Storia di una piccola pace

a cura di Valeria Gargiullo

I venti di guerra che soffiano dall’est Europa destano preoccupazione in tutto il mondo, e noi, spettatori inermi, assistiamo ai cicli che si rimettono in moto sotto i nostri occhi. Non bastano i libri di storia, le esperienze dei nostri nonni. Qualcosa si è mosso di nuovo, e fa paura. Mai come negli ultimi ottant’anni sentiamo così intensamente un desiderio universale di pace. Forse è per questo che l’ultimo romanzo di Mattia Signorini, Una piccola pace (Feltrinelli, 2022) uscito il 18 ottobre è il meriggio di cui abbiamo bisogno adesso, l’abbraccio di una storia che possa confortarci, un posto sicuro nei momenti di aporia. Un romanzo che è in grado anche di scuoterci, mettere in discussione i fatti, porre l’accento sugli scenari futuri. Ci insegna a non abbassare la guardia, stare in allerta, allenare lo sguardo sulle cose. La contemporaneità di questo libro è sbalorditiva.

Mattia Signorini, classe 1980, è un autore amatissimo: ricordiamo La sinfonia del tempo breve (Salani, 2009, Premio Tropea), Ora (Marsilio, 2013, finalista al Premio Stresa), Le fragili attese (Marsilio, 2015), Stelle minori (Feltrinelli, 2019), tradotto all’estero, è direttore artistico del festival letterario di Rovigoracconta e il fondatore della scuola di scrittura Palomar. Con questo ultimo romanzo è stato capace di riportare un episodio nascosto tra le pagine di storia e di restituircelo con grande talento e delicatezza: la Tregua di Natale del 1914 che sbocciò in alcune zone del fronte occidentale. I membri delle truppe tedesche e britanniche schierate sui lati opposti si scambiarono auguri e doni, e lasciarono le trincee per incontrarsi nella terra di nessuno per un cessate al fuoco non previsto, ma tanto agognato.

Soldati durante la Tregua di Natale

La trama si sviluppa in due tempi diversi: a narrare la storia del fuciliere William Turner è un ex soldato tedesco che, assieme al figlio, si è messo in viaggio verso le Fiandre nel 1933, poco dopo l’ascesa di Hitler al potere. Il cammino di padre e figlio intervalla l’esperienza di William Turner al fronte nel 1914, e alla sua ricerca di pace. Turner è convinto, infatti, di arruolarsi per salvare più vite possibili, la sua è una promessa che ha fatto alla defunta madre. Assieme a tutti gli altri giovani volontari, cede all’illusione che la guerra possa esaurirsi entro Natale: presto fa esperienza del fronte e di ciò che vuole dire prendere in mano un fucile, sparare per uccidere un altro essere umano.

“Li hai visti i tedeschi? In faccia, dico”, chiese William Turner.
“Molti di noi sono caduti per il fuoco delle mitragliatrici, ma molti altri si sono avvicinati alla linea nemica. Io sono uno di quelli. I tedeschi sono saltati fuori a decine, correvano veloci come animali inferociti. Li ho visti, sì, ma non ti saprei dire che faccia avesse uno solo di loro. Quando ti trovi davanti un soldato nemico devi tenere a mente una sola cosa: è la sua vita o la tua”.

La guerra è diversa da come viene raccontata dai giornali o promessa dagli ufficiali: servire il proprio paese vuol dire accogliere l’eventualità della morte, si diventa presto carne che occupa uno spazio ristretto nella trincea e le facce nemiche si confondono, il corpo si spezzetta: ora si è collo, poi torace, dopo testa o gamba, concedere l’integrità a un uomo vuol dire accettarne l’identità, fare i conti con i nomi, il futuro che si prende con una pallottola. La paura gioca alle sue regole, che spesso tradisce: le immagini che ci dipinge Mattia Signorini sono limpide e corrusche, si è catapultati direttamente nel campo di battaglia assieme a William Turner, Martin e tutti gli altri, si corre con in braccio il fucile e si affonda nel fango, il terrore che aumenta a ogni sparo o esplosione. Con stile icastico ma accurato, ha descritto la brutalità del primo conflitto mondiale, mettendo al centro di tutto il dramma familiare: la ricerca di una pace che non è solo collettiva, ma soprattutto personale.

“Se suo padre fosse stato una stagione, sarebbe stato proprio l’inverno. William avrebbe voluto fare qualcosa, qualsiasi cosa, per riscaldare quel cuore ghiacciato, ma sapeva che il padre attribuiva a lui la ragione di quel gelo. Lo faceva ogni giorno, attraverso i suoi silenzi e nel modo che usava di non guardarlo più negli occhi, se non di sfuggita. Se avesse continuato a stare in quella bottega anche lui, un po’ alla volta, si sarebbe raffreddato del tutto.”

