Questo strano anno, il duemilaeventi, sta per sfumare, e anche se lo ricorderemo come l’anno in cui siamo stati travolti dagli ascolti in streaming e abbiamo perduto la dimensione della musica dal vivo, nel corso del 2020 sono usciti bei dischi che valeva la pena ascoltare. Qui sotto ne raccogliamo 50, una panoramica sulle uscite dell’anno in cui troverete qualcosa da recuperare o riascoltare, da amare o odiare a secondo di gusti e umori. Come diciamo ogni anno, non facciamo la classifica per mettere ordine ai dischi e assegnare numeri in base ai calcoli, alle preferenze o ai movimenti dei pianeti, ma per sfogliare l’anno e provare a raccontarlo. E quest’anno eccezionalmente al primo posto trovate due dischi, perché l’unanimità è un miraggio. E dunque partiamo: buon ascolto.
Grafica di copertina di Francesco Pattacini
50./ 49. (ex-aequo)
BAMBARA – STRAY
Wharf Cat Records
Si fa fatica a crederlo, ma c’è stato, un tempo, anche un Nick Cave diverso dal signore in smoking chino sulla solitudine di un pianoforte sperduto in una piazza deserta, pronto per una beatificazione quasi mistica. I Bambara, se non altro, sono qui a ricordarcelo, con la loro rilettura post-punk di un periodo in cui le parole Bad Seed avevano dentro qualcosa di malato davvero e i Birthday Party erano feste nere all’insegna di rabbia ed eroina. Personaggi rotti che salutano affannati, sullo sfondo di storielle che hanno tutto meno che una fine. Mai come quest’anno potrebbero suonare così familiari. (Simone Fiorucci)
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KATIE GATELY – LOOM
Houndstooth
La cantante e producer statunitense, dopo il suo debutto su Tri Angle, è approdata nel mondo Houndstooth ed è tornata in grande stile con Loor, album dedicato alla madre, scomparsa nel 2018. Questo evento ha totalmente cambiato le sorti di questo lavoro che naturalmente ha preso un’altra direzione per rispecchiare al meglio le sue emozioni. La voce è lo strumento aggiunto ed il mezzo di coniugazione fra l’anima sperimentale e quella più melodica. (Nico Orlandino)
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48. KHRUANGBIN – MORDERCHAI
Dead Oceans
La band texana – il cui nome è impronunciabile – ha pubblicato due lavori quest’anno ma noi parliamo del primo, Mordechai. Un viaggio psichedelico nella nostalgia, ricco di influenze, di suoni (e di lingue!), che ci ha alleggerito il tempo passato chiusi in casa. (Alessia Melchiorre)
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47. THE SOFT PINK TRUTH – SHALL WE GO ON SINNING SO THAT GRACE MAY INCREASE?
Thrill Jockey
Oscuro, avangardista, il mondo sperimentale di Shall We Go on Sinning So That Grace May Increase? raggiunge una tensione perfetta tra calma e caos con la sua fusione di sonorità. Un disco allo stesso tempo spirituale e fisico, che ti trascina a colpi di minimalismo, di sussulti jazz e deep house, di note di piano, esplosioni elettroniche, dello stordente tocco di mano del fabbro che ha messo insieme, incastonato, fuso, fatto arieggiare, i suoni – finché non ne è venuto fuori questo lavoro da lasciare andare in ascolto fino a farsene inghiottire. (Gio Taverni)
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46. PINK SIIFU – NEGRO
Field-Left
Se il debutto ensley nel 2018 era un disco dolce, levigato, quasi emo rap, nel 2020 le priorità di Pink Siifu in quanto artista afroamericano sono cambiate: nel contesto di un anno in cui le violenze razziali si sono esasperate fino a un punto di non ritorno, NEGRO (inizialmente chiamato To be Angry) suona come una chiamata alle armi. Via i sample di classici soul e r’n’b, dentro il punk dei Death e il free jazz di Sun Ra, per un lavoro che riflette anche nei testi (urlati più che cantati) la rabbia di un’intera comunità. (Fernando Giacinti)
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45. ANNA VON HAUSSWOLFF – ALL THOUGHTS FLY
Southern Lord Records
La compositrice olandese non smette mai di stupire ed è tornata con un incantevole album strumentale composto tutto con l’organo a canne. Ispirato parzialmente dal Sacro Bosco di Bomarzo, il lavoro riesce a conciliare tristezza, calma, senso di quiete. Una serie di contrasti che si abbracciano e una fluidità che fa fluttuare l’ascoltatore, catapultandolo in una dimensione senza tempo. (Nico Orlandino)
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44. ANOTHER SKY – I SLEPT ON THE FLOOR
Fiction Records
