Irene fa questo come lavoro e si fa pagare piuttosto caro anche perchè i suoi viaggi in Messico per acquistare il barbiturico sono rischiosi così come i contatti che gli procura di volta in volta un amico che lavora in ospedale e che fa da tramite tra Irene e il medico che la usa per non sporcarsi mani e coscienza. Irene in ambito lavorativo si fa chiamare Miele, perchè addolcisce l’angoscia dei malati accompagnandoli in quello che per altri è il momento più atroce della vita mentre per loro è la liberazione dal dolore e dalle sofferenze.
Un giorno a richiedere il suo servizio è un settantenne in buona salute che vuole farla finita semplicemente perchè crede di aver vissuto abbastanza e non ha più stimoli per il futuro né pensa di poter aspirare a nuove emozioni. L’anomala richiesta e l’incontro con quest’uomo metteranno in discussione tutte le scelte fatte da Miele fino ad allora e sarà la conoscenza reciproca a scuotere le loro convinzioni e l’apatia emotiva a cui si erano abbandonati.
Un film minimalista può essere mille volte più intenso di un kolossal o di un melodramma strappalacrime, e Miele raggiunge lo spettatore grazie ad una narrazione cruda che porta direttamente a fare i conti con la figura della protagonista; e nonostante la Golino, così come Covacich nel romanzo A nome tuo da cui è tratta la pellicola, non si esponga prendendo posizione radicale pro o contro il lavoro di Miele, chi guarda d’istinto appoggia o condanna l’idea del suicidio assistito.
Ciò che più colpisce dell’opera è che comunque la si pensi, qualunque sia la posizione assunta nei confronti di Miele dopo i primi minuti è inevitabile assistere all’evoluzione della storia ponendosi ulteriori domande e scoprendo il lato umano della protagonista cercando di scollegarla dal suo lavoro.
Dubbi che aumentano con l’arrivo in scena dell’ingegnere che vuole morire, con i battibecchi tra lui e Miele, con l’infittirsi di un’ambigua relazione tra i due che pare risvegliare nell’uno interesse per una vita da cui non aspettava più nulla e nell’altra una spontaneità affettiva che credeva morta insieme alla madre qualche anno prima.
Eccezionali Jasmine Trinca nei panni di Miele e un mastodontico Carlo Cecchi in quelli dell’ingegnere, ma non si può sottovalutare il resto del cast che dai bravissimi Roberto De Francesco e Iaia Forte (scuola inconfondibile Teatro Studio e Teatri Uniti di Napoli) arriva a Vinicio Marchioni e Libero De Rienzo figure maschili che come il padre di Irene, interpretato da Massimiliano Iacolucci, fanno da contraltare all’ingegnere per la ragazza che, seppure voglia bene in modo diverso ad ognuno di loro, mai prima di incontrare quell’uomo si era sentita davvero libera di esprimere sé stessa e le sue sensazioni.
Alcune scelte apprezzabili vanno sottolineate come l’assenza di colonna sonora, c’è esclusivamente la musica che stanno ascoltando i protagonisti quasi ad eliminare ogni barriera esterna a ciò che è in scena tra personaggio e spettatore; le immagini di bellezza mostrate nel film non vengono mai godute appieno, sia che riguardino la città di Roma che la vista del mare da casa di Miele, sia che ci si trovi nell’oasi di Maccarese o al cospetto della nudità di Jasmine Trinca c’è un velo inconfondibile e incancellabile che incombe sulle scene come se non ci si potesse liberare dell’argomento che si sta trattando nella storia.
L’ottimo risultato di Miele è dovuto anche ad una manovalanza di artigiani del Cinema che andrebbe citata ed elogiata costantemente per la bravura che dimostra.