Non è semplice descrivere il tempo della reclusione, perché se c’era qualcosa che lo caratterizzava era una sensazione di non tempo. Vivevamo in un’attesa che non era nemmeno l’attesa di qualcosa di concreto. Aspettavamo. Ma in realtà aspettavamo che non succedesse niente, perché ogni cambiamento poteva essere peggio. Finché tutto fosse rimasto fermo, io potevo trattenermi nel non tempo della memoria.
Ci sono destini strani negli incontri, quelli tra i lettori e gli autori che ne incrociano, improvvisi, il cammino, e quelli tra gli stessi autori e le storie che un giorno bussano alla loro porta. La storia dietro Melma Rosa – Edizioni Sur, traduzione di Massimiliano Bonatto – dell’uruguayana Fernanda Trías è una di quelle. Nel dicembre del 2019 la scrittrice, nata a Montevideo il 12 ottobre del 1976 ma ormai da sei anni residente a Bogotà, consegna al suo editore il romanzo Mugre Rosa. Di lì a poco esplode in tutto il mondo la pandemia da Covid-19.
L’inizio non è mai l’inizio. Ciò che confondiamo con l’inizio è solo il momento in cui ci accorgiamo che qualcosa è cambiato.
In Melma Rosa una città portuale – nella quale non è naturalmente difficile intravedere la stessa Montevideo – è improvvisamente investita da un vento rosso pestilenziale. Una mattina la spiaggia è ricoperta da pesci morti – “argentati, sembravano un tappeto di frammenti di vetro o tappi di bottiglia. Brillavano mandando bagliori che ferivano gli occhi” – il mare è attaccato da alghe mefitiche e la vita di un’intera città cambia. Mugre Rosa nasce come romanzo distopico e tale doveva restare nelle intenzioni dell’autrice. L’incredibile coincidenza con la pandemia da Covid – tradotta soprattutto in alcuni passaggi tutt’altro che scontati – è stata un’arma a doppio taglio: se certamente il racconto di un’esperienza improvvisamente condivisa ha consentito una maggiore diffusione del romanzo – anche con la possibilità di raccontarlo nei termini di un’incredibile premonizione – dall’altro la natura straniante dell’ambientazione, il mondo eccentrico costruito intorno agli eventi narrati, ha inevitabilmente perso la sua esclusività per sciogliersi dentro un dramma diventato, d’un tratto, comune con il rischio di lasciare in secondo piano la natura più profonda dell’opera.
Una volta mia madre mi disse che Max non mi aveva dato nulla, tranne la continuità di una perdita. In parte aveva ragione, ma l’assenza non era niente, e a volte poteva essere tanto. L’assenza era abbastanza solida da potercisi aggrappare, e su quel sedimento era perfino possibile costruire una vita.
Melma Rosa è, invece – e per fortuna – molto di più di una distopia che si è avverata. La pestilenza che aggredisce la città portuale è la cornice di una storia intensa e intima, declinata attraverso la protagonista – e voce narrante: una donna, ancora giovane che si aggira, superstite, nelle strade della città. Una donna spezzata, divisa tra letargia e tenacia, con alle spalle un matrimonio finito con Max, amico d’infanzia e grande amore della sua vita, un rapporto complesso e controverso con la madre e un presente in cui si prende cura di un ragazzino afflitto da una strana sindrome che lo intrappola in una fame perenne e ossessiva destinata a condurlo verso atteggiamenti pericolosi e parossistici.
Mentre tutto intorno a lei cambia e si fa ogni istante più pericoloso, la protagonista vive all’interno di una sospensione temporale che diventa lo specchio riflesso dell’orrore dell’isolamento pandemico, richiamando in tutti noi la sofferenza dietro ogni separazione nella primavera del 2020 e di una vita che, senza alcun preavviso, vedeva messe in discussione non solo le libertà più elementari, ma che costringeva l’umanità tutta a un modo di comunicare che sottraeva a ogni relazione il principio fondante del contatto.
E cosa andresti a cercare lì? / La stessa cosa che cerchi tu. / Ti fa arrabbiare che quel passato che ami tanto non mi interessi più. / Quindi tu non ci torneresti? / A fare che? / Io ci torno di continuo. / Con la mente vuoi dire? / Qualcosa del genere. / La mente è un luogo pericoloso.
Al centro di Melma Rosa c’è il rapporto con la memoria “un vaso rotto: mille cocci e schegge di argilla. Quali parti di te rimangono intatte?”. La peste rossa, con la sua sospensione del tempo, offre alla protagonista la possibilità di cercare un varco, una strada da aprire dentro sé per – se non risolvere il rapporto coi propri demoni – almeno trovare quella spinta a prendere una decisione che l’attende da tempo. Max è in ospedale, nel reparto dei malati cronici, sua madre è una donna colta, dura ma presente che non le lascia tregua alcuna nel ricordarle i suoi errori, il ragazzino Mauro è una presenza muta e ingombrante che in fondo le permette di disinteressarsi da se stessa per dedicarsi a qualcun altro.
Quello che ne viene fuori è un ritratto umano – e certamente femminile – di grande potenza ma soprattutto ricco di sfumature, di non detti, di un monologo interiore che la protagonista ha con se stessa che si traduce in un dialogo costante con il lettore, quasi costretto a leggere i pensieri della voce narrante attraverso il filtro della propria sensibilità, della propria esperienza di donna o di uomo.
Io a te chiedevo poco. / Però volevi tutto. / Io ti chiedevo poco. / Però mi proibivi di pretendere qualcosa in cambio.
