Si scrive per paura? Per coraggio? Per sentirsi vivi? Per allontanare l’idea della morte? Per credere in noi stessi? Per gioco? Per serietà? Forse perché la vita non basta. Credo che si scriva per questo e altre mille ragioni ancora. Forse, chi scrive, anche per tentare di capire meglio, vuole tentare di conoscere.
Antonio Tabucchi non nasce come autore in proprio, ma come traduttore di lingua e letteratura portoghese durante l’esperienza universitaria. La scoperta della letteratura portoghese e, in particolare delle opere di Pessoa, scrittore fino a quel momento sconosciuto ai più, nasce comprando un suo libro ad una bancarella di Parigi, poco prima di tornare in Italia per finire gli studi. Ed è su questo incontro fortuito, come vuole il caso, che attecchisce nel giovane pisano quella concezione di romanzo che devia dall’accezione convenzionale. Pessoa ha creato dei personaggi, con copioni e voci differenti, che a loro volta fanno poesia. Ha creato una commedia umana senza il palco. E’ questa doppia capriola che rende la sua opera di altissima qualità estetica. Un’opera che ha cambiato radicalmente il punto di vista della poetica. Negli eteronimi e nei personaggi isterici di Pessoa, Tabucchi scopre che la verità non è mai una, che la verità è sempre incerta, che il dubbio è salutare e che la realtà va vista alla rovescia. E tradurlo è una maniera di entrare nel tessuto linguistico, di capire gli anfratti più nascosti della creazione letteraria. In un’intervista, Tabucchi afferma che:
per fare una traduzione ci vogliono due cose che paradossalmente non possono stare insieme: ci vuole arroganza e umiltà. Si impara molto, è un bell’esercizio.
Ed è anche una forma di scrittura, perché tradurre vuol dire anche scrivere. Lo scrittore Tabucchi compie i suoi primi passi col romanzo storico e con la coscienza letteraria di chi, partendo dalla premessa secondo cui tutto è già stato scritto, si occupa e preoccupa di rivedere, rifare, scoprire i punti di vista, gli equivoci senza alcuna apparente importanza e di mettere in luce il relativo che diviene determinante, il particolare che stravolge l’universale. La sua carriera di romanziere nasce con la prima pubblicazione fortemente voluta dall’amico Filippini di un suo dattiloscritto del 1975, Piazze d’Italia: la storia dei villaggi toscani di fine ‘800, la storia di una famiglia, di luoghi mazziniani, garibaldini, anarchici e socialisti. E’ un’antistoria italiana, un grandangolo nella cui inquadratura è immortalato il range storico dall’impresa dei mille ai massacri dell’invasione nazista. In questo quadro non sono riportati tutti gli episodi globali, ma sono i racconti brevi, tagliati e montati come nell’arte cinematografica, a comporre il discorso storico. Il narratore è il popolo, un popolo in cui tutti si chiamano Garibaldi, un po’ come in Cent’anni di solitudine, ma in questo caso invece della solitudine sono cent’anni di partecipazione.
Altro tema caro a Tabucchi è il viaggio, mai slegato dall’impalcatura storica e fuso insieme alla conoscenza del mondo portoghese. Un amalgama da cui prendono vita racconti sempre visti di sbieco, o al rovescio. In tale contesto si inserisce il racconto Donna di Porto Pim, 1983, libro che prende vita da un curioso viaggio nell’arcipelago delle Azzorre. Tale visita nasce dalla lettura di una cronaca cinquecentesca di un prete portoghese che descrive il posto come “luogo di vento, fuoco e solitudine”. Al tempo del viaggio di Tabucchi, l’arcipelago è piuttosto selvatico e arcaico e la caccia alla balena caratterizza la vita della sua gente. Tabucchi lo definisce un luogo di naufragi e di naufragi esistenziali. Naufragi perché queste isole erano state, dopo la scoperta dei portoghesi e il loro stanziamento, la tomba di scrittori del primo socialismo utopistico. Naufragi esistenziali perché l’arcipelago rappresenta quel luogo fisico così distante dall’immaginario comune cui si è abituati, quell’ignoto che offre un’altra verità, o almeno il dubbio che il pensiero vigente non sia esattamente così. Ed è in questo ignoto che il surreale fermenta e rovescia ancora una volta la lente del narratore, portandola sul piano dell’immaginario. Tabucchi tocca il clou del surrealismo quando si chiede quale sia la visione del mondo umano attraverso gli occhi e la voce di una balena:
Sempre così affannati, e con lunghi arti che spesso agitano. E come sono poco rotondi, senza la maestosità delle forme compiute e sufficienti, ma con una piccola testa mobile nella quale pare si concentri tutta la loro strana vita. Arrivano scivolando sul mare ma non nuotando, quasi fossero uccelli, e danno la morte con fragilità e graziosa ferocia. Stanno a lungo in silenzio, ma poi tra loro gridano con furia improvvisa, con un groviglio di suoni che quasi non varia e ai quali manca la perfezione dei nostri suoni essenziali: richiamo, amore, pianto di lutto. E come dev’essere penoso il loro amarsi: e ispido, quasi brusco, immediato, senza una soffice coltre di grasso, favorito dalla loro natura filiforme che non prevede l’eroica difficoltà dell’unione né i magnifici e teneri sforzi per conseguirla. Non amano l’acqua, e la temono, e non si capisce perché la frequentino. Anche loro vanno a branchi ma non portano femmine, e si indovina che esse stanno altrove, ma sono sempre invisibili. A volte cantano, ma solo per sé, e il loro canto non è un richiamo ma una forma di struggente lamento. Si stancano presto e quando cala la sera si distendono sulle piccole isole che li conducono e forse si addormentano o guardano la luna. Scivolano via in silenzio e si capisce che sono tristi.
perché quella che viene chiamata la norma, o il nostro essere, o la normalità, è solo un risultato, non una premessa, e dipende dal controllo di un io egemone che si è imposto sulla confederazione delle nostre anime; nel caso che sorga un altro io, più forte e più potente, codesto io spodesta l’io egemone e ne prende il posto, passando a dirigere la coorte delle anime, meglio la confederazione, e la preminenza si mantiene fino a quando non viene spodestato a sua volta da un altro io egemone, per un attacco diretto o per una paziente erosione.
La brutale uccisione di Rossi operata dalla polizia salazarista e che si consuma proprio nella dimora di Pereira da cui Monteiro si era rifugiato per timore di persecuzioni, è il motore della trasformazione del protagonista. La sua vecchia confederazione delle anime si disfa e un altro io egemone prende il potere, un io fino a quel momento tenuto sopito, a forza o per inerzia. Pereira dunque decide di pubblicare, con una mossa ingegnosa, un articolo in prima pagina sulla cruenta morte del giovane. La scena finale mostra nel film un Mastroianni che si affretta ad abbandonare il paese, sfumando tra la folla chiassosa delle strade lisbonesi. Sostiene Pereira, oltre che il titolo dell’opera, è anche l’inizio di ogni capitolo, per venticinque capitoli. Tale incipit, come un mantra, è l’espediente letterario attraverso cui l’autore giunge a dire che il romanzo altro non è che il verbale di un processo, un processo alla storia ma anche un processo alla letteratura che vuole sfuggirle.
Di tutto resta un poco. Resta un poco dei racconti vissuti e di quelli di cui si ha notizia, dei viaggi reali, dei viaggi della mente. Resta un poco del tempo, per quanto ci sfugga. Resta un poco delle illusioni e dei sogni. Resta un poco delle lettere di Garibaldi alla fidanzata dal fronte, resta un poco dei balenieri, della balena parlante, resta un poco del desaparecido in India, resta un poco dell’odore delle omelette alle erbe di Pereira, delle ragioni del cuore di Monteiro Rossi, resta un poco della nostalgia di Bucarest a Tel Aviv, resta un poco della mappa astrologica tra le nuvole. Rimane sempre un poco di tutto. E la letteratura è la coscienza che la vita da sola non basta.