Un esordio solido, probabilmente il migliore di questo anno. Un timbro vocale atipico e unico, sonorità sghembe, imperiose e alla perenne ricerca di spaziare fra i generi. Che Carin Vincent sia destinata a lasciare il segno è chiaro a tutti. La sua travagliata e sofferta adolescenza si riversa con forza nei testi duri e radicali: da quelli che si scagliano contro gli abusi della polizia e di tipo sessuale, a quelli non meno importanti contro le ingiustizie e le violenze di qualsiasi tipo, incluse quelle psicologiche. L’iniezione post-rock che a cavallo del secolo ha pervaso la musica rock, nel quartetto londinese diventa un ulteriore, generoso pretesto per sperimentare e unire mondi apparentemente distanti, merito, questo, sicuramente, anche del contributo originale che ognuno dei componenti ha saputo rivendicare rispetto ai proprio ascolti: dai Radiohead, ai Talk Talk, fino al concittadino Four Tet, nella sua variante elettronica più vicina al post-rock, creando così un percorso solido, credibile e originale. (Ernesto Razzano)
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43. REBECCA FOON – WAXING MOON
Constellation Records
Artista immensa, parte dei collettivi storici come Thee Silver Mt. Zion, Set Fire To Flames ed Esmerine, Rebecca Foon mette da parte (parzialmente) il violoncello per lasciare la scena al pianoforte che mette in risalto l’avvolgente vocalità. La ciliegina sulla torta è il featuring di Patrick Watson in Vessels e la presenza di alcuni musicisti di altissimo livello come Richard Reed Parry (Arcade Fire) e Sophie Trudeau (GY!BE). (Nico Orlandino)
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42. LO TOM – LP2
self-released
Un supergruppo indie. Ovvero un ossimoro già in partenza per la cosa più anacronistica dell’anno. Chitarre ben incollate agli amplificatori e un approccio che si pone perfettamente a metà tra le grattate soniche di Bob Mould quando stava nei Sugar e i picchi di smalto commerciale degli Heartbreakers di Tom Petty ai tempi in cui volevano essere il più MTV-friendly possibile. Mentre intorno è tutto un proliferare di home-show che gridano “small is the new big”, David Bazan raccoglie i colleghi buoni per sfornare il rock da stadio giusto, al momento sbagliato. (Simone Fiorucci)
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41. BILL FAY – COUNTLESS BRANCHES
Dead Oceans
Una storia incredibile: due dischi negli anni settanta, quindi l’oblio e la costruzione di una leggenda in contumacia fino al ritorno nel 2012, quarant’anni dopo. Countless Brenches è il terzo album da questo ritorno ed è un disco di una bellezza cristallina. Se i rami dell’albero sono innumerevoli, i pezzi che lo compongono sono dieci perle rare costruite su arrangiamenti lievi e minimali su cui si muove, delicata, la voce dolcissima di un cantautore che non ha nulla da nascondere e che consegna al pubblico miniature dalle quali emergono la mai barattata onestà e una ricchezza timbrica e compositiva che ne fanno un disco finanche commovente. (Fabio Mastroserio)
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40. WAXAHATCHEE – SAINT CLOUD
Merge Records
Forse Saint Cloud è il disco che aspettavamo da Katie Crutchfield. Come se fosse riemersa da un’epifania interiore, Waxahatchee con Saint Cloud ingrana quella marcia in più che cercavamo dal suo talento folk. Un disco molto americano e da buon ritiro, nel senso in cui Neil Young immaginerebbe il suo buon ritiro alla larga da tutto, tra le distese d’America, chitarra in mano e ossessioni da tirare fuori. E ce ne sono tante di magnifiche ossessioni in questo disco, a cominciare da quella copertina on the road che evoca nostalgie da pre-duemilaeventi. (Gio Taverni)
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39. BRUCE SPRINGSTEEN – LETTER TO YOU
Columbia Records
Ci si confessa con persone di cui ci si fida. E Springsteen non poteva che farlo con la E Street Band. Con loro al fianco sembra che tutte le paure e i fantasmi possano essere finalmente guardati in faccia senza la retorica del tempo che passa, senza l’ansia di dover inventare personaggi nuovi in lotta per sopravvivere al presente. Lo sguardo è rivolto al passato, alle sconfitte e alle vittorie, il tono è potente e rilassato, e non arriva da un piedistallo, ma da un palco, perché questo disco suona come un concerto, e i motivi non sono certo misteriosi. Primo tra tutti la sua incredibile e indiscussa capacità di saperci stare su un palco, con quella chitarra a tracolla lunga, e un’armonica sempre a portata di mano, e poi perché l’affiatamento con la E street Band non è per niente scalfito dal tempo passato a distanza. Liberatosi dal fardello del dover essere l’erede di Dylan, Springsteen è finalmente “soltanto” un magnifico rocker, che si circonda di amici per una splendida suonata dove ci racconta le sue storie, con la profondità del blues, l’immaginifica leggerezza del country, la verità del cantautore e la forza infinita del rock. (Ernesto Razzano)
