Matthew Dear – Bunny

Matthew Dear - Bunny

Matthew Dear potrebbe essere il leader di una setta. Pensateci. C’ha quel fare malizioso e birichino, ma sempre un po’ misterioso e annaffiato con il retrogusto di chi la sa lunga. Riassumendo il tutto in una parola sola: enigmatico. Il ciuffo un po’ così, la barba accuratamente né incolta né curata all’eccesso: un giovane Charles Manson ripulito per essere introdotto con successo nei salotti buoni dell’intellighenzia musicale in giro per il mondo.

E poi ha la voce perfetta per il ruolo, no? Cristo, quella voce. Ma sulla voce ci torneremo (e come evitarlo?) tra poco.

In ogni caso, indagando a fondo la cosa al di là di motivazione pseudo-lombrosiane, il sospetto nasce da una riflessione forse di natura vagamente complottista, ma obiettivamente tanto più semplice quanto spontanea e ragionevole: puoi davvero riuscire a partorire vent’anni di (perdonate il termine, ma questo è uno di quei casi in cui le parole non sono abbastanza) elettronica così storta e diabolica — che più il tempo passa e meno segni di invecchiamento dà — senza la garanzia di un patto firmato e controfirmato con il lato oscuro della forza? Non credo.

Ok, se Charles Manson vi pare troppo, diciamo Dorian Gray — che dà al discorso quell’aura di romanticismo decandente — così almeno possiamo tenere a bada l’invidia e consolarci immaginando che da qualche parte sia nascosta una foto che lo ritrae sempre più reumatico e anziano mentre suona qualcosa di sempre più scontato e banale.

Lui, a voler ben vedere, la mette giù in maniera molto disarmante: «I make music for people who like my music and that is something I’ve come to love about my career: I made it to the point where I really can do whatever I want». Ovvero una situazione così confortante che quasi ti scappa da ridere (o ti viene da piangere — dipende da quante volte rosichi e in quale punto del giro ti ritrovi quando smetti: come La Ruota della Fortuna, ma senza Iva Zanicchi e soprattutto senza premi alla fine). In pratica ci sta dicendo che ormai è arrivato a un livello superiore in cui può permettersi di trascendere il problema di piacere o meno alla gente, semplicemente perché scrive musica per la gente a cui piace la sua musica e che la cosa è degenerata nei confini estremi del culto, appunto, visto che passare le giornate sprofondato in quella poltrona super comoda in cui fare quello che vuoi magicamente coincide con quello che desiderano i tuoi fan ormai è un lusso che non può più permettersi nemmeno il Papa.

In realtà qui la strategia è più sottile si arriva dove si arriva non per caso: bisogna infatti dare al caro Dear (scusate, non ho resistito) quel che è di Cesare e cioè riconoscergli il merito di aver mischiato le acque così a lungo (approssimativamente per una carriera intera), con così tanto impeto e tale costanza da aver alla fine creato un vortice dalla cui corrente farsi trascinare senza paura — una specie di fondo pensione integrativo, ma esente da rischi dovuti all’inflazione — un circolo vizioso in cui fare il cazzo che ti pare diventa il modo migliore per occupare le tue giornate, innanzitutto perché porta ai tuoi neuroni benefici istantanei che poi, alla lunga, si trasformano in risultati che vanno dritti verso un output dolcemente inevitabile: sfornare dischi della madonna uno dietro l’altro. Dischi che qualcuno definisce fatti con lo stampino, che invece qualcun altro sostiene siano la naturale evoluzione di ognuno nel successivo, che qualcun altro ancora vede come completamente sconnessi e una certa nicchia di estremisti inaciditi valuta così discordi tra loro da risultare, alla fine, tutti uguali, almeno nell’ossessione intrinseca di essere forzatamente diversi.

Matthew Dear fondamentalmente se ne è sempre fregato: anzi, provocatoriamente, come un po’ a prendere tutti per il culo, si è auto-definito King Chameleon e — se si vuole essere obiettivi (non che sia strettamente necessario, ma a volte aiuta) ripassando velocemente i dati di fatto che puntellano come paletti la sua biografia — il soprannome gli calza a pennello. Il producer texano infatti — ma anche DJ, ma anche artista sonoro di confine, ma anche, quando capita, docente all’Università del Michigan, ma anche [aggiungete un job role di quelli mediamente creativi a caso] — ha passato una vita a nascondersi dietro svariati pseudonimi (Audion, Jabberjaw, False) e a rovistare in mezzo ai generi musicali con la stessa, (in)consapevole fiducia che ognuno di noi ha tutte le mattine mentre cerca di uscire da quell’increscioso impasse che lo vede assonnato ed ebete a fissare il cassetto aperto con tutti i calzini dentro. Solo che l’ha fatto con piglio decisamente più brillante e — cosa non proprio trascurabile — molto più successo.

