Mia nonna era friulana. Quando è morta, nel luglio del 2014, aveva quasi 104 anni e gli occhi ancora blu. Un blu implacabile, luminosissimo. Il mondo le passava negli occhi, planando nel blu. Quasi niente restava impigliato a turbarli. Detestava due cose: i grassi saturi e la luce, quando gliela lasciavano accesa per un tempo non sostenibile nella stanza in cui riposava. Potevi sentirla intonare, a metà tra l’ammonizione e il tentativo di destare sensi di colpa: “La luuuuuuce”, anche per tre minuti a brevi intervalli regolari, fino a neutralizzazione della fonte luminosa, dovuta all’intervento in genere di chi l’aveva innescata. Il suo sistema anti-luce per lo più otteneva ilarità, con segreto compiacimento.
Amava ricordare fatti legati alla sua giovinezza friulana, le mise sfoggiate in questo e quell’evento: c’era in particolare un vestito in taffetà verde che descriveva con sbalorditiva fissità di dettagli negli anni e sempre omettendo la doppia nella pronuncia, secondo la dizione friulana. “Taftà vérde”. Anche dopo settant’anni a Napoli, mia nonna è rimasta friulana: nell’accento, nel contegno e nella dignità terrigna di contadina venuta nella grande città del Sud per emanciparsi. Il racconto di come respinse le attenzioni del cugino Piètro, a lungo amato in segreto, è stato tra i primi promemoria di come alla vita piaccia mancare gli appuntamenti. La vita è da sempre il Dazòn delle corrispondenze amorose. Di me, della mia lunga adolescenza ha disapprovato il look dark: scuoteva la testa con pacato sconcerto; piercing, anfibi: “perché?” sembrava dire anche tacendo. Negli anni non solo le ho dato ragione, ma ho preso a sfoggiare colori gonne balze fantasie, quando andavo a trovarla. Era un modo di restituirle arretrati in fiducia, la resa all’esperienza.
Questa donna fiera, sveglia senza l’assillo di dimostrarlo, serena, soltanto una volta l’ho vista fuori di sé dalla furia. Avrò avuto vent’anni, lei novanta. Sedeva in cucina con la signora Di Gennaro, vedova, dirimpettaia abbastanza presente, compagna di caffè e quiz televisivi. La signora Di Gennaro fumava molto: moltitudini di mozziconi MS affollavano il posacenere dopo le sue visite, appestando l’aria. La nonna non tollerava quel suo abuso di tabacco e pazienza, lo trovava poco salutare e femminile. Ma soprattutto maleducato. “Fuma, fuma testa di morto!” sentenziava con autentico disprezzo, svuotando il posacenere e aprendo le finestre, quando la vicina era andata via. In generale mal sopportava il carattere malizioso e insinuante, la furbizia tutta napoletana della signora Di Gennaro.
Last but not least, la signora era di destra: una somma di aspetti gliela rendevano cordialmente odiosa. Quel giorno la discussione virò sulla politica, distrattamente, come fanno i disastri. La signora Di Gennaro elogiava l’operato dei fascisti, col tono vago e nostalgico da “quando c’era lui” che di tanto in tanto usava, ma per qualche motivo quel giorno dovette indugiare più del solito nella nostalgia fascista, sfidando la Resistenza della nonna. Fu una sirena antiaerea, un urlo pieno di orrore a deflagrare in un pomeriggio di quasi vent’anni fa. “Signòòòòòòòraaaa, lei non lo sa chi erano i fascistiiiiii. Signòòòòòòra, i fascisti erano degli assassiiiiiiniiiii”. Così, per tre minuti circa, e non c’era nessuna luce da spegnere. Solo la Storia da lenire, una distesa di orrore da arginare e nemmeno una piccola diga per contenerlo, interruttore da azionare, niente. Il fatto è che la signora Di Gennaro aveva vissuto un fascismo molto piccolo: dimensione salotto-cucina-camicie nere da stirare. Mia nonna aveva corso in mezzo ai boschi friulani. Aveva corso e corso rischi, nascosto soldati, sfamato gente, era stata staffetta partigiana e non c’era stata altra scelta.
Siccome più passa il tempo più sono convinta che questo storytelling chiamato vita acquisti un senso. Che il confluire di eventi arbitrari a strappare i giorni uno dietro l’altro, visto in controluce ha un ordine spaventoso e assurdo, mi sono seduta e ho scritto. Perché dopo la morte di mia nonna non ho pensato a lei tanto come in queste settimane, giorni. Settimane e giorni in cui a ogni apertura di quotidiano qualcosa non torna, o meglio qualcosa ritorna. Il fascismo, i nazionalismi. Roger Waters ha interrotto il suo concerto in Brasile, a San Paolo, pochi giorni fa, per rivolgere al pubblico un invito alla riflessione.
“Avete delle elezioni molto importanti tra tre settimane. Dovete decidere quale sarà il vostro prossimo presidente. So che non sono affari miei, ma sono estremamente contrario alla rinascita di tutti i fascismi.”