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38. TAYLOR SWIFT – folklore / evermore
Republic Records
Non tutti hanno reagito ugualmente di fronte al susseguirsi di disastrosi eventi che si sono verificati quest’anno. C’è chi ha preferito il silenzio, e chi, invece, non è riuscito a trattenersi dal dire tutto quello che gli passava per la testa. Portavoce di quest’ultima categoria è Taylor Swift che ha sentito l’esigenza di pubblicare non uno, ma ben due album. A distanza di sei mesi da folklore, è arrivato anche evermore, un disco che conferma l’attitudine della ex-principessa del country diventata popstar globale a distaccarsi dalle atmosfere scintillanti dei precedenti lavori. Il nono album della sua carriera – così come folklore – si distingue per essere un inno alla libertà. La raccolta composta da quindici canzoni indaga il rapporto dell’uomo contemporaneo con un mondo che non esiste più. Rimangono i segni sulla carta, nei versi delle canzoni e nei ricordi. La ciliegina sulla torta? Le collaborazioni con Bon Iver, Haim e The National che rappresentano un chiaro segnale della direzione seguita da Taylor Swift. Basterebbe soltanto osservare la foto della copertina che la ritrae di spalle, i capelli raccolti in una treccia e il cappotto scozzese a difenderla dalle intemperie per capire quale sia il suo intento. Evermore è una delle poche sorprese belle di questo 2020. Chi l’avrebbe mai detto. (Ilaria Del Boca)
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37. ÓLAFUR ARNALDS – SOME KIND OF PEACE
Decca Records
L’artista islandese ritrova la sua dimensione essenziale della sua musica, meno complessa di quella Re:member (2018), che mette in evidenza ancora una volta le sue doti di musicista e tutta la sua straordinaria evoluzione dell’ultimo decennio. Le collaborazioni con Bonobo, JFDR e la stella nascente Josin arricchiscono il lavoro di fino sia dal punto di vista estetico ma soprattutto da quello dell’intensità delle vibrazioni dell’album. (Nico Orlandino)
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36. ALGIERS – THERE IS NO YEAR
Matador Records
Con un titolo quasi tragicamente profetico in quest’assurdo 2020, gli Algiers rappresentano con il loro terzo disco certamente la band meno ortodossa rispetto alle tante anti e post punk che pure animano questa classifica e che segnano – e segnalano – una situazione socio politica mondiale che ancora necessita di un combat rock che non faccia sconti a nessuno. La loro formula in cui s’incrociano new wave e post punk, gospel e musica elettronica e che sorregge la personalità dominante che emerge dalla voce di Franklin James Fisher resta intatta ma lascia, a questo terzo giro, la sensazione anche dei primi segni di stanchezza. (Fabio Mastroserio)
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35. THE STROKES – THE NEW ABNORMAL
Cult / RCA
The New Abnormal degli Strokes è un atteso ritorno alle origini con evidenti influenze dalla new wave degli anni ’80, un album meno sperimentale e frammentario rispetto al precedente Comedown Machine ma molto più coerente: la band newyorkese riporta in auge il garage rock dei primi anni 2000 che la rese celebre in tutto il mondo, ma si scorgono anche le esperienze maturate da Casablancas con i Voidz e da Albert Hammond Jr nei suoi dischi più recenti da solista. (Mattia Fumarola)
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34. KASSA OVERALL – I THINK I’M GOOD
Brownswood Recordings
Il secondo album del 38enne Kassa Overall (batterista, mc e produttore newyorchese) è una lucida e al contempo struggente autobiografia, centrata sulla sua salute mentale e sul suo difficile rapporto con gli psicofarmaci. Sono pagine di diario in cui vengono annotate candidamente paure, angosce e difficoltà. Musica come espressione al grado più puro. E che musica, jazz contemporaneo, hip hop lo-fi ed effetti ambient, per un lavoro profondo e da meditazione. (Fernando Giacinti)
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33. NICK CAVE – IDIOT PRAYER (Alone at Alexandra Palace)
Bad Seed Ltd.
