Fenomenologia della nuova narrativa statunitense: Martire! di Kaveh Akbar

In una delle presentazioni che hanno accompagnato l’uscita negli Stati Uniti di Martire!, l’esordio nella narrativa del poeta iraniano-americano Kaveh Akbar, in Italia pubblicato da La nave di Teseo nella traduzione di Chiara Spaziani, emerge una metafora brillante: «Non volevo che questo romanzo fosse una verdura che mangi perché sai che ti fa bene. Io voglio guadagnarmi il tempo di chi legge [… ], a lui/lei devo un incontro con qualcosa di nuovo, con un senso di sorpresa». La metafora della verdura che fa bene calza a pennello con un certo tipo di narrativa, innamorata molto di sé stessa e meno di chi legge, consacratasi alla bellezza assoluta, ma che manca nella relazione col pubblico. Cosa è il bello, allora, nella narrativa? Dove si trova? Nella forma cristallina? Nelle immagini pregne di significato? O nelle storie? E cosa consacra un romanzo all’altare dell’eternità? Nel suo viaggio verso la stesura di Martire!, rigorosamente con il punto esclamativo per ragioni legate al tono del romanzo e della sua voce narrante, Akbar, già dotato di talento poetico assoluto, comincia a consumare libri e film con ritmi impressionanti: due romanzi a settimana e un film al giorno. L’obiettivo è quello di scomporli, comprenderli ed estrapolarne le strutture narrative. Non c’è però la pura attrazione dello studioso in questo progetto personale, né snobismo, ma solo la ricerca entusiasta di storie e delle loro forme. In questo processo creativo nasce il primo personaggio di Martire!, l’artista Orkideh, simile per certi versi a Marina Abramović, ma più radicale nel suo atto artistico finale. Il vero protagonista, Cyrus Shams, emergerà più avanti; poeta iraniano-americano di trent’anni afflitto da anni di dipendenze da alcool, droghe e da una depressione invalidante. Non è un errore ritrovare Akbar in Cyrus, entrambi condividono una storia di dipendenze e altre piccole coincidenze autobiografiche, ma la verità è che c’è un tratto dello scrittore in ogni personaggio del romanzo, una sensibilità condivisa che li eleva sullo stesso piano del protagonista in un coro magnifico di voci dissonanti negli Stati Uniti contemporanei.

Cyrus nasce a Teheran da genitori iraniani. La madre, Roya, muore in un incidente aereo realmente accaduto, quello volo 655 dell’Iran Air abbattuto per errore dalla nave da guerra USS Vincennes degli Stati Uniti il 3 luglio 1988, nel pieno della guerra Iran-Iraq. Nel disastro morirono 290 civili iraniani, un errore archiviato in fretta dall’opinione pubblica statunitense, una storia di martirio e motivo di propaganda antiamericana per il governo teocratico iraniano. Akbar si appropria, allora, di questa contrapposizione e dà vita all’ossessione per il martirio del protagonista. Con la granularità di cui è capace la letteratura, Akbar racconta la storia di una vittima, anche se fittizia, esempio della tragedia umana dell’evento e della perdita a esso connessa, lontano dalla logica dei numeri a cui è stata ridotta. Il padre di Cyrus, Ali Shams, rimasto vedovo, lo porta con sé nel cuore del midwest statunitense, in Indiana, per dargli una vita migliore, «mio padre voleva fossi americano», e consacrerà la sua esistenza a questo, consumato dall’alcol e dal lavoro in una fabbrica di pollame. Il peso dell’aspettativa schiaccia il corpo e la mente di Cyrus, vittima delle dipendenze, depresso e, come lo definisce lo stesso Akbar, «suicidally sad», cioè così triste da ambire al suicidio, ma determinato a cercare un senso in questo desiderio.

Per andare avanti Cyrus, laureato in letteratura, lavora come attore medico nel Keady University Hospital, ovvero dialoga con i medici in formazione per allenarli a dare brutte notizie ai pazienti. La tristezza non lo insegue, lo domina. Ha un amico fidato, Zee, con lui un rapporto dai contorni sfumati tra affetto e amore, e usa la scrittura, in particolare modo la scrittura di dialoghi immaginari, per placare l’ansia e l’insonnia che lo perseguitano da quando è bambino. Cyrus cresce, così, da iraniano in un’America che dopo l’11 settembre non farà altro che coltivare l’odio per soddisfare la sua sete di vendetta e rivalsa, pur convinta di esportare democrazia.

Era cresciuto iraniano nel Midwest americano, tra l’11 settembre e lo sciovinismo che vi aveva fatto seguito, con le bandiere sulle aiuole, i nastri gialli e tutto il pacchetto di “non sei contento di stare qui”. Cyrus riusciva a vederglielo in petto quando lo guardavano. Era come se gli americani avessero un altro organo fatto appositamente per quello, per quell’odio-terrore. Pulsava fuori dal loro petto come un secondo cuore.

In questo contesto, Cyrus affida a un progetto letterario sul martirio tutte le prospettive sul futuro di cui è capace. Comincia a comporre poesie e riflessioni sul senso che una morte può assumere per diventare significativa, ma nella sua accezione più secolare e pacifista. È un’idea influenzata dalle radici iraniane, terra in cui il martirio diventa il merito estremo dei soldati, la ricompensa a cui ambire per essere celebrato, ma che si sviluppa in maniera più estesa raccontando altre figure storiche e,soprattutto, gli stessi genitori di Cyrus. Il culmine della fase di ricerca per il suo progetto arriva con un viaggio a New York per incontrare l’artista Orkideh, anche lei iraniana, protagonista di una performance dedicata proprio alla morte, la sua, imminente per un cancro al seno. A lei Cyrus spiega:

Sto pensando alla morte da un po’,[…] al fatto di morire presto. […] Mi sto esercitando a morire. Faccio questo lavoro in cui muoio. […] Faccio questo lavoro e nel mentre studio tutte queste persone che sono morte per qualcosa in cui credevano. Qu Yuan, Giovanna d’Arco, Bobby Sands. Morire. Sembra un tale spreco morire senza una ragione. Sperperare la sola buona morte