Bunny è il quinto album su cui mette sul serio la faccia (leggi: il suo vero nome) e, se parliamo di capacità camaleontiche, fa di nuovo il suo sporco lavoro, andando a pescare in un eclettico range di stili vagamente associabili a una sommaria “era post-punk” (o quantomeno alla sua frangia più artistoide) e declinandoli dentro un recinto di rigidi beat sezionati con cura e rallentati con il consueto gusto. C’è un po’ di quel buon dub che suonato alla velocità originale ti spaccherebbe la testa, tracce di EBM nevrotico alla Nitzer Ebb, l’armonia concisa dei migliori Wire, la ballabilità animale del primo Pop Group: in pratica un audio-bignamino del libro di Simon Reynolds rivisto, corretto e raccontato con parole (suoni) proprie, da leggere (ascoltare) in un’oretta invece che in una vita.

Raccontato, soprattutto, con una voce — ancora una volta — inconsueta rispetto al solito, perché il bello (e forse il brutto, se siete di quelli che finiscono per affezionarsi a ogni minimo dettaglio di un cantato) è che Matthew Dear non l’ha mica ancora deciso, qual è la sua voce, e questo è il motivo per cui il suo rapporto con ciò che gli esce dalla bocca (per la precisione, con come le cose gli escono dalla bocca — anzi, con come le cose che gli escono dalla bocca arrivano agli orecchi di chi lo ascolta), dicevamo, merita un discorso a parte.

Qualcuno che non gli vuole particolarmente bene non ha usato mezzi termini: «sounds like a drunk college kid imitating Tom Waits». Definizione un po’ drastica ma che, bisogna ammettere, rende abbastanza l’idea (a patto di escludere alcuni momenti in cui sembra un ragazzino del liceo ubriaco che prova a imitare il David Bowie della Trilogia Berlinese). Se non ci avesse già stancato in partenza, saremmo capaci continuare con questo giochino all’infinito: potremmo dire che è un Peter Murphy indeciso occupato a imitare Leonard Cohen, o un Gary Newman sintetico reincarnato nel vocoder di Johnny Cash e così via. Il fatto è che il punto è proprio lì: Matthew Dear non è un cantante nel senso classico del termine (intendo una cosa che ha a che fare con il mestiere di cantare) e questo è esattamente l’elemento caratteristico che ha reso, negli anni, i suoi tentativi di dare una forma al baritono camuffato che si è trovato in dote così affascinanti.

Perché chi non ha la memoria corta certamente farà presto a risalire a quell’inizio di nuovo millennio in cui qualche critico musicale si inventò il termine micro-house e si ricorderà come, ai tempi, Dear altro non fosse che uno dei tanti che provava a imbastire curiose architetture soniche — a volte solide, a volte più tremolanti, sempre e comunque degne di attenzione — utilizzando classici campioni techno, senza nessuna intenzione di fare accomodare l’idea di mettercisi a cinguettare sopra nemmeno nell’anticamera del cervello. Quando, nel 2003, arrivò Dog Days, quei vocalizzi così pesantemente trattati in post-produzione probabilmente dovevano essere soltanto l’ennesimo ingrediente del mix, un ulteriore tassello del puzzle, un sample come un altro. Poi è andata che quel pezzo ha fatto il botto e la cosa, da semplice esperimento, è diventata un marchio di fabbrica, il nuovo stato dell’arte in materia, la freccia lampeggiante con cui superare il resto del gruppo da destra e rendere la micro-house deariana non più così micro. O forse ancora più micro. Senza ombra di dubbio, un’altra cosa.

Da allora il Nostro c’ha marciato sopra, reinventadosi ruvido crooner dal cuore nero — con risultati sorprendenti, va detto — e riuscendo in generale a fare cose sempre più espressive con una voce che, di per sé, così espressiva non era: trucchi semplici dietro cui rifugiarsi (sporcizie robotiche, glitch intelligibili, sovrapposizioni sincronizzate di toni gravi e falsetto) che in Bunny — per quanto sempre presenti, tenuti lì accanto come una simbolica coperta di Linus — sembrano lasciare intravedere (almeno in parte, comunque più di prima) quello che c’è dietro. È come se qui si sentisse forte la presenza di una ricerca meno imbarazzata della propria sonorità interiore, un’esplorazione meno timida della sua fisicità che porta alla scoperta di quanto sia intrinsecamente analogica, rivelandone (accentuandone, in certi passaggi) la grana e la carne, fin quasi a sputarne il catarro, dragarne il limo, trascinarla sul pavimento alla stregua del fardello più pesante da portare, al solo scopo di godere dell’attrito in quanto rumore campionabile. In altri termini, è come se, in questo processo, la sua voce diventasse in qualche modo più sua.