Poco incline al concetto di streaming durante i mesi più duri del primo lockdown, il padre dei semi cattivi ci ripensa con un live in esclusiva streaming registrato in solo negli spazi ampi (e vuoti) dell’Alexandra Palace, fino alla pubblicazione come doppio vinile nel novembre di quest’anno. Raccolto sul pianoforte e tra i suoi spartiti Cave riscopre – e noi insieme con lui – l’incredibile profondità dei suoi testi e delle melodie che – qui scarne – li accompagnano. Ascoltare The Mercy Seat – che qui perde tutta la sua furia originale dei primi anni ottanta, appannaggio di una preghiera disperata tra i tasti bianchi e neri – per credere. (Fabio Mastroserio)
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32. CARIBOU – SUDDENLY
City Slang
A sei anni di distanza da Our Love e ben dieci da Swim, Caribou torna con un nuovo disco dal sound introspettivo e riflessivo. Con Suddenly Dan Snaith si distanzia leggermente dal dancefloor virando verso il soul-jazz, l’r’n’b e l’hip hop. Sicuramente non troviamo tracce esplosive ai livelli di Sun o Odessa, ma nel complesso si può parlare di un album vario e con diverse idee ben combinate tra esse. (Mattia Fumarola)
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31. DESTROYER – HAVE WE MET
Merge Records
Have We Met è un disco dall’animo oscuro che sa come portarci fuori da un’era glaciale emotiva grazie ai suoi spigoli sintetici e a una nostalgia fuori dal tempo. Dan Bejar gioca con i suoni e le retromanie per sussurrarci che l’angoscia futura è appena un’allucinazione, e che il disagio dei cantori può essere ancora una traccia gettata all’avvenire. Questa altalena emotiva si lascia sentire per tutte le canzoni di Have We Met, questa tensione tra una ricerca irrequieta di luce dentro la notte, e oscurità nello splendore, rendono il disco una zona d’ombra illuminata, dove si alternano fantasie coheniane e distorsioni funk. (Gio Taverni)
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30. CORIKY – CORIKY
Dischord Records
Melodie sghembe e asciutte, linee scure che vanno via morbidissime, voci note che rimettono la sguaiatezza punk ancora una volta di fronte ai propri principi morali. L’avevano battezzato straight edge, ora sa di un modo desolato e depresso — eppure estremamente accurato — di guardare da fuori a come la gente (non) funziona al giorno d’oggi. Ian McKaye, la moglie Amy Farina e il vecchio compagno di merende leggere e bevute rigorosamente analcoliche Joe Lally prendono la disillusione cronica e ne fanno una tattica di sopravvivenza psicologica. Chiamatela, di nuovo, controcultura. (Simone Fiorucci)
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29. FUTURE ISLANDS – AS LONG AS YOU ARE
4AD
Tra sintetizzatori e ritmi che richiamano indubbiamente a sonorità anni ’80 Herring fa pace con sé stesso. As Long As You Are è un punto per ripartire e per dirigersi verso un futuro migliore, nonostante il mondo stia crollando sotto i nostri piedi. Anche se trascorriamo le giornate tremando abbiamo bisogno di verità. Lucida, urlata e impetuosa, Born in a War è una deflagrazione potente che ci richiama alla realtà dei fatti. Ed è proprio da qui che diventa più facile anche per chi ascolta capire che questo è un disco fatto di indulgenza prima di tutto verso noi stessi e poi nei confronti degli altri. (Ilaria Del Boca)
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28. MAC MILLER – CIRCLES
Warner Records
“Well, this is what it look like right before you fall” è il primo verso di questo album postumo di Mac Miller. Sapeva di avere debolezze e sapeva che ci sarebbe potuto ricadere (come è stato). Circles è il suo vero testamento perché è ricco di materiale su cui Mac stava lavorando in una fase di crescita, anche musicale, della sua vita. Quindi è un po’ come se stesse salutando il suo passato e tutto ciò che aveva provato fino ad allora. È l’ennesimo promemoria di quanto fosse un ragazzo pieno di talento ma allo stesso tempo troppo fragile per continuare a “nuotare”. (Alessia Melchiorre)
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27. SORRY – 925
Domino Records
Un’irresistibile combinazione di sarcasmo, genio mascherato da stupidità ammiccante e chili di questioni aperte sul fatto che ci siano o ci facciano. Onnivori ma sempre austeri sotto i baffi, abilissimi nel rimescolare post-punk, pop, jazz in una personale — ironica ma del tutto consapevole — aggiornatissima versione di quello che una volta si chiamava indie-rock, i Sorry adorano prendersi per il culo e prendere per il culo la storia della musica tutta, ma dimostrano di avere l’ambizione e il talento per poter andare oltre la semplice gag. (Simone Fiorucci)
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26. HANIA RANI – HOME
Core Port
