Il Nuotatore | Con i Massimo Volume nel mare di Napoli

Che facciamo se non sappiamo nuotare? Sguazziamo cercando disperatamente di stare a galla! Esistere nel primo genere di conoscenza significa appunto questo: sguazzare tra i flutti delle variazioni cercando di stare a galla – Gilles Deleuze

Mancavano da sette anni i Massimo Volume a Napoli. Hanno suonato, finalmente, il 19 dicembre alla Casa della Musica, presso il Complesso Palapartenope, grazie all’impegno di chi ha voluto portare nelle scorse settimane una ventata di rock indipendente tra le strade del capoluogo campano, dopo I Notwist e I Giardini di Mirò.

Ad aprire il concerto, gli EPO che quest’anno hanno pubblicato il loro quarto album, Enea, un disco che unisce la tradizione partenopea con sonorità più internazionali e che vanta collaborazioni con Roy Paci e Rodrigo D’ Erasmo. A Ciro Tuzzi, Michele De Finis, Jonathan Maurano (accompagnati dal vivo da Lorenzo Scaperrotta al basso e da Mauro Rosati alle tastiere) è dunque affidato il compito di preparare il campo a una delle band più importanti dell’intero panorama della musica alternativa italiana di quasi tre decenni.

Quest’anno ricorre, infatti – e ce lo ricordano gli splendidi cofanetti celebrativi con bootleg e libretto con foto inedite in vendita al merchandising, – il 25° anniversario di Stanze, il disco con cui i Massimo Volume esordirono nel lontano 1994. Dalle cantine sotto i portici bolognesi e da lì in giro per l’Italia, i Massimo Volume sono diventati una band di autentico culto che ha saputo misurarsi sulla lunga distanza con un progetto mai banale, post rock, certo, ma immediatamente riconoscibile grazie allo spoken word (ma è termine riduttivo) di Clementi – che non sapeva e non voleva cantare – ma ha sempre saputo infondere tutta la sua poetica – ma sarebbe meglio dire la sua stessa visione della vita – dentro testi animati parimenti dalle proprie esperienze come dalle suggestioni di tanta poesia, di tanta letteratura del novecento e non solo.

E allora l’inizio del concerto è affidato proprio a uno dei brani più importanti di quegli anni e di quel disco – Ronald, Tomas e io – che già portava con sé tutte le inquietudini di un passaggio generazionale – “Quel giorno ho fatto un patto / un giuramento con me stesso / non sarei mai più tornato a casa”. Tocca quindi a due brani di uno degli album più amati della band – Cattive Abitudini – presenza fissa nelle recenti classifiche degli album più belli del decennio, da cui tirano fuori Fausto e Le nostre ore contate. Ma questa nuova tranche del tour – in primavera nei teatri, ora nei club – è dedicata soprattutto all’ultimo – Il Nuotatore – con cui la band ha provato nuove soluzioni armoniche e di scrittura dei testi. Al disco – ispirato al racconto di Cheever – è dedicato un intero blocco del live. Su Una voce a Orlando – canzone che esplora lo smarrimento davanti a una situazione di pericolo ineluttabile – una ragazza tra il pubblico sussurra una frase tanto surreale quanto efficace “guarda quanta passione in quel cappello” e in fondo è dentro tutta l’immaginazione che sorregge la poesia che è nascosto il carisma silenzioso e sottile di un personaggio come Mimì Clementi, il suo essere un musicista, prima di tutto, ma anche poeta, scrittore e incantatore sopra e sotto il palco.

E ho imparato a naufragare / senza perdermi nel mare / e ho scoperto che può annegare / anche chi rinuncia a navigare

Amica prudenza, coi suoi tempi sincopati eppure così suadenti, si fa per certi aspetti paradigmatica di questo nuovo corso. Dopo l’uscita di Stefano Pilia – oggi in posizione stabile nei “nuovi” Afterhours di Manuel Agnelli – la band è tornata in studio nella nuovissima formazione ridotta ai tre elementi storici, avvalendosi del talento di Sara Ardizzoni (Dagger Moth, Cesare Basile) all’altra chitarra per le versioni dal vivo, regalando una musica più asciutta, quasi jazzata in alcuni arrangiamenti, ipnotica, ammaliante, seducente. Dal pubblico chiedono prima La città morta, poi Pizza Express: Mimì scherza “quella pizzeria nemmeno c’è più” per poi rivendicare più che con orgoglio, con estrema consapevolezza: “abbiamo tanti pezzi, uno più bello dell’altro”. E lo dimostra fin da subito con uno dei brani più riusciti del nuovo lavoro, Nostra Signora del Caso: basso e batteria echeggiano dalla stiva di una nave che prova ad avanzare su un mare in tempesta; ed è un rollio che sa di salsedine, di cupe sonorità profonde, di viscere, di pensieri che si affastellano gli uni sugli altri mentre le chitarre squarciano, come lampi e spuma bianca di onde, la chiglia del vascello alla deriva dei marosi. Luci e ombre, sotto e sopra il mare, blues e post rock a galleggiare fino al gorgo improvviso che ingoia tutto.