William Turner si è arruolato per onorare la promessa fatta a sua madre, ma anche per allontanarsi dal padre e dai sensi di colpa che lo perseguitano da sempre. Per lui partire vuol dire dare pace, forse, ai tormenti che gli attanagliano lo stomaco, l’unica cosa che auspica è espiarsi, fare qualcosa di buono. Con sé ha una macchina fotografica, scatta immagini per ricordare tutto, in particolare i volti dei suoi compagni, perché la memoria è labile, fumosa. La guerra intanto deflagra impervia, la fine decantata entro Natale è una mera illusione, nel suo soggiorno al fronte incontra personaggi eccezionali, Martin, un uomo che ha preferito il conflitto alla solitudine; un professore di latino, greco e inglese antico che mentre spara per uccidere si estranea e si vede seduto su una panchina con un libro sulle gambe; a scuotere le coscienze compare il cappellano Adams con la sua sfiducia in Dio e l’alcol a mediare il dialogo con l’altissimo.

La natura è immobile, impassibilmente crudele, spettatrice eterea con i suoi venti freddi e la pioggia ostinata che cade sulle spalle e appesantisce i giacconi. A dare corpo alla natura è il topo Julius, che fa compagnia a William nelle tombe di terra e fango, assiste allo sfacelo umano con lo stesso piglio noncurante degli animali in Dissipatio H.G. di Guido Morselli: il loro sguardo pesa, come pesano le zampette rosa del topo Julius che acchiappano briciole di cibo.

“Sbriciolò la galletta sul materasso e si addormentò guardando il topo Julius che si portava con le zampette i pezzi alla bocca, ingurgitandoli avidamente, incurante della presenza degli uomini”.

E mentre dentro la tempesta gioca assieme alla paura viscerale, ecco che il bisogno di pace è sublimato dall’incontro con la ragazza con il Mare del Nord negli occhi, l’incarnazione della speranza che vaga per la foresta di Ploegsteert. La ragazza non parla la stessa lingua di William Turner, eppure entrambi si comprendono a gesti, lui si riappropria della gentilezza che quel luogo di morte gli ha sottratto. Con lei, William si ritrova come essere umano. Negli occhi della ragazza scova la pace e la serenità, quel blu è il suo futuro, è la sua madeleine: gli ricorda casa e il padre al di là del mare del Nord. Ma l’edenica ragazza è qualcosa di più: assume il ruolo di chiave per far raggiungere a William Turner quella piccola pace.

“Nel buio le percepiva lo sguardo – faceva rumore, come le onde – ma non riusciva più a decifrare il colore dei suoi occhi.
Dopotutto anche il mare, di notte, non si vede.”

Questa ragazza smagrita – perché la guerra, proprio come sostiene William, le persone le diminuisce – con il volto sporco e la sete che le brucia la gola, è l’intercessione con cui Turner sente ancora di più il desiderio di deporre le armi e affidarsi alla solidarietà tra esseri umani, è il motivo di incontro con l’altro, il nemico.

“Quello che stiamo facendo qui… uccidere o essere uccisi… Ma che senso ha, Martin? Non so cosa mi sia saltato in mente quando sono partito. Dovremmo mettere giù le armi, come ha detto il giovane professore. Se lo facessero tutti, allora sì che la guerra finirebbe entro Natale”.

La Tregua di Natale del 1914 è stata, per molti ex soldati, motivo di vergogna, con la conseguente proibizione di episodi simili in futuro. Nonostante tutto, rappresenta ancora oggi la bellezza dell’animo umano. Quanto in realtà le persone, malgrado le bruttezze della vita, non si lascino corrompere e cerchino di porre rimedio alle cose, e nel caso di William Turner, di salvare qualcuno, anche solo una persona. Perché basta una timida fiamma iniziale per riscaldare i cuori di tutti, un canto sacro che si eleva dal buco di una trincea. Lo sa bene l’ex soldato tedesco a cui Mattia Signorini lascia narrare questa storia incantevole, in cui il suo viaggio nel 1933 è speculare a quello di William Turner nel 1914: entrambi cercano pace, entrambi cercano casa. Una piccola pace è un romanzo straordinario in cui le parti si lasciano scorrere, mantenendo sempre alto lo stile letterario; i personaggi respirano sulla pagina per regalare al lettore emozioni intense e colpi di scena. Bisogna soltanto affidarsi alla storia e farsi trasportare nelle Fiandre nel 1914, sentirete l’odore della terra bagnata e il ticchettio della pioggia che si riversa sulle tettoie dei dormitori, e chissà, se avrete fortuna incontrerete pure voi la ragazza con il Mare del Nord negli occhi.

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