La compositrice polacca conferma tutto il suo talento, già dimostrato con il debutto del 2019. Home, un metaforico viaggio fra i luoghi che nel corso della nostra vita identifichiamo come casa, è un percorso senza limiti che va oltre i confini fisici e che si concretizza con raffinate trame di pianoforte e incursioni vocali ed essenziali strati elettronici. (Nico Orlandino)
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25. THE WEEKND – AFTER HOURS
Republic Records
Dopo avere reinventato l’r’n’b contemporaneo con House of Balloons ormai 9 anni fa, Abel Tesfaye frantuma qualsiasi record di ascolti con un disco che più piacione e retromaniaco non si può, cosa che non gli è servita però a ottenere nomination agli ultimi Grammy (da king della discografia a king delle polemiche è un attimo. È il suo anno dopotutto). Tutti i pezzi vengono attraversati dal fantasma di Michael Jackson, ma suonano comunque come la musica del futuro. Che ci piaccia o no, per capire dove andrà la musica pop nei prossimi anni bisogna fermarsi ancora qui. (Fernando Giacinti)
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24. GHOSTPOET – I GROW TIRED BUT DARE NOT FALL ASLEEP
PIAS Recordings
Obaro Ejimiwe ha sempre avuto un certo talento per dissezionare il malessere moderno e in tasca i ferri del mestiere giusti per anticiparlo. Qualcuno dice che ha l’occhio lungo, qualcun altro che porta sfiga. Nel contesto attuale, i suoi gelidi automatismi post-punk messi a macerare in una salamoia genericamente hop (hip o trip, non conta più ormai) suonano come la profezia di un Nostradamus tardocapitalista. Brillantemente prodotta, tematicamente solida, affascinante e acuta quanto preveggente. Di conseguenza, tutto meno che rassicurante e confortevole. (Simone Fiorucci)
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23. MATT BERNINGER – SERPENTINE PRISON
Concord Records
Dopo quasi vent’anni di militanza nei National – con cui ha prodotto otto album – il cantante dalla voce baritonale, vero marchio di fabbrica della band di Cincinnati, ha deciso di affrancarsi dalla presenza dei fratelli Dessner per produrre il suo primo lavoro solista. E Serpentine Prison non delude di certo le – alte – aspettative, con Berninger capace di muoversi a proprio agio tanto in una comfort zone che tende a ricalcare le atmosfere originali della band, che in sortite in territori meno familiari in cui sembra trovare nuova linfa per una cifra sempre riconoscibile ed elegantissima. (Fabio Mastroserio)
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22. PROTOMARTYR – ULTIMATE SUCCESS TODAY
Domino Records
Quinto album per il quartetto post punk di Detroit, veri barricadieri della musica americana qui accompagnati e sostenuti dai fiati di Jemeel Moondoc e Izaak Mills. Le consuete dichiarazioni d’intenti contro il governo americano, contro la limitazione delle libertà personali, contro l’impunita brutalità delle forze di polizia, qui trova un respiro più ampio che nei lavori precedenti, con la voce di Joe Casey accompagnata da una tavolozza armonica di ben più ampio respiro. Dunque post punk sì, ma che a una brutalità à la Birthday Party sa accompagnare un livello compositivo più ricco e che sa virare con naturale inclinazione verso i territori dell’alternative e dell’art rock. (Fabio Mastroserio)
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21. PORRIDGE RADIO – EVERY BAD
Secretly Canadian
Al quinto lavoro di studio le quattro ragazze di Brighton (più San Yardley dietro la batteria) colpiscono dritto al centro e al cuore del bersaglio. Every Bad è il dialogo costante, ricco di parole e liriche dirette e bellissime della frontwoman Dana Margolin, immerso dentro a una musica che non conosce pause. Undici canzoni senza momenti deboli tra post punk, indie rock, shoegaze. Un fiume di parole e note che in quaranta minuti sferza il viso come una raffica di vento fresco, giovane, irruento e mai banale, che partendo dalle storie – d’amore – personali raggiunge il pubblico con un linguaggio emotivo universale. (Fabio Mastroserio)
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20. FLAMING LIPS – AMERICAN HEAD
Warner / Bella Union
American Head è una cartolina lisergica della provincia statunitense. Un album di ricordi e di scene di vita che affondano nella memoria del leader della band di Oklahoma City, Wayne Coyne. Gli anni giovanili nella prateria in sella a motociclette che vanno troppo veloci. La giovinezza spensierata del sogno americano sotto antidepressivi di At the Movies on Quaaludes costituisce il centro e il messaggio sublimato del disco: un americanesimo ribaltato, il sogno consumista e arrivista del farcela si declina nei termini nichilisti del consumare sostanze e il proprio corpo. (Paolo Bergamaschi)
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19. FLEET FOXES – SHORE
ANTI- Records