Sorprende, Melma Rosa, per la maturità dell’analisi psicologica, per la capacità di costruire una struttura narrativa complessa partendo da una sola voce, ancora di più per la scrittura che è tanto visionaria quanto precisa, luminosa e potente. Ad accompagnarci nelle pagine sono le parole e pensieri che fanno male perché inchiodano alla fragilità della natura umana e, nello stesso tempo, sollevano perché diventano lo specchio di una condizione comune.
Adesso sentivo la stanchezza come una specie di ascesso, un dolore incapsulato e gonfio di pus che avrebbe trovato sollievo soltanto con un taglio. Non c’era spazio per nient’altro. Non avevo un piano alternativo e una parte di me immaginava che la nuova vita sarebbe stata così. Perché no? Assediati dalle alghe, sprofondati in una palude di nebbia.
In Melma Rosa Fernanda Trías mette in scena la vita di una donna nel momento in cui tutto si sta spezzando, in una coincidenza perfetta tra lo stato d’animo della protagonista e la peste che distrugge lo spazio che l’ha vista muoversi fin da bambina: i luoghi dell’infanzia, i ricordi d’amore con Max, la casa della madre. Ogni cosa è rivestita della stessa patina di morte che ricopre la città. Uno sturm und drang che trasforma Montevideo in un corpo vivo – “un fiore terrificante, un bocciolo che si apriva alla violenza e la accoglieva con piacere, con godimento”. Una metamorfosi quasi horror, creata grazie a una scrittura incredibilmente ferma e visionaria a un tempo, capace di evocare attraverso ogni parola le emozioni della protagonista.
Niente ti appartiene finché qualcun altro non lo perde o lo abbandona. Lo capii allora, ma non a parole, come lo sto mettendo adesso, bensì in un modo molto più disordinato e furioso. Esatto: furioso, la stessa furia con cui immagino un gracile germoglio rompere la scorza del seme e farsi largo tra radici e strati di terra dura.
Melma Rosa – dietro la distopia – è un romanzo sulle relazioni umane, in particolare su quelle nello spazio domestico. Come la stessa autrice racconta in un’intervista a Lina Vargas di Gatopardo: «Mi interessano i conflitti delle relazioni affettive, e la famiglia è il laboratorio perfetto per esplorarli. Perché è nella sfera domestica, che dovrebbe rappresentare lo spazio sicuro dell’amore, che accadono le cose peggiori: violenza, maltrattamenti, ogni tipo di crudeltà e ciò che è interessante è che i due piani si mescolano. La violenza che incontriamo fuori può essere crudele ma è priva di equivoci, non è consensuale, è evidente mentre in casa si mescola alle altre emozioni che proviamo. Nelle famiglie c’è di tutto: l’invidia, la gelosia, le crudeltà sottili, l’aggressività passiva, tutto accade lì, intrecciandosi ai bisogni, al desiderio di essere amati, al bisogno di approvazione fino a che arriva la colpa e, insieme a lei, la vergogna».
Figlia di un medico, a tredici anni Fernanda si dedica a fare traduzioni per suo padre. Un bagaglio che ritorna qui in Melma Rosa – nella descrizione dell’ospedale dov’è ricoverato il suo Max, e nella sindrome di Prader-Will di cui soffre il bambino – e che s’intreccia a uno slancio poetico costante come accadeva già nel suo esordio letterario – il bellissimo La Azotea (Editorial Tránsito) – sul disturbo mentale di Clara e la ridda di voci da cui emergeva un mondo che stava affondando, come specchio della distruzione di un universo tutto familiare.
Perché sei voluto diventare un santo? / Perché no? / Perché hai voluto mordermi? / Perché te lo lasciavi fare.
“El mundo es esta casa” diceva Clara; il mondo devastato dalla peste rossa di Mugre Rosa è ancora la casa della sua protagonista. Attraverso le pagine di carta è possibile osservare una città e una donna che quasi si deformano sotto il loro stesso peso, come un quadro di Bacon in cui la peste rossa ha ormai mescolato linee e colori, una quarta parete che viene infranta grazie alla forza evocativa delle parole. È così che metaforicamente la pandemia che colpisce la città sembra quasi il riflesso onirico o la trasfigurazione di uno sguardo di estrema sensibilità.
L’infanzia, le estati a San Felipe, le corse in bicicletta e Delfa la cameriera di casa, un tempo in cui “volevamo accelerare il tempo, diventare adulti, perché ci sembrava che la vita vera fosse lì, mentre quella che stavamo vivendo era solo un esercizio di preparazione” rappresentano – tutti – ricordi violenti, perché irrecuperabili, mentre dentro il “tempo poroso” della peste, nella “sovrapposizione di vetri appannati” di una nebbia che avvolge tutto, la linea retta della sua vita – quella di una donna che anelava a nulla più che alla “prevedibilità delle cose” – s’ingarbuglia: “sento che il tratto mi sfugge, e il disegno diventa una corda che io stessa mi lego intorno al collo. Il passato, il presente e il futuro, tutto è impastato nella macchina trituratrice della memoria.”
Melma Rosa è un romanzo sul crescere, sul significato più profondo di diventare adulti, sul recupero della memoria come sola strada possibile per riconoscersi, sulla comprensione dei legami, dell’amore e dei suoi fallimenti come sola opportunità di dare senso al dolore. È una voce necessaria dentro gli anni più assurdi della nostra vita, dentro quel “presente precario e traballante che avevo avuto fino a qualche ora prima [e che] era già finito”.
Oggi posso dire che quello fu un inizio, ma allora credevo si trattasse di un finale […] Il problema è che gli inizi e i finali si sovrappongono, tu credi che qualcosa stia finendo e invece è qualcos’altro che comincia.