Mac DeMarco ha messo la testa a posto e ha finalmente deciso di crescere, di diventare un uomo: questo il mantra che ha accolto This Old Dog, il suo ultimo album, uscito lo scorso 5 maggio. Riferimenti alla famiglia, un po’ di malinconia e chitarra acustica, meno odi alle sigarette Viceroy: è bastato questo per arrivare a parlare di “disco della maturità”. A giudicare dalla sua esibizione alla Brixton Academy di Londra, però, un delirio di due ore intervallato da aneddoti sulla digestione di Chicken Nuggets, nonché dall’età dei fan che hanno riempito per due sere la venue, con i genitori impazienti che li attendevano in macchina, col motore acceso, al termine del concerto, la tanto sbandierata maturità non sembra essere (fortunatamente?) arrivata, né per Mac, né per il suo pubblico.
Ad accogliere lui, la sua band e la sua famiglia allargata, che si accomoda su un tavolo a bordo palco dove rimarrà per l’intera serata, il tema del Padrino. Poi parte Salad Days, title track del disco che è la rappresentazione più compiuta del sound del canadese: le chitarre piene di riverbero, la batteria sempre in leggero ritardo, un po’ volutamente, un po’ perché è Mac stesso a suonare, con più o meno successo, tutti gli strumenti. Se il mix nella Brixton Academy fatica inizialmente a trovare un equilibrio, la risposta del pubblico è impressionante. Tutti cantano, ballano e c’è la sensazione, sempre più rara, di sentirsi parte di un qualcosa di più grande, o anzi, mi correggo, di più piccolo, di una gang di amici che si ritrova a ballare insieme dopo un paio di birre.Il fatto è ancora più significativo considerando che quelli di Mac DeMarco non sono inni generazionali o coinvolgenti cavalcate rock, ma ballate midtempo senza pretese che, nel migliore dei casi, parlano del suo rapporto con la ragazza, la famiglia e gli amici.
Sta di fatto che, senza addentrarsi nella sociologia spicciola, questo disimpegno un po’ infantile sembra colpire un nervo scoperto nell’individualismo dei ventenni, facendo breccia nella loro apatia da social e spingendoli quantomeno ad uscire di casa, un po’ come è successo con Calcutta da noi in Italia. A voi la scelta se leggere questa aggregazione fondata sul cazzeggio come l’ennesimo passo verso la morte cerebrale della civiltà o un piccolo barlume di speranza, se guardare il bicchiere mezzo vuoto della mancanza di contenuti o quello mezzo pieno del passare del tempo insieme, senza cellulare.
Tornando alla musica, i pezzi del nuovo album di Mac DeMarco, sopratttutto dal vivo, testimoniano un’evoluzione nel suo stile, che si è tinto di sintetizzatori anni ’80 arraffati alla Vaporwave (For the First Time) e di psichedelia à la Tame Impala (On the Level), con tempi ancora più dilatati e trippy. Il risultato è che il concerto diventa un alternarsi di pezzi funky e leggeri, molto simili tra loro, tratti dai primi quattro album del canadese – su tutte, una bella versione di Cooking Up Something Good – con quelli che sembrano tentativi di discostarsi da un marchio di fabbrica, e che provengono tutti dal nuovo album.
Così One More Love Song ricorda da vicino il primo Prince, che Mac stesso ha reinterpretato alla sua maniera, mentre My Old Man acquista un sapore tropical, con basso e piano a farla da padrone. Quest’ultima canzone, forse il simbolo della tanto decantata maturazione nei testi di Mac (“There’s a price tag hanging off of having all that fun”), diventa dal vivo una sorta di autoparodia, cantata con un sarcasmo così caricaturale da sembrare una maschera, a coprire l’imbarazzo di trovarsi a parlare di qualcosa di più profondo delle proprie sigarette preferite.
Dopo Rock and Roll Night Club e Chamber of Reflection, la serata si conclude con una Still Togehter infinita, durante la quale accade di tutto. In ordine sparso: lo stagediving dell’intero opening act, i musicisti che abbandonano gli strumenti nel mezzo della canzone, lo zio e il cugino teenager che salgono imbarazzati sul palco e si mettono a cantare, Mac che prima si prende a microfonate e poi inizia a versarsi birra addosso, ragazzini che salgono in piedi sugli amplificatori, The Ocean dei Led Zeppelin e A Thousand Miles di Vanessa Carlton, insomma una jam delirante e approssimativa che avrebbe fatto inorridire i fan dei Phish, ma che il pubblico londinese sembra apprezzare.
La sensazione è che questa totale anarchia sul palcoscenico autorizzi chi ascolta a fare altrettanto, e infatti qualcuno si allontana per una birra, qualcun altro controlla il cellulare o fa due chiacchiere con il vicino, in una versione postmoderna dei concerti dei Grateful Dead, dove la soglia dell’attenzione era però abbassata da ben altre distrazioni. Ancora una volta, a voi la scelta: il bicchiere mezzo pieno della rilassatezza hippie in salsa digitale, o quello mezzo vuoto del disinteresse strisciante?