Il riferimento è alle elezioni del prossimo 28 ottobre in Brasile, quando Jair Bolsonaro, candidato di estrema destra, rischia di vincere il ballottaggio contro Haddad, il candidato presidente del Partito dei Lavoratori. Roger Waters come mio padre non ha mai conosciuto il suo papà, morto da alleato, nel ’44, durante lo sbarco ad Anzio. Mio nonno non tornò mai dalla campagna in Russia. Ecco perché l’album The Wall mi appartiene due volte: una per la mia giovinezza genericamente tormentata, l’altra per quella di mio padre, dai ben più solidi riscontri biografici.
Dopo aver rifiutato l’amore tardivo del cugino Piètro, nel ’52 mia nonna tornò a Napoli: dieci anni lontano dal Sud, in mezzo un mondo stravolto, e la vita che non sarebbe mai più stata la stessa. Aveva quarant’anni e due ragazzini da tirar su in assenza di un compagno. Ines non ha mai smesso di sperare che Emanuéle tornasse. Ne rileggeva le lettere vergate in grafia elegante, riempiendo il vuoto della quotidianità con quel breve passato cui negli anni conferì l’alone di intoccabilità proprio di santi, martiri e dispersi in guerra. Pregava molto. Emanuéle è stato poche fotografie e quelle lettere per mia zia, Anna, e mio padre, Antonio: un papà in carta, inchiostro e pellicola impressionata.
Negli anni i miei hanno sviluppato una familiarità con l’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) e con i suoi comunicati. Ogni tanto una trasmissione televisiva si assumeva l’onere di riaccendere la speranza nella vita di Ines. Ed eccola seguire con aria attenta e meticolosa i vari “chi l’ha visto- speciale dispersi”. Quando l’apparecchio acustico non funzionava a dovere incalzava: “Non ho capito, Ana!” verso mia zia, che doveva riassumerle il contenuto sempre deludente della trasmissione. Si potrebbero avere notizie, non si potrebbero avere notizie: di fatto di Emanuéle, come per la maggioranza dei dispersi in quell’impresa scellerata che fu la campagna in Russia, non se ne seppe mai più niente. Con qualche ottimismo lo si immaginò disertore, capostipite di una nuova numerosa famiglia in un’area non specificata tra la Boemia, la Polonia e la Russia. Credo che anche nonna Ines preferisse quella versione, tanto che lo sforzo collettivo avrà senz’altro generato un universo alternativo, in cui figurano cugini cechi o polacchi, con gli occhi come i miei, che ridono come quelli dei cartoni animati.
Io e i miei fratelli, ereditando la Storia, siamo un esperimento di paternità, l’invenzione di un uomo a partire da un enorme buco nero negli affetti: il suo big bang della genitorialità. Condizione non priva di errori, controindicazioni, espiazioni, ricerca furiosa di identità e riscatto. Talvolta ho pensato di essere stata messa al mondo per vendetta, in sommo spregio all’assenza paterna. Ma ancora: il Tempo. Adesso mio padre ha 77 anni. Quando analizza il passato, scusandosi per gli errori e per tanta inesperienza, moltiplicata dall’assenza di modelli, la Storia e il suo peso sui nostri destini appaiono quanto mai duri, più duri dell’acciaio e del platino. Immodificabili. Vedo in lui il bambino sofferente, l’uomo che non si dà pace e finalmente il padre. Vivo abbastanza terrorizzata all’idea possa morire prima di aver sciolto dei nodi con il suo passato, con noi figli e con i suoi genitori; prima di essersi perdonato colpe non sue. Tutto questo è stato il fascismo per noi.
Questo racconto non sarebbe qui, come lo leggete, nero su bianco, senza una cena a Roma di tre settimane fa. Ero a casa di amici di amici, e quando le maglie dell’amicizia si allargano non puoi essere certo che chi mangia con te la pensi come te. Un ragazzo prende al volo l’occasione di una battuta molto leggera e divertente di qualcuno sul Pd per auto-professarsi elettore dei 5 stelle. Fin qui, con sforzo di tolleranza, tutto diciamo bene. Di lì a poco si gioca un exploit di tentato carisma modificando l’umore della tavola: “L’antifascismo è una bambinata”. Non è necessario racconti il seguito nei dettagli: basti sapere che chi scrive ha ripetuto molte volte le parole: Storia, Costituzione, Identità, Rispetto, prima di lasciare la casa con evidente esercizio di autocontrollo, reso più arduo dal vino, e qualche “cretino!” bene assestato.