Robin Pecknold ha tirato fuori un disco riflessivo, dall’anima distintiva, che dialoga con vecchi eroi ma già vede in arrivo quelli futuri. Shore è l’album con cui il folk dei Fleet Foxes dismette definitivamente le barbe e si lancia nel futuro per trovare una sua versione contemporanea, riarrangiata, con un’ultima ballata che è una pietrificante ululata di lupo. E quello che succede alla fine del disco è la sensazione di avere addosso una singolare nostalgia di futuro. (Gio Taverni)
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18. THUNDERCAT – IT IS WHAT IT IS
Brainfeeder
“È quello che è” potrebbe essere un mantra perfetto per accogliere tutto ciò che ci è capitato quest’anno. È anche un album emotivamente molto denso, perché parla di amore ma anche di morte, in particolare della scomparsa di Mac Miller, amico fraterno di Thundercat. Ci sono cose più grandi di noi, a cui fatichiamo dare un senso – come la scomparsa improvvisa di un amico – per cui sediamoci e ascoltiamo questo gioiello di soul e R&B. (Alessia Melchiorre)
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17. WOODKID – S16
Island Records
Il simbolo chimico e il numero atomico dello zolfo, elemento base della vita — ma anche della (auto)combustione — per riassumere un ritorno in grande stile, spettacolare ed epico, eppure allo stesso tempo intimo e introspettivo. Una riflessione non solo estetica sulla contrapposizione (e la sovrapposizione) tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, che carezza il cuore senza fare sconti alla mente. Coesiva e maestosa, elettronica e metallica, ci mette di fronte consapevolezza di aver creato dei mostri e alla responsabilità, individuale e collettiva, di trovare il modo di sconfiggerli. (Simone Fiorucci)
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16. DUVAL TIMOTHY – HELP
Carrying Colour / The Vinyl Factory
Se Londra negli ultimi anni ha dato vita a una delle scene jazz più interessanti, mancava un artista che riuscisse a mischiare questi influssi con altri pezzi dell’identità underground britannica, trip hop e garage su tutti. Help è un lavoro minimalista (piano e qualche sound effect) nella forma ma massimalista in modo sotterraneo, nella sintesi tra universi sonori lontani. È musica classica per capannoni industriali, musica rave per la propria cameretta. Un disco come ce ne sono pochi altri. (Fernando Giacinti)
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15. MUZZ – MUZZ
Matador Records
Muzz è il nuovo progetto di Paul Banks degli Interpol, formato insieme al suo amico di vecchia data e compagno di liceo Josh Kaufman (Bonny Light Horseman) e al batterista Matt Berrick, già attivo con The Walkmen e Fleet Foxes. Si tratta di un lavoro particolarmente intimista, ideato già nel 2015 ma portato a termine solamente quest’anno, dove Banks mette da parte la voce baritonale e distaccata a cui siamo abituati lasciandosi libero di spaziare tra sonorità più morbide e delicate. Dodici tracce varie in cui tutto suona genuino, piacevole e coinvolgente: da Bad Feeling alle incursioni elettroniche di Evergreen e Summer Love, dal pop rock di Red Western Sky e Broken Tambourine all’indie folk di Knuckleduster. Il risultato complessivo è un disco emozionante, rilassante e perfetto da ascoltare durante la notte con qualche birra di compagnia. (Mattia Fumarola)
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14. ADRIANNE LENKER – songs and instrumentals
4AD
Adrianne Lenker è una macchina letale sforna-canzoni, una di quelle menti creative che basterebbe lasciare sola sotto un albero con una chitarra per aspettare che se ne torni a casa con un disco o un’intuizione. Dopo i due dischi dello scorso anno con i Big Thief, Adrianne per il venti-venti torna alla dimensione solista e tira fuori altri due nuove perle, un disco di pezzi inediti e uno strumentale – due lavori che non sono semplicemente una prova del suo talento, ma la conferma che quella di Adrianne Lenker è una delle voci più originali e distintive nel panorama della musica contemporanea. Siamo sicuri che tornerà presto a cantarci la sua bella ossessione musicale, e ancora sarà l’incanto. (Gio Taverni)
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13. YVES TUMOR – HEAVEN TO A TORTURED MIND
Warp Records
Parafrasando i giovani Arctic Monkeys, “whatever you think I am, that’s what I’m not”. Questo sembra il monito che ci lancia Yves Tumor. L’ennesima sterzata stilistiche, in una carriera volutamente fatta di tornanti e scalate in solitaria a coraggiosi gran premi della montagna, seguiti da discese a rotta di collo verso solo lui sa dove. Così anche l’attuale trasformazione da rumoroso producer sperimentale a cantautore trascendente alla (David o Sean? l’anagrafe non aiuta) Bowie sembra la cosa più naturale del mondo. Sexy, groovy, costantemente fluid come vogliono i tempi. (Simone Fiorucci)
