Essere un duo che ha l’originalità come marchio di fabbrica e chiamare il proprio album con il nome della band non è così sbagliato. Riuscire a sovrapporsi a Reflektor degli Arcade Fire equivale invece ad andare ad un concerto e spintonare uno che nel polpaccio destro ha più muscoli che in tutto il vostro corpo. Potrebbe finire male.
Ma non per i MGMT. I due di Brooklyn si rifanno sentire a tre anni di distanza dal fortunato Congratulations e mettono in campo un disco ispirato, diretto successore dei precedenti lavori e destinato a tracciare ulteriormente il solco di originalità in cui Ben Goldwasser e Andrew VanWyngarden si sono da tempo inseriti.
Non è un album di facile ascolto. Alcuni pezzi sono diretti quanto le intenzioni di un democristiano e l’orecchio da tre anni digiuno deve riabituarsi ad un sound che, nelle sue linee essenziali, si distanzia brutalmente dalla stragrande maggioranza delle produzioni contemporanee.
Il disco si apre con la scoraggiante Alien Days, dove una vocina infantile introduce all’album e ti fa chiedere se anche questa volta ti sei confuso e hai di nuovo messo in cuffia l’audiolibro dei Tre Porcellini. Ci vuole qualche ascolto in più per ricomporre l’ennesimo pezzo frammentato dei MGMT e apprezzare il loop che per lunghi tratti lo domina.
Cool Song No. 2 rende onore al proprio titolo e rimane fredda. Una scelta forse poco azzeccata per la seconda traccia di un album, ma perfettamente in linea con un gruppo sempre meno connesso a dinamiche commerciali e sempre più concentrato sulle proprie sperimentazioni.
L’album parte realmente solo con Mistery Disease, ma è un inizio col botto. La intro del pezzo libera le energie fino a quel momento trattenute. Non è difficile immaginare quanto verrà spolpata da dj neanderthaliani alla caccia di carne da remix. Con questo pezzo inizia la fase centrale del disco, quella meglio riuscita.
Qui si trova anche Introspection, una bella canzone con chitarre a vista. Un momentaneo staccare la spina dai suoni psichedelici del gruppo, che, nella fase finale del pezzo, sfocia in un crescendo trionfale.
Dopo una Your Life is a Lie che fatica ad amalgamarsi con il resto dell’album, rimanendo una parentesi isolata e non del tutto gradevole, il duo si gioca l’asso. Astro-Mancy è uno dei pezzi migliori di tutta la produzione MGMT. Il registro epico della traccia è finalmente scevro di quei barocchi virtuosismi che, fin da Oracular Spectacular, hanno rubato molto alla band. Qui Goldwasser e VanWyngarden scelgono perfettamente come giocarsi la loro abilità nel creare effetti sonori imprevisti e, pur nella ricchezza di un pezzo debordante, riescono a non eccedere.
Il finale dell’album va invece masticato un po’. La scelta di di chiudere con un pezzo, anche nel testo, gioioso come Plenty of Girls in the Sea, seguito immediatamente dopo dalla enigmatica An Orphan of Fortune, è qualcosa che si apprezza sempre più con il passare degli ascolti, ma inizialmente lascia spaesati.
Questo MGMT è un gran album, oltre che una prova di forza del duo di Brooklyn. Dimostra una profonda vocazione alle proprie convinzioni musicali e si lascia indietro la facile fruibilità di alcuni pezzi del passato.
Un ulteriore passo sulla strada, originale e immediatamente riconoscibile, intrapresa dalla band quasi una decina di anni fa. Pregi e difetti del gruppo in questo lavoro si accentuano ulteriormente. La qualità dei testi è ottima e le invenzioni musicali proposte dal duo lasciano a bocca aperta.
Permane una tendenza all’autocompiacersi della propria abilità nel creare. Un qualcosa di profondamente connaturato nella band di Brooklyn, ma che, al termine dell’album, non impedisce di sperare ci siano ancora un paio di tracce nascoste da qualche parte.
Columbia Records, 2013