Funziona alla grande, soprattutto in mezzo al resto. Resto che sguazza come un maialino nella pozzanghera delle dicotomie a cui Matthew Dear ci ha abituati e a cui non rinuncerebbe per nulla al mondo. Perché è innegabile che nella sua musica siano sempre stati costantemente percepibili sia un vago elemento di sconcezza che una chiarissima giocosità quasi fanciullesca, che lui ogni volta ha liquidato con un sorriso a metà tra il ghigno da cattivo dei cartoni animati che si mette in faccia quando si presenta agli shooting fotografici e la risata fresca della bambina (sua figlia?) con cui scherza nella registrazione che chiude il disco e la conclusiva Before I Go, ma che mai ha avuto la tentazione di consentire si compensassero. Anzi — indossando la maschera di un mostro sexy che si avvicina strisciando sul dancefloor di un night club ma lasciandoti (volutamente) ogni volta il dubbio che dietro a quella altro non ci fosse che un nerd da studio perso nella paranioa di cercare la perfetta frazione di onda acustica — negli anni ha creato una confortevole distanza tra i due estremi e ci si è seduto in mezzo a fare la sua cosa, ovvero scomporre la musica contemporanea per rimontarla in slow-motion a uso e consumo dei passi incerti di moderni ballerini wannabe sovrappeso.

Deve per forza non stupire, allora, che il battito pulsante di Electricity sembri suggerire qualcosa che sta superbamente in bilico tra il furto, il plagio e l’omaggio al giro di basso di una Pump It Up di costelliana memoria e faccia pensare che anche l’Iggy Pop di fine anni ‘70 avrebbe potuto buttarsi seriamente sulla disco, così come la opening track Bunny’s Dream (impreziosita dalla chitarra di Greg Ahee dei Protomartyr) richiami invece in vita la fragile bellezza primordiale degli inizi dei Durutti Column, forse a causa di quel riff inquietante che va a mischiarsi con l’effervescenza del pattern di batteria elettronica, dando forma a una congiura melodica sospesa in un’atmosfera ipnotica, prontamente obliterata in battere dalla potenza controllata del subwoofer di cui avreste bisogno per apprezzarla a pieno. Sempre nell’ottica di calarsi perfettamente nell’attualità più spicciola, il featuring di Tegan And Sara arricchisce un paio di momenti più sbarazzini (Bad Ones, Horses) in cui la situazione sfocia (senza particolari rischi di rimanerci impantanata) in uno scombussolato concetto di delizioso pop sbilenco, mentre What You Don’t Know sfrutta l’aiuto dei Simian Mobile Disco per andare a vedere cosa tirerebbero fuori i Talking Heads di Houses In Motion se decidessero di darsi alla minimal.

D’altra parte, se hai avuto un’adolescenza senza Instagram, quando pensi ai coniglietti (o alle conigliette) le cose che ti saltano subito alla mente sono due: l’Alice di Lewis Carrol e una qualche altra Alice che a un certo punto dei tuoi anni migliori campeggiava sul paginone centrale di Playboy. E allora — senza tanti giri di parole (o meglio, esattamente attraverso un giro di parole del genere) — questo è lo spirito eccentrico che aleggia per tutto l’album e che dà all’intero lavoro una sua — bizzarra ma ben definita, non richiesta ma che non guasta, soprattutto quando si ha di fronte un personaggio eclettico come il tizio in questione — coerenza: «Bunnies are cute. Bunnies are weird. They’re soft. They’re sexy. They’re lucky. They wildly procreate. They trick hunters, but get tricked by turtles. They lead you down holes.»

Un disco strano ma sempre facilmente accessibile, oscuro quando serve ma estremamente sensuale in ogni suo momento, un disco che ti frega sornione quando vorresti categorizzarlo ma che non vede l’ora di farsi fregare nell’attimo in cui accetti di goderti le sue calcolate stramberie rinunciando a indagini troppo cerebrali, come quella appena fatta fin qui. Un disco, in conclusione, che ti invita a seguirlo, fidandoti di lui, in quella che, al giorno d’oggi, è a tutti gli effetti una moderna tana del Bianconiglio: l’arte di fare musica liberi da vincoli di sorta, guidati solo dalla propria visione (che quando capita sconfina nel proprio voyeurismo).

Il fatto che in questo caso gli angoli da cui osservare (e da cui guardarsi allo — e attraverso — lo specchio) non siano uno solo rende la cosa nient’altro che più intrigante, più fascinosa, meno scontata. Un po’ magica come lo Stregatto, a tratti imprevedibile come il Cappellaio Matto, di tanto in tanto incorniciata da un buco della serratura dentro al quale spiare i vicini di stanza: sicuramente degna del nome con cui ci è stata tramandata nei secoli dei secoli.

Nel senso, ci sarà un motivo se l’hanno chiamato (in entrambi i casi) Paese delle Meraviglie.

Exit mobile version