Miden, FILL e distopia femminista | Intervista a Veronica Raimo

Il prossimo fine settimana si terrà presso la splendida sede del Coronet Theatre la seconda edizione del FILL – Festival of Italian Literature in London. Il programma di questa nuova edizione si riconferma specchio delle necessità e delle tendenze di questo 2018 e non poteva quindi mancare al suo interno un momento incentrato sul femminismo e le sue espressioni in chiave distopica nella letteratura. Speaker del panel Make Margaret Atwood fiction again. On feminist dystopias saranno Veronica Raimo e Sophie Mackintosh: autrice la prima di Miden, uno dei migliori romanzi italiani di quest’anno, e l’altra di The water cure, finito subito nella longlist del Man Booker Prize.
Abbiamo colto l’occasione per porre alla Raimo qualche domanda sul suo romanzo, sul suo rapporto con la distopia e la letteratura di genere e sulle sue aspettative sul festival. Buona lettura!

Miden, cittadina felice e accogliente, in cui tutto è iperburocratizzato e sotto controllo, viene disturbata da un’accusa di violenza, peraltro “in ritardo” di due anni. Per questo motivo il tuo romanzo è spesso associato al movimento #MeToo. So che la genesi di Miden risale a ben prima, ritieni in ogni caso che l’affiancamento della tua opera al movimento sia corretta?

La premessa da cui parte il libro in effetti ha più di un’analogia con il movimento #MeToo, ovvero il fatto di poter denunciare un abuso sessuale a distanza di anni e l’idea che la consapevolezza di una violenza subita possa maturare nel tempo. Detto questo, l’accostamento al movimento per me è stata anche problematica, non soltanto perché è difficile equiparare un’opera di fiction a una cronaca del contemporaneo, ma perché nel mio romanzo – senza poter immaginare l’ondata del #MeToo – ho tentato di interrogarmi sulle possibili conseguenze di un ipotetico movimento #MeToo, su un’eventuale sospensione del garantismo, sulla valutazione della pena, sulla mediatizzazione dei processi e sulla normativizzazione del desiderio in assenza di un discorso più complesso e condiviso su cosa sia la violenza.

La narrazione di Miden si sviluppa grazie all’alternarsi di due punti di vista differenti in prima persona singolare: la Compagna e il Compagno. Il romanzo è stato pensato e strutturato così dal principio e cosa volevi dare con l’utilizzo di queste due voci? Perché hai escluso, inoltre, la voce dell’accusa, cioè della ragazza?

No, non è stato pensato così fin dall’inizio. In realtà volevo raccontare la storia dal punto di vista di lui, di quest’uomo che si sente accusato di violenza sessuale da parte una ragazza con cui ha avuto una storia vera e propria tempo prima. Poi, quando ho cominciato a scrivere, è venuta fuori la voce dell’attuale compagna dell’uomo. Ho pensato a questa scena iniziale in cui due donne si confrontano, una che dice all’altra di essere stata violentata da quello che al momento è diventato il compagno della seconda. Da lì è partita l’alternanza delle voci – maschile e femminile – che ha dato la struttura alla storia, trasformandola anche nella storia di una coppia messa di fronte a un conflitto arrivato dall’esterno. In fondo “Miden” – al di là dell’impianto distopico – può essere visto come un dramma da camera su una relazione di coppia. Per questo la voce della ragazza è rimasta fuori, mi interessava più vedere come l’accusa di violenza sessuale potesse riverberare all’interno di questa coppia. In più volevo che la ragazza, nel tempo presente in cui si svolge la vicenda, avesse una sua identità già solida, in qualche modo chiusa. Il suo percorso c’è stato ed è ciò che resta fuori dalla narrazione ma al tempo stesso è l’innesco della narrazione.

L’evoluzione del romanzo e quindi del processo contro il protagonista maschile terminano con un verdetto, condivisibile o meno. Anche la comunità di Miden si spacca e ogni lettore può farsi un’idea. Ma l’intenzione del romanzo non sembra quella di creare schieramenti di giudizio nei confronti del personaggio maschile. Cosa pensi sia quindi necessario notare del comportamento del Compagno?

È una domanda a cui non saprei come rispondere. Non so cosa sia “necessario” notare nel suo comportamento, spero solo che sia un personaggio riuscito, ci sono molto legata. A volte ho la sensazione che ci si aspetti una specie di condanna morale mia nei suoi confronti, il che sarebbe un sentimento un po’ assurdo da provare, non scrivo con l’idea di giudicare i miei personaggi.

La violenza sessuale e la conseguente denuncia sono temi quanto più attuali che avrebbero potuto trovare una lente più realista. Come mai hai deciso invece di usare un’ambientazione distopica?