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12. LAURA MARLING – SONG FOR OUR DAUGHTER
Chrysalis Records
Dopo l’incursione sperimentale in coppia con Mike Lindsay nel progetto LUMP, Laura Marling ritorna a sonorità più consuete con Song For Our Daughter. Il risultato è forse tra i migliori nella carriera di una musicista che, a soli trent’anni, ha già pubblicato sette album. Song For Our Daughter alterna momenti ironici ad episodi malinconici legati da arrangiamenti che rimandano a Cohen, Dylan, e al Paul McCartney solista dei primi anni ’70. Un album che, nelle parole della Marling, rappresenta “una costante ricerca per comprendere cosa significhi essere donna in questa società”. (Viola Pellegrini)
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11. RUN THE JEWELS – RTJ4
BMG Rights Management
I Run The Jewels tornano con un nuovo album, il seguito di RTJ3 uscito quattro anni fa: RTJ4 è forse il loro disco più arrabbiato in assoluto, in cui la musica cerca di traslare il rap old school con il rock. Tra vari featuring molto interessanti come quelli con Zack De La Rocha e Josh Homme, Killer Mike e EL-P ci fanno ascoltare brani dal forte significato politico e sociale, contro il razzismo e la violenza della polizia. (Mattia Fumarola)
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10. KELLY LEE OWENS – INNER SONG
Smalltown Supersound
Kelly Lee Owens continua a coccolarsi il demone a lei più caro: una sorta di autismo ostinato e terapeutico che la porta a lavorare sui dettagli fino a superare quella soglia di non ritorno in cui non c’è più nessun dettaglio su cui poter mettere le mani. Perché lì sta il diavolo, appunto. E diabolica è la sua maestria nel riuscire a rivelare le briciole atomiche di inferno che compongono qualunque granello digitale, senza mai comunque scollinare nel baratro della musica depressiva. Più che canzoni, costruzioni intuitive, ricamate su scala microscopica. Dal valore, però, enorme. (Simone Fiorucci)
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9. MOSES SUMNEY – græ
Jagjaguwar
Moses Sumney sembra un essere di un altro pianeta e invece è perfettamente figlio del suo tempo: con il suo corpo ridefinisce i confini della mascolinità e con la sua musica, e la sua voce ultraterrestre, canta cosa significa essere nero in America oggi. Un disco contemporaneo che torneremo a riascoltare anche negli anni a venire – diciamo tra venti – per capire il mondo di oggi. (Alessia Melchiorre)
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8. BILL CALLAHAN – GOLD RECORD
Drag City
In un periodo sghembo e sconquassato come questo, che dall’America arrivi una voce solitaria di resistenza che ci riporta a sospenderci dentro il ritmo della chitarra, del folk puro che destreggia col rock, dei chiaroscuri country rievocatori di vecchi cowboy, una voce così placida che canta nel mezzo del delirio, ha un effetto catartico e rassicura sul passaggio della tempesta. Con Gold Record Bill Callahan continua la sua opera di confessione remota, di ballate oscure che incantano con chitarra e voce come strumenti prediletti. Perché nonostante continui a rievocarli, Bill Callahan non è Johnny Cash, e non è nemmeno Leonard Cohen: è Bill Callahan, uno dei grandi cantautori del nostro tempo. Da ascoltare, e riascoltare. (Gio Taverni)
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7. SAULT – UNTITLED (BLACK IS) / UNTITLED (RISE)
Forever Living Originals
Doppio album (uno a giugno, l’altro a settembre) per il misterioso collettivo britannico, Untitled in poco più di cento minuti è una dichiarazione d’intenti e – insieme – di forza di una delle esperienze musicali più interessanti, suggestive e ispirate di questi ultimi anni. Provenienti dall’underground londinese, in poco più di cento minuti i Sault dipanano rivendicazioni black bagnate da litri di funk, soul, psichedelia, afro-beat, disco, rhythm and blues, mettendo in scena un trionfo di rabbia e creatività tali da farne quasi un To Pimp a Butterfly del 2020. L’ostinata scelta di non mostrarsi, di sottrarsi, anzi a un mondo – anche musicale – sempre più costruito sull’immagine, restituiscono una sensazione quasi schiacciante di superiorità e ne amplificano la forza evocativa e il potere insito nel loro messaggio. (Fabio Mastroserio)
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6. TAME IMPALA – THE SLOW RUSH
Universal Music Australia
Anche l’ultimo album della nota band australiana è stato un ottimo palliativo all’ansia da quarantena. La “fretta lenta” ci ha aiutato molto a riconsiderare la nostra concezione del tempo durante questo anno travagliato: respirate più profondamente (Breathe Deeper) e lasciatevi perdere in ieri (Lost in Yesterday) perché avete ancora un’altra ora (One More Hour). (Alessia Melchiorre)
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5. NICOLAS JAAR – CENIZAS