Chissà se Nietzsche è stato a Napoli. Di sicuro è stato a Venezia nel giugno del 1884” sono le parole con cui Clementi introduce Fred, ispirata, appunto, al soggiorno italiano del filosofo tedesco, variazione immaginifica su una linea di basso continuo ispirata a Il demone di Nietzsche di Stefan Zweig, arricchita da una coda d’ispirazione quasi sacrale.

Con La ditta dell’acqua minerale – storia di uno zio che perse la propria azienda a carte – esplode l’energia post rock con le due chitarre a costruire loop di onde sonore e con Sara Ardizzoni a disegnare splendidi contrappunti alle linee di Egle Sommacal sulle quali Mimì declama i suoi versi, con tutto il calore della sua prosa da cantastorie, da poeta di strada, da cultore della parola, da sacerdote del verbo.

L’ultima notte del mondo affida a degli speciali “cantori della notte” (Novalis, Basinski, Bela Lugosi, Chopin, Ellroy) un’ode corrosiva alla necessità del male che ci conduce dentro a un solco ben visibile che tiene unito nel tempo il suono della band.

The Swimmer”: annuncia Clementi ed è il momento de Il Nuotatore con il ritmo sghembo e malato che lo attraversa: è il suono dei Massimo Volume che si incastra perfettamente alle parole, al gin e al cocktail party evocati dallo spoken-word cadenzato, che avvolge infilzando in compagnia della musica fino a farla penetrare in cuore e cervello. Con Mia madre e la morte del gen. José Sanjurjo – storia di dittature e di vanità – si chiude il capitolo dedicato all’ultimo album del 2019 per aprire quello che torna indietro nel tempo, al disco d’esordio.

Mimì ha il tempo di ricordare di un vinile inviato a un locale di Napoli nel 1994 – “chissà se è mai arrivato” – e il tempo davvero non sembra essere mai passato tanto è l’entusiasmo della band con Egle che si porta alle spalle di Mimì quasi a sottolineare il dialogo costante con Sara. Un sapore tutto qui vede Vittoria Burattini alla voce come in una confutazione del tempo, ed è una voce identica a quella di 25 anni fa a riportare l’intera sala sotto ai portici di Bologna di inizio anni ’90. “È da pochi mesi che sta con noi” – scherza Emidio – “facciamole un applauso”. Alessandro, con il suo angosciante elenco, funziona quasi da intermezzo fino all’esplosione della lunga e affascinante coda strumentale. Vedute dallo spazio / ororo è il pezzo che chiude l’amarcord degli esordi. Come sotto un mare di riflessi violacei, i tre davanti sono come meduse, animali marini che galleggiano nei coni colorati di una luce segreta che profana lo spazio e l’oscurità mentre le corde del basso appaiono come lunghi tentacoli che irretiscono la folla – come dentro a un incantesimo – e che scivolano tra il pubblico come ad accarezzarlo in un’atmosfera sospesa e rarefatta fino all’ingresso del ritmo deciso della batteria, all’incedere sempre più incalzante delle chitarre, come suoni di una fucina nascosta, l’eruzione di un vulcano sottomarino, una faglia come una ferita che squarcia il fondo del mare e accende il palco di colori rosso fuoco e luci bianche, temerari palombari venuti a violare la perfezione di una natura dirompente e indifferente. Mimì si avvicina a Sara, le dà le spalle appoggiandosi alla sua chitarra; Egle dal lato opposto si volta camminando verso Vittoria, creando un gioco di specchi e di unità mentre con un “grazie, a presto!” si chiude la prima parte del live.

C’è naturalmente tempo per una manciata di bis: Litio che vede Sara imbracciare il basso mentre Mimì si aggrappa all’asta del microfono come un naufrago a un’asse di legno, mentre Egle sorride soddisfatto; questo cavaliere elegante, questo monaco ascetico che si prende la scena con un assolo asciutto. Il primo dio che mette in risalto tutto il loro modo serio, essenziale, concreto di stare sul palco che sorprende ad ogni data del loro tour. La cena, tiratissima, da Aspettando i Barbari, a questo giro messo – e dispiace – un po’ in disparte.

Arriva anche il tempo dei ringraziamenti, all’organizzazione, ai fonici, “agli EPO, bravissimi”, prima di una versione splendida di Dopo che da Club Privé, dedicata “a tutti i delusi dall’amore e ce ne saranno sicuramente” fino alla canzone di commiato – “questa è veramente l’ultima“ – un Fuoco fatuo che, in uno stato di grazia – chiude il concerto tra clangori quasi industrial.

 

Scaletta:

  1. Ronald, Tomas e io
  2. Fausto
  3. Le nostre ore contate
  4. Una voce a Orlando
  5. Amica prudenza
  6. Nostra Signora del caso
  7. Fred
  8. La ditta dell’acqua minerale
  9. L’ultima notte del mondo
  10. Il nuotatore
  11. Mia madre e la morte del gen. José Sanjurjo
  12. Stanze
  13. Un sapore, tutto qui
  14. In nome di Dio
  15. Alessandro
  16. Vedute
  17. Ororo

Encores

  1. Litio
  2. Il primo Dio
  3. La cena
  4. Dopo che
  5. Fuoco fatuo

 

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