Quella notte ho dormito male, rigirandomi nel letto, tormentata dal pensiero che tutto ciò che sono: la mia identità e quella della mia famiglia, le urla di mia nonna contro la signora Di Gennaro, il dolore di orfano di mio padre e la realtà del mio Paese per come la conosco dalla nascita, il suo volto, l’unico possibile, venissero tanto gratuitamente travisati. Annichiliti da poche parole senza coscienza. In che modo è possibile definire “bambinata” una difesa enorme e necessaria come l’antifascismo? A partire da quale passato e pensieri? Pretese…orizzonti? È il Nulla che prova a calare sulla sofferenza e sui morti, sul sentimento antifascista come unica espressione, rivendicazione e Resistenza del lato umano di un’umanità quasi del tutto annientata. Era tutto quello che c’era da fare: riorganizzare l’umano attorno a un nucleo di Nulla, ed è quello che è stato fatto. Ma ecco che il Nulla in forma di cretino se ne va in giro e prospera: indossa in queste settimane e giorni la faccia di molti cretini, lì fuori.
Siccome sono convinta che nella progressione delle nostre esistenze, ad aspettare, tutto può trovare un senso escluso i cretini; e che l’unico Nulla a cui soccombere sia quello definitivo e ultimo della morte, mi sono seduta e ho scritto. Ma prima di scrivere: le letture, sempre. Kurt Vonnegut si è staccato dal mucchio. Rileggimi. Così Mattatoio n.5 è diventato un rifugio anti-idiozia. Vonnegut al riparo dalle bombe, io dalla Storia negata.
[…] Billy non era capace di leggere in tralfamadoriano, naturalmente, ma poteva almeno vedere com’erano scritti (*i libri): gruppetti di simboli separati da stelle. Billy osservò che il gruppetto di simboli potevano essere dei telegrammi.
“Esatto” disse la voce.
“Sono dei telegrammi?”
“Non esistono telegrammi su Tralfamadore. Ma lei ha ragione: ogni gruppo di simboli è un breve messaggio urgente che descrive una situazione, una scena. Noi tralfamadoriani li leggiamo tutti in una volta, non uno dopo l’altro. Non c’è alcun rapporto particolare, se non che l’autore li ha scelti con cura in modo che, visti tutti insieme, producano un’immagine della vita che sia bella, sorprendente e profonda. Non c’è principio, parte di mezzo o fine, non c’è suspence, né morale, né cause ed effetti. Quello che amiamo nei nostri libri è la profondità di molti momenti meravigliosi visti tutti in una volta”. […]
In fondo alla scrittura di Kurt Vonnegut, come per gli Smiths: There is a light that never goes out. I russi, i tedeschi, gli americani. Sfilano come quadri al neon, Arte in forma gassosa, leggera eterna testimonianza di quanto grottesca sappia essere la violenza, incancellabile la Storia e invincibile l’Umanità. I salti temporali di Billy Pilgrim, il pianeta Tralfamadore e i suoi assennati abitanti, sono espediente letterario per ridistribuire l’Assurdo e innervarlo di luce. Un rifugio dall’Orrore fatto di generosità e fantasia. Questa operazione, per un sopravvissuto a uno dei bombardamenti più terribili della storia, è l’unica possibile ed è: rivoluzionaria.
Una volta uscito all’aperto dalla grotta scavata sotto un mattatoio di Dresda che gli fece salva la vita, Vonnegut trovò, al posto della “Firenze del Nord”, una distesa di macerie e un cumulo incalcolabile di morti. Ecco perché Billy Pilgrim è affetto da una strana malattia: “Ogni tanto, senza alcuna ragione apparente, si metteva a piangere“. I Tralfamadoriani fanno dono a Billy della conoscenza della vera natura del tempo. Tutto è, è sempre stato e sempre sarà, passato e futuro sono sempre esistiti e sempre esisteranno, nulla dipende dalla volontà dell’uomo. “Prenda la vita momento per momento” gli spiegano “e vedrà che siamo, tutti, insetti in un blocco d’ambra.” Ecco perché i Tralfamadoriani, e con loro Billy, quando muore qualcuno dicono: “Così va la vita”.
“Nella vita si fa il male pensando di fare il bene”: lo disse un giorno nonna Ines, distrattamente, in mia presenza, parlando più a sé che a me, convinta che una quindicenne non potesse capire. Aveva ragione, non potevo capire ma sapevo ascoltare il dolore, intravederne i riflessi. E ricordare. Ci ho messo più di venti anni per capire quella frase e iniziare a osservare come ingarbugliati siano il Bene e il Male, in questo mondo. Però una cosa l’ho capita e me la ricorderò sempre: se il male è banale, il bene è rivoluzionario. Quante storie conosciamo della Seconda Guerra Mondiale? Quanti amori, perdite, sconfitte, insperate vittorie e miracolosi ritrovamenti? Personaggi e caratteri, vizi e virtù, tic manie e colore degli ombrelli. Non è abbastanza incredibile –bello- quello che abbiamo? Raccontiamo tutto. Ripetiamo il racconto, finché siamo vivi. Scopriamo l’antifascismo, il sentimento irriducibile dell’umano e i suoi riflessi nella nostra vita di tutti i giorni. Non è possibile fare altrimenti, oggi. Giacché questo siamo noi.