Other People
Nicolas Jaar è inarrestabile. Uno dei talenti più produttivi e creativi degli ultimi anni, musicista totale, melomane in fiamme, cacciatore di suoni. Cenizas è uscito in un momento particolare dell’anno – un momento in cui è riuscito a cogliere lo sbandamento da isolamento che avevamo addosso la primavera scorsa. Uno di quei dischi che ha saputo parlare e carezzare le nostre costole: la musica e i suoni di Cenizas hanno raccontato il tempo, un tempo dilatato e irregolare che l’elettronica di Jaar riassume alla perfezione. Come quelle cose a cui ti afferri quando sei dentro il caos. (Gio Taverni)
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4. PERFUME GENIUS – SET MY HEART ON FIRE IMMEDIATELY
Matador Records
Il talento di Mike Hadreas allo stato puro e la definitiva consacrazione della libertà artistica di Perfume Genius. Set My Heart On Fire Immediately si spoglia dell’esplosione barocca e art-pop di No Shape, e già dalla copertina è chiaro il cambiamento del linguaggio del corpo di Hadreas – la nudità che abbandona l’artificio, l’estetica dei video molto più vicina a Springsteen che a Bowie. Perfume Genius gioca a mescolare generi e suoni, con quella straordinaria voce che ancora una volta sfugge a un timbro definito. Un disco che ci trascina avanti e indietro tra decenni, riattualizza vecchie ballate, mescola, e ha l’effetto voluto: incendiare il cuore immediatamente. (Gio Taverni)
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3. BOB DYLAN – ROUGH AND ROWDY WAYS
Columbia Records
Tutto ha avuto inizio – come nelle fiabe – allo scoccare di una mezzanotte di quarantena tra il 27 e il 28 marzo quando Dylan pubblicò Murder Most Foul, lunga ben 16 minuti e 56 secondi con un fermo immagine del volto di John Fitzgerald Kennedy. Quella lunghissima canzone sarebbe stato il canto più vicino alla desolazione da lockdown, un lungo abbraccio a tutto ciò che l’America – e con lei il mondo intero – avrebbe potuto essere e non è mai stata. 39° album di studio e primo in otto anni, Rough and Rowdy Ways è un racconto quasi testamentario, sorretto da una voce che, almeno negli ultimi trent’anni, non è mai stata così bella, misurata, calda e ruvida a un tempo. Dylan sembra parlarci coi suoi testi, certo, ma ancora di più con certe intonazioni della voce; quell’incredibile mappa scritta con inchiostro simpatico che da sessant’anni racconta la sua verità dentro a un’incredibile varietà di maschere, qui ora blues, ora jazz, ora semplicemente dylaniane, in struggenti ballate piene di malinconia e – forse per la prima volta – di calma e di pace. (Fabio Mastroserio)
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PRIMO (e secondo) POSTO // PARI
FIONA APPLE – FETCH THE BOLT CUTTERS
Epic Clean Slate
Perché è l’album più onesto di questo maledetto 2020. Perché è una vera e propria sessione di psicoterapia da 54 minuti. Perché è stato registrato in casa di Fiona ed è uscito nel pieno del lockdown. Per quel verso intraducibile in italiano: “I would beg to disagree but begging disagrees with me”. Perché abbiamo aspettato 8 anni dal suo ultimo album e c’è stato un momento in cui Fiona non era del tutto convinta di volerlo finire. Perché il titolo Fetch The Bolt Cutters è un modo per dire di liberarsi dalle proprie catene ed è tratto da una battuta di Gillian Anderson nella serie “The Fall” (molto consigliata). Perché I Want You To Love Me è il miglior proemio che ci si potesse aspettare e fa già pregustare cosa verrà dopo. Perché Shameika esiste e fa anche rap. Perché è pieno di percussioni e anche di cani che abbaiano. Perché è così perfetto che Fiona bestemmia in On I Go dopo aver sbagliato un verso. Perché parla di donne e di come dovrebbero supportarsi a vicenda invece di andarsi contro per gli uomini. Perché in For Her cita lo stupro con un verso che è allo stesso momento autobiografico e universale. Perché ha ricevuto tre nomine ai Grammy ma Fiona pensa ancora che quel mondo sia “bullshit”. (Alessia Melchiorre)
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FONTAINES D.C. – A HERO’S DEATH
Partisan Records
Nemmeno un anno fa avevano preso l’asticella dell’indie-rock più o meno mainstream e l’avevano messa qualche tacca più in su di dove l’avevano trovata. Adesso, a guardarsi indietro, scappa loro da ridere quasi avessero alle spalle una carriera ventennale. Poi va da sè che da ridere ci sia ben poco, al momento, e infatti l’approccio al successo improvviso è di chi è già arrivato a una finale, bellissima disperazione. Un filmetto horror girato come una commedia nera: nichilismo spensierato ma mai esasperato, ribellione (s)composta eppure sempre empatica. Il 2020 ha detto che le nuove generazioni son costrette a maturare presto, per forza di cose. Stai a vedere che è un bene. (Simone Fiorucci)