freida Pinto, Natalie Portman), case di lusso, feste sfrenate, Malick riduce ancora maggiormente il filo della trama che qui si fa traccia esile ma toccante. Le immagini come simulacri di potenze evocatrici di un senso irraggiungibile, affidate al tre volte premio Oscar, Emmanuel Lubezki, fanno di Malick, oggi, l’artefice di un cinema elaborato eppure essenziale, filosofico e poetico insieme, freddo eppur capace, come una fiamma nascosta, di riscaldare la parte più profonda di chi guarda. (Fabio Mastroserio)
Sing street – John Carney (Irlanda)
Ogni tanto, in modo del tutto imprevedibile, tra pile di blockbuster hollywoodiani e film fin troppo impegnati esce una pellicola come Sing Street che potrebbe essere nella lista dei best movies di qualsiasi anno dal 1985 a oggi. La trama è avvolta da quella romanticheria disneyana che fa bene all’anima e gli ingredienti per fare breccia anche nei cuori più impenetrabili ci sono tutti. È la storia di un ragazzo, Conor, che nella Dublino di metà anni ’80, decide di formare una band per conquistare una ragazza. Ad aiutarlo ci penseranno gli amici, improbabili e messi insieme un po’ a caso, e il fratello più grande. Dove non arriva la trama, ci pensa la colonna sonora, azzeccatissima, che ripercorre quella sonorità 80’s in cui c’è spazio proprio per tutti, dai The Cure ai Duran Duran. Da recuperare quando ci si sente un po’ smarriti. (Veronica Ganassi)
Agnus Dei – Anne Fontaine (Francia, Polonia)
Polonia, 1945. Una giovane studentessa francese, Mathilde Beaulieu, presta soccorso presso la Croce Rossa. Una suora del convento vicino cerca disperata il suo aiuto. Contravvenendo alle regole di due mondi, quello rigido dell’assistenza ai soldati e quello del convento, Mathilde (Lou de Laâge, vista nell’italiano L’attesa, di Piero Messina) entra a contatto con l’orrore degli stupri subiti da suore e novizie. Presto però, grazie alla sua determinazione e al suo coraggio, all’orrore si sostituirà una solidarietà femminile che porterà la voglia di vivere nel gelo, della neve e dei cuori. Lou de Laâge, bellissima e bravissima, è al centro di un racconto di grande intensità capace di raccontare l’orrore della guerra da una prospettiva inedita e femminile che rifugge la passività e si fa forte delle aspirazioni, della libertà, dell’onestà e dell’allegria della sua protagonista. (Fabio Mastroserio)
Frantz – Francois Ozon (Francia, Germania)
Germania 1919. Una giovane donna che ha perso il suo promesso sposo, Frantz, in guerra, si reca tutti i giorni sulla lapide in ricordo di un corpo seppellito chissà dove in Francia. Lì, trova un giorno, un ragazzo francese, timido e impacciato che conosceva Frantz prima della guerra e l’ha visto morire sul campo di battaglia. In una comunità ancora fortemente scossa dalla guerra e sorretta da un odio inattaccabile, il giovane francese diventa presto consolazione per una famiglia che rivede in lui il figlio perduto. Ma ha raccontato davvero la verità? Che cosa vuole davvero da quella famiglia. Che cosa prova la giovane per lui? Con Frantz, Ozon racconta l’Europa a cavallo tra le due guerre, tra il tanfo di morte che non lascia vivere e il desiderio di ricominciare a farlo. Negli occhi della ragazza (l’intensa Paula Beer), nel passaggio continuo e metaforico tra un gelido bianco e nero alla Haneke e il colore che ridona speranza, c’è tutta l’essenza di un film classico capace di raccontare da un’angolazione particolare i dubbi dell’amore e il senso profondo di cosa possa significare riappacificarsi con i propri nemici. (Fabio Mastroserio)
Tutti vogliono qualcosa – Richard Linklater (Usa)
Everybody wants some è un film apparentemente dimenticabile. I protagonisti sono dimenticabili, lo è l’ambientazione, e persino la trama è dimenticabile. Come ovvia conseguenza per qualche ragione non riesco a smettere di pensarci. Linklater dirige una sequela di scene senza capo né coda, slegate da qualsiasi pretesa narrativa e si limita a dipingere uno spaccato di gioventù americana che sembra frutto di una nostra proiezione mentale derivata da anni di serie tv made in USA. Un coming of age su schermo in cui i clichè del college si susseguono tutti, uno dopo l’altro, animati su uno sfondo dalla costante dominante arancione. Un ultimo baluardo di gioventù e spensieratezza in cui rifugiarsi quando si vuole scappare dalle responsabilità. (Veronica Ganassi)
Indivisibili – Edoardo De Angelis (Italia)
Litorale domizio. Tra degrado e modernità Daisy e Viola sono due gemelle siamesi che si esibiscono come cantanti neomelodiche. La possibilità di un intervento che possa separarle spezza in due le loro vite facendole aprire gli occhi davanti agli sfruttamenti familiari, ai crogiuoli di silenzi e alle prepotenze subite. De Angelis con la sua favola moderna che molto deve a certo cinema di Garrone (Reality, soprattutto) riesce a costruire un film che pur muovendosi nell’abusato territorio, reale e immaginario, di una Napoli criminale e borderline, riesce a giocare con la poesia, la metafora e la fiaba grazie anche alla forza, fatta di grazia e sensualità, delle due giovanissime protagoniste, capaci di interpretare con sguardi, sorrisi e i loro stessi corpi, il desiderio di riscatto e cambiamento di un’intera terra. (Fabio Mastroserio)