È meno facile di quanto sembri riuscire a intercettare Matthew E. White dal vivo con la sua band: nella gran parte dei video che troverete su Youtube, come pure sua ultima apparizione italiana, a Torino, ormai due anni fa, lo vedrete spesso esibirsi da solo, chitarra e voce, o in duo. Che sia per motivi di budget, o per una deliberata scelta artistica, queste esibizioni finiscono sempre per lasciare un po’ l’amaro in bocca. Sì, perché a rendere i (due) dischi dell’artista statunitense memorabili, diciamola tutta, non sono né la sua voce, piuttosto monocorde, né l’originalità delle composizioni in sé: è tutta una questione di flow, di attenzione agli arrangiamenti e di alchimia in studio. Non a caso White ha lanciato la propria casa discografica/clan, Spacebomb, per produrre nuovi talenti (vedi Natalie Prass) ma, soprattutto, per plasmare il suono dei loro album filitrandolo tramite l’house band della label.
Se l’occasione di vedere White nel suo habitat naturale, circondato da musicisti che conosce come le proprie tasche, non fosse abbastanza, metteteci pure che per la prima londinese il suo nuovo album, Gentlewoman, Ruby Man, in duo con Flo Morrissey, abbia scelto un luogo come la Union Chapel, una chiesa congregazionaista(?) del 19esimo secolo nel bel mezzo di Islington, Londra.
I due, Morrisey e White, salgono sul palco, simmetrici di fronte ai microfoni, moderni Hazelwood&Sinatra, e la band attacca una versione back-to-back del classico di Roy Ayers, Everybody loves sunshine. L’atmosfera è quella degli album di White, con un suono ben delineato ma, al tempo stesso, indeciso, sempre un passo indietro rispetto al groove più terreno. Segue Heaven can wait, tratto dal sottovalutato IRM di Charlotte Gainsbourg, estesa con una lunga coda strumentale, dove il Fender Rhodes la fa da padrone, con piccoli, strategici contrappunti. Nessuno si lancia in assoli mozzafiato, nessuno cerca di svettare sugli altri, persino la voce da gattone di Matthew White si nasconde tra gli strumenti. L’impressione è quella di assistere ad uno strano cortocircuito storico, come se si facessero reinterpretare i pezzi di D’Angelo agli artigiani del suono degli anni 70, i turnisti dei Muscle Shoals Studios di Sheffield, Alabama, con Duane Allman a rimpiazzare Questlove e i Soulquarians.
Valorizzata, si diceva, dalla qualità della band, Flo Morrissey si prende il centro della scena con un uno-due che rappresenta al tempo stesso l’apice della serata e una sorta di summa del Matthew White pensiero. Vedere un pezzo di Nino Ferrer (Looking For You) datato 1974 amalgamarsi in una maniera così perfetta con uno, uscito lo scorso anno, di James Blake (The Color in Anything) ha qualcosa di illuminante. Se del primo la band amplifica la vena Morriconiana, nel secondo brano la voce di Morrissey, malinconica e cristallina, porta la malinconia dell’originale ad un nuovo livello, ed è tutto dire.
In questi due brani risiede quella che è allo stesso tempo la grandezza ed il più grande limite di Matthew E. White: far sembrare brani scritti a distanza di quarant’anni l’uno dell’altro come se fossero il frutto della stessa mente, di persone cresciute nella stessa epoca, con la stesse priorità, quotidianità e preoccupazioni. Da un lato, questo porge il fianco ai critici, a chi (non a torto) accusa i progetti di White di essere l’ennesima manifestazione di Retromania dei nostri tempi, di non aggiungere nulla all’evoluzione musicale dell’umanità. Che senso ha mettersi a ricantare Grease al giorno d’oggi, alla fine? Il rischio è quello di finire come Gus Van Sant, in bilico tra genialità e nonsense nel rigirare, scena per scena, il suo(?) Psycho. D’altra parte, però, la musica di White, ed in particolare questo disco di cover, ci ricorda, forse inconsciamente, di come, pur andando avanti ed evolvendosi, l’uomo sia sempre prigioniero della propria psiche. Ecco perché cercare conforto nella disperazione di James Blake o l’amore in Thinking Bout You di Frank Ocean non ci sembra così diverso dal farlo rifugiandoci in Nick Drake o in Stevie Wonder.
Abbandonando le questioni metafisiche e tornando all’amara realtà (ci troviamo nel 2017, se ve ne foste scordati), va detto che nella seconda metà il concerto perde un po’ di potenza, con due originali di Morrissey e White, rispettivamente, ed il finale affidato alla bella I Want to See The Bright Lights, scritta da una leggenda della chitarra un po’ dimenticata come Richard Thompson, a Suzanne (quella Suzanne), reinventata nell’arrangiamento, che non avrebbe faticato a trovare il proprio posto nel sound degli ultimi due dischi di Cohen ed, infine, ad una Sunday Morning (quella Sunday Morning) in versione Phil Spector, tutta coretti e chitarre twangy.
Dell’esibizione di Morrissey e White rimangono insomma due certezze: le potenzialità della prima, la cui voce e il cui carisma sul palcoscenico, nelle mani del giusto produttore, potrebbero trasformarla in una nuova Lana Del Rey, e tutta l’abilità di sound-maker del secondo. Che la sua musica sia innovativa o meno, il cantautore americano ha già trovato, nel giro di due album, la propria identità, come un J.J. Cale dei nostri giorni, e non appare intenzionato ad abbandonarla.