Raro, quanto sbagliato. Automat è ciò che di più dirompente c’è sulla scena grunge da un po’. E lo è senza odore di muffa o sentore di già visto nonostante di nuovo, quest’ultimo lavoro del trio canadese Metz, abbia ben poco. È un viaggio familiare tra “lati B”, inediti e singoli sparsi, almeno sulla carta con titoli riconoscibili e alternative track. Ma che nelle note si disintegra in un omogeneo e immotivato caos. Prima di premere “play”, infatti, è necessario raccogliere tutto ciò che si sa di musica, di armonie e melodie, di flow e di scalette, metterlo insieme e gettarselo alle spalle. Solo così sarà possibile farsi trapassare dall’ascolto. Cadendo in un tunnel senza uscita nell’oscurità sonora dei propri pensieri, tra voci ridondanti e tempi asfissianti. Consapevoli che l’unica cosa sbagliata di un disco che suona assolutamente afono, è l’aver affidato la sua uscita alla leggerezza estiva.
Oscure e tenebrose come pochi oggi riescono, le dodici tracce trasformano la rabbia e il disagio in una sensazione così pura e viscerale che, per genuinità e inadeguatezza, non si viveva dai Nirvana di Bleach. Ma se con Automat hanno portato a casa il loro Incesticide, considerarli loro eredi sarebbe tanto un azzardo quanto una limitazione. Soprattutto perché appiattirebbe al passato un sound che ancora oggi è sintomo dell’attualità. Con la formazione a tre, le facce pulite e lo zampino della Sub Pop per nulla casuale, tantomeno inopportuno, dopo un paio di ascolti che strozzano il respiro nella gola dell’ansia, ti chiedi come sia possibile che a distanza di un quarto di secolo ci sia ancora bisogno di colorare il mondo con tutto questo nero. Reso ancora più inaspettato dalla cornice del ridente Canada. Ben lontana dai ponti grigi di Aberdeeen e dai germi reazionari della generazione X di Seattle.
Ma Automat riesce nell’obiettivo di esternalizzare quella Seattle interiore che ognuno ancora ha. È un compendio di 11 anni di noise-rock, immortalati in tre dischi – Metz, II e Strange Peace – tutti prodotti dall’etichetta statunitense. Già dalle prime note con i tre “sette pollici” sembra di stare in un’acciaieria del suono, quella modalità industrial che richiama agli esordi rabbiosi della band, con Soft Whiteout. Un vortice ripetitivo e confuso che assume le sembianze di una estenuante invocazione, di ascolto, di comprensione e di aiuto. La batteria lontana e i riff stridenti interiorizzano il disordine, scandito da grida biascicanti. Una cantilena che continua in Lump suns, e anche qui di sole non ce n’è davvero traccia, offuscato da cori del frontman Alex Edkins che arrivano da dimensioni sconosciute.
Il tunnel continua oscuro nei primi anni della band, con Dry up che logora, e il duo Ripped on the Fence e Automat, tra sottobosco di Interpol e slapping incessante, direttamente dal post-punk del 2010. Sfiancante l’impeto si fa più recente con Can’t Understand, un brindisi alla pena ed Eraser, singolo del 2016. Per tornare nei meandri del suono con Wet Blanket – Demo e Negative space – 7 Inch Version rispettivamente settima e ultima traccia del lavoro di debutto. Due tracce alternative che sette anni dopo aprono una finestra su quel bivio che tutti prima o poi vorrebbero trovarsi di fronte: quello di dare un finale diverso alla storia, anche se solo nella testa.
Ed è lì nella testa che va in scena la paranoia che scandisce Automat. Sfibrante nelle prime tracce si fa ritmica nella seconda parte del disco, con il trio Dirty shirt, Leave me out e l’intensità punk di Pure Auto. Non c’è scelta: dal tunnel oscuro si esce solo al 43esimo minuto. Quando Eraser sfuma nel silenzio. Allora si può respirare, con quella sensazione attaccata sulla pelle che qualcosa cambierà e che il sole forse non tornerà a essere così brillante. Ma si sa, quando tutto si fa in pezzi e annega nella scomposizione della realtà, l’unica cosa da fare è tornare a premere “play”. Per ricadere nel vortice e dal fondo trovare la spinta per uscirne.