La vita di Matteo è un presente che procede tra le pieghe del tempo senza intoppi di sorta. Un susseguirsi di eventi che, nel loro ordine naturale, costituiscono lo stratificarsi di un’esistenza, quella del protagonista, del tutto lineare. Così è finché un giorno Matteo non riceve un’e-mail con un albero genealogico in allegato. Un albero genealogico che, tra le altre stranezze, contiene anche la data della sua morte: il 21 settembre di quell’anno. E ogni cosa cambia.
Quanto siamo di ciò che abbiamo traversato? Quanto di ciò che i nostri avi hanno fatto, detto, pensato? Possiamo in qualche modo modificarlo, il nostro passato? Il Matteo protagonista del nuovo, perturbante romanzo di Matteo Trevisani si chiede tutto questo, arrivando anche a trovare le risposte alle domande che non sapeva si stesse ponendo. È un libro sull’inafferrabilità del reale e sull’identità, questo. Un libro, scritto magistralmente, che ha il pregio della grande letteratura: ne Libro del sangue Trevisani di risposte non vuol darne, vuol solo interrogare. Con i suoi quesiti sull’esistenza, sul tempo, sull’identità, l’autore apre una voragine. Una fossa gigantesca che sta a noi lettori, poi, riempire.
Qual è l’utilità di definire il nostro passato, secondo lei?
Credo serva a darci una certa consapevolezza in più circa noi stessi. Senza, viviamo come sospinti da dei miti personali che ci giungono direttamente dalle generazioni precedenti, da chi ci ha preceduti e generati. Senza, tutto ciò che facciamo è chiamare destino quel che ci accade ed è qualcosa di passivo.
Ricostruire il passato, quindi, per trovare le ragioni del presente.
Sì, e per vivere la vita con libertà. Perché raggiungessi questo affrancamento per me è stato necessario vedere cos’è successo prima della mia nascita, vedere le ragioni delle esistenze di chi ha contribuito a generarmi. Michele Mari parla di aggiornamento del passato ed è a questo che serve la ricostruzione del nostro albero genealogico. Ed è questo ciò che ho cercato di fare con il mio libro.
Secondo lei, trovare le nostre radici non significa pure solidificare la nostra identità e quindi un po’ limitare la nostra libertà?
È esattamente il contrario. Trovate le nostre radici, possiamo scegliere con consapevolezza se esserne influenzati o meno. È la non conoscenza il vero problema, la vera limitazione. Sapere da chi veniamo, da dove veniamo, ci aiuta a costruirci nello stratificarsi del tempo.
Siamo costituiti anche dallo stratificarsi degli anni, quindi. Siamo l’ammonticchiarsi del tempo alle nostre spalle.
Sì, è così. E siamo molto più grandi, sotto questo aspetto, di quanto siamo portati a pensare. Insomma, risalendo storicamente da figlio a genitore, da genitore a nonno e così via, indietro, indietro e indietro, si arriva ai primi uomini e alle prima donne che calpestarono la terra. Noi siamo figli e figlie di quelle persone a tutti gli effetti, discendiamo da loro in modo diretto. E solo la ricerca genealogica può darci queste stratificazioni, renderci l’idea di quanto siamo composti del tempo. Solo la ricerca genealogica può aiutarci a capire a quale livello, in quale strato è successa una determinata cosa o è stato elaborato un determinato pensiero che riverbera nel tempo, lungo le stratificazioni, per arrivare fino a noi.
In effetti, ho avvertito il tempo come uno spazio materiale nel suo romanzo. Qualcosa lungo cui si può procedere, andare avanti e indietro.
Be’, sì. In un certo senso, è così. In fondo, il tempo degli avi è il mondo dei morti. E quello dei morti è un mondo senza tempo. I defunti vivono un mondo che non ha passato, presente e futuro, un mondo dove tutto è schiacciato, dove tutto succede nello stesso momento. Solo il mondo dei morti, però. Il nostro, che è comunque vicino a questa realtà, è un mondo in cui il tempo è percorribile.
È possibile vivere come vivono i nostri avi, vivere un mondo senza tempo?
Sì, e nel libro provo a spiegarlo. Provo a mostrare come le persone possano buttare la testa un secondo dall’altra parte e cercare di viverlo, questo mondo senza tempo.
Nel suo romanzo non c’è niente di solido, ogni cosa è malleabile, quasi non ha forme. A un certo punto Matteo, il protagonista del romanzo, si chiede come possiamo essere sicuri di percepirla veramente, la realtà. Ma la si può percepire, a conti fatti?
No, i sensi ingannano sempre. Penso che ognuno di noi possa convincersi solo della verità delle cose, mai del loro significato. È quando cominci a cercare il significato, ignorando, o provando a ignorare, la verità, che vivi la realtà, il mondo, appieno.
Come si fa? C’è un modo?
Il solo fatto di osservare qualcosa, cambia già quel che vedi. Nel mio libro, ad esempio, mostro come la famiglia non sia quella realtà statica di cui abbiamo percezione, ma si modifica. Osservando il mio albero genealogico posso rendermi conto di quanto sia cangiante rispetto a me stesso, al presente. E allora, in quel momento, non vedo più la verità sulla mia famiglia ma il significato delle tante persone che la compongono, il significato dei loro gesti.
Si può dire quindi che, in un certo senso, passato e futuro dialoghino? Un telefono senza fili in cui noi del presente siamo chi sta in mezzo cercando di comprendere cosa si stiano dicendo.
Bene o male, penso che il nostro compito sia questo. Tentare di capire in che modo il passato, i suoi avvenimenti, si riverberino nel tempo. E, al contrario, capire che porzione del futuro si riverberi nel passato. So che si tratta di un concetto controintuitivo, antilogico, ma credo che la ricerca genealogica faccia questo. Scoprire il passato, tracciare la nostra genealogia, modifica una parte di noi stessi, di chi siamo, e quindi dell’idea che abbiamo della nostra storia, un po’ modificandola.
La Balena che viene tramandata, che d’un tratto arriva tra le pagine del romanzo, rappresenta sia i fardelli, sia gli aspetti positivi passati da una generazione all’altra. Leggendo queste pagine, ho immaginato tante Balene che nuotano nel mare del tempo. Cosa rappresenta, la Balena?
È il simbolo dei traumi che passano da una generazione all’altra. La Balena è sia la colpa sia i traumi, ma non solo. Quando Giuseppe, uno dei personaggi del libro, guarda la Balena nell’occhio non vede l’animale, ma il riflesso di sé stesso. La Balena gli dà un’identità, un Io. È proprio in quel momento, quando si vede nella sclera dell’animale, precipita in lui tutto il futuro e il passato e tutto quello che in lui sono le possibilità di una vita intera.
Lei dice che la Balena dà a Giuseppe un’identità. Ma cos’è l’identità?
È qualcosa da cui fuggire. Bisognerebbe giocare a non identificarsi con niente, secondo me. A togliere via via cose finché non resta che l’identificazione con noi stessi. L’Io è una grande conquista, ma è anche qualcosa di limitante per l’avventura spirituale sulla terra.
Dunque come ci costruiamo? Come ci identifichiamo con noi stessi?
Attraverso la necessità. Noi siamo le nostre necessità. Dobbiamo accettarle. E dobbiamo seguirle.