Non è stata una scelta decisa a tavolino e diciamo che l’ambientazione distopica funziona un po’ come la condensazione nei sogni, dove a essere sovrapposti sono degli immaginari reali che si trasfigurano proprio per questo processo di condensazione. Non pensavo di scrivere un grande affresco distopico, penso non ne sarei nemmeno in grado, o comunque non avevo quell’ambizione, ma ho provato a elaborare una società in cui sono estremizzati alcuni conflitti del presente. Inoltre nella sua “burocratizzazione” ed estrema schematizzazione dei ruoli, Miden era funzionale come scenario per raccontare ciò che mi interessava di più, ovvero il dramma dei due protagonisti. È un po’ come il set di “Dogville” dove l’ambientazione viene tracciata con quelle delimitazioni sul pavimento creando una specie di gioco di ruolo.

Sia in Italia che nel panorama editoriale internazionale sono state numerose le pubblicazioni di narrazioni in chiave distopica. Credi che questa tendenza sia in qualche modo una moda o è realmente figlia di una necessità di indagare il presente in modo diverso?

Credo sia le due cose insieme, le mode nascono anche dalle necessità, quindi non credo che in sé la parola “moda” sia negativa. Poi ovviamente c’è il pericolo che una certa moda finisca per sfociare nel manierismo o ricalcare certi stilemi, ma questo vale per tutto. Probabilmente è quello che è accaduto anche a un tipo di realismo, diciamo il cosidetto “realismo isterico”, che ha funzionato come chiave per interpretare e raccontare il presente e poi si è trasformato anche in una sua gabbia.

Nel 2018 è stato pubblicato per Nero il volume Le visionarie, che ha visto te e Claudia Durastanti come curatrici. Da dove arriva il tuo interesse per la “letteratura di genere” e la distopia? E quali sono le tue eventuali influenze?

In realtà quando mi è stato chiesto di curare con Claudia Durastanti “Le visionarie”, ci siamo ritrovate tutte a due a riflettere sul fatto che negli ultimi tempi avevamo sviluppato una sorta di insofferenza verso una scrittura fortemente realista, analitica e sociologica, in cui dimostrare di aver compreso in maniera anche intelligente e acuta i codici e le categorie del contemporaneo ma senza fare un passo ulteriore, ovvero quello di tentare un’apertura altra, di esplorare una dissonanza di qualche tipo. Il progetto “Le visionarie” sembrava arrivare in un momento in cui stavo sviluppando un interesse verso una narrazione che si interrogava su un azzardo simile, sul forzare i limiti del realismo, e probabilmente è servito anche ad accrescere la mia curiosità in questo senso (non conoscevo molte delle autrici contenute nell’antologia). Però non posso dire di avere un forte background di “letteratura di genere”, per cui tra le influenze citerei più uno scrittore come il Coetzee di “L’infanzia di Gesù”, che probabilmente non verrebbe mai annoverato nella “letteratura di genere”, ma il senso di “Le visionarie” era anche quello di provare a sfondare queste rigidità rispetto a una classificazione asfittica basata sul genere (fantasy, fantascienza, ecc.)

Ritornando al discorso “tendenza”, la serie tv The Handmaid’s Tale ha riportato in auge il romanzo della Atwood, caposaldo di un certo tipo di letteratura femminista e distopica. A distanza di trent’anni abbiamo visto quindi un vivo proliferare di narrazioni incentrate sul dislivello di potere tra uomini e donne. Anche il romanzo di Sophie Mackintosh, con cui dialogherai durante il festival, è inscrivibile in questa categoria. Secondo te a cosa è dovuto e cosa è cambiato rispetto al passato?

Credo che quando una donna si mette a scrivere le sia difficile prescindere dall’interrogarsi su queste dinamiche, aldilà del suo tipo di narrativa. E non credo nemmeno sia qualcosa che avvenga oggi più che in passato, penso piuttosto che finalmente stia aumentando l’attenzione nei confronti delle scrittrici. Per quanto riguarda l’elemento distopico, la prospettiva di una donna rispetto alla società la mette quasi necessariamente in una condizione di per sé distopica. Il libro di Atwood è un buon esempio: tutto ciò che è descritto in quel romanzo avviene in qualche parte del mondo. Per fare un esempio più contingente, viviamo in un’epoca in cui a Londra si organizza questo festival di letteratura italiana con un panel su femminismo e distopia e a Verona passa la mozione leghista per sostenere associazioni cattoliche anti-abortiste. C’è qualcosa di intrinsecamente distopico nella continua schizofrenia in cui viviamo, ancora di più in una prospettiva di genere.

Cosa ti aspetti dalla tua partecipazione a questo festival e in che modo credi che questo tipo di eventi possano essere utili per la letteratura italiana?

Be’, guardando il programma del festival credo che questo tipo di eventi non solo possano essere utili alla letteratura italiana, ma a un dibattito culturale e politico sul contemporaneo. Più che aspettarmi qualcosa, sono molto felice di farne parte e vorrei che i festival letterari in generale fossero più organizzati seguendo un modello simile, invece che come contenitori di singoli eventi promozionali che non dialogano tra di loro.

Per chiudere: se fossi una semplice partecipante, quale incontro in programma non ti faresti assolutamente scappare?

Sono molto curiosa di sentire il confronto tra Ali Smith, Oliva Laing, Walter Siti e Fabio Deotto.


FILL – Festival Of Italian Literature in London vi attende a Londra questo weekend. Il programma qui

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