City Sounds è il blog di Francesco Chianese che prova a raccontare i suoni delle città, da Bristol a Berlino fino alla nostra Italia. Stavolta è andato a Milano, per uno degli appuntamenti musicali più attesi del sound made in Italy: il MI AMI festival di Rockit. Tra luci e ombre, questo è il suo personale racconto dell’evento.
Mi sono recato al Magnolia per il MI AMI prevalentemente guidato da immagini mitiche di una sua gloria passata. Le iniziative promosse da Rockit nei vari locali a cui si appoggia a Milano, quest’ultimo inverno, mi avevano lasciato abbastanza freddino, e inoltre ascolto poca musica italiana, anche come conseguenza del fatto che la scena indipendente nazionale mi pare stia vivendo un momento di imbarazzo, e quella fierezza di scegliere solo musica al 100% italiana mi ricorda un po’ quella degli allevatori di bufale di Aversa nel momento in cui applicano la bandierina consapevoli di spedire ai supermercati una mozzarella tossica.
Da una parte i nomi di primo piano selezionati per i tre giorni, per carità di grandissimo rispetto, credo si prestino poco a un festival giovane che promette un’edizione “bella e fresca”: i Baustelle non sono certo né giovani né freschi, nonostante siano nell’anno del loro disco più riuscito, che ha convinto perfino un loro storico detrattore come il sottoscritto, e che funziona perfino dal vivo; né lo è Carmen Consoli, riesumata e ridimensionata ad arte in un ibrido acustico-sinfonico minimale e davvero molto intenso. Paradossalmente, quello davvero giovane dei tre headliner è quello che suona più stantio dell’intero festival, il fantasma di Vasco Brondi, nonostante riesca a regalare ancora qualche brivido quando reinterpreta le sue prime Le luci della centrale elettrica congedando la band ed esibendosi voce e chitarra, come dieci anni fa. Discorso analogo per Edda, Zen Circus e Pan del diavolo. Si tratta inoltre di nomi venuti tutti qui a Milano nei mesi scorsi, Carmen Consoli addirittura per coprire quattro date.
Dall’altra, i pochi gruppi italiani meno consolidati nel mainstream hipster nazionale che davvero riescono ad avere un po’ di visibilità, anche internazionale, sono misteriosamente assenti, a parte Altre di B e Gazebo Penguins, che certo non deludono, mentre intorno ai più solidi Management del dolore post-operatorio (che al di là del nome, sono il gruppo che al momento reinterpreta più fedelmente la tradizione del grande rock italiano) tra le cose più “fresche” c’è solo una proliferazione – un “mushrooming”, come direbbero gli inglesi con una parola che trovo meravigliosamente adatta – di raffazzonatissimi cantautori a corto di accordi e, paradossalmente, di parole, guidati da Carnesi e Colombre, e gruppi che mescolano un po’ di questo, un po’ di quello, e riescono tuttavia a restituirci, se non del talento effettivo, almeno un po’ di fottuto e scomposto teen spirit, come fanno i casertani Gomma o i Les Enfants, questi ultimi addirittura grattati via dal fondo dei talent show televisivi, che sono probabilmente le cose migliori ascoltate tra le nuove proposte.
Anche se a onor del vero, non mancano sorprese come il bellissimo trip-show di The Winstons, il nuovo progetto prog-psichedelico di Dell’Era, Gabrielli e Gitto, che ci trasporta in un’altra dimensione per un’ora abbondante.
In più ci sarebbero da aggiungere le classiche problematiche dei festival italiani, che però non possono essere addossati esclusivamente a Rockit. Per esempio la scaletta, non solo perché mette gli Spartiti di Collini e Reverberi all’una di notte, quando tutti quelli che sono rimasti vogliono esclusivamente ballare dopo essersi depressi a seguito di ore e ore di pessimo cantautorato, ma perché è sincronizzata in modo che i due palchi principali suonino insieme e si fermino insieme per mezz’ora, nonostante siano così vicini che è impossibile non sentire il beat di un palco dall’altro, nemmeno se ti metti sotto gli amplificatori, e così ti perdi quelle salvifiche sovrapposizioni stile Primavera Sound in cui puoi strappare 15 minuti di un gruppo e 15 di un altro senza rinunciare a parti salienti del concerto che vuoi seguire per intero.
Poi ci sono gli impianti audio, messi abbastanza male da far sì che tutti i suoni in uscita si sovrappongano producendo una massa indistinta di rumori che ricorda vagamente qualcosa che hai sentito sul disco. E in ultima analisi, il Magnolia che ospita potrebbe rendersi conto che il parco dell’idroscalo di Milano, bellissimo, meriterebbe un po’ di manutenzione e di erba per terra, in modo che ci si possa effettivamente sedere su un prato e che al momento del pogo non ci si ritrovi tutti ricoperti di polvere. In definitiva però è nella musica che nasce il problema: noiosa. Perché a monte di quelli che possono essere effettivamente dettagli, se ci si mette le dita nelle orecchie per qualche secondo e ci si guarda intorno sembra di essere ad un festival europeo.
Alla sua tredicesima edizione il MI AMI dovrebbe cominciare a confrontarsi col fatto che forse un festival esclusivamente dedicato alla musica italiana non ha più molto senso, soprattutto in questa fase di scarsa ispirazione, se si vuole strillare sulle pubblicità “musica importante a Milano”. Magari pure col fatto che la retorica da eterni adolescenti ha rotto le balle già da tempo, perfino nei suoi contesti più hipster: “il festival della musica bella e dei baci”, dunque, magari anche no, perché non c’è niente di peggio che risultare banali per insistere a riprodursi come giovani secondo le stesse modalità in eterno.
Last but not least, l’afflusso di pubblico non esattamente da sold-out dimostra anche che non moltissime persone hanno voglia di accollarsi un biglietto di più di 20 euro per una serata di questo tipo di offerta musicale, neppure di sabato, e che tale offerta neppure giustifica la spesa di un abbonamento per tre giorni che non comprenda una piazzola dove poggiare una tenda ed evitare di pendolare tra la città e l’idroscalo ogni sera in una navetta che ha tempi di reazione beckettiani. Seppure il MI AMI si conservi come un fenomeno unico a Milano, e certo una buona occasione per passarsi una serata di musica senza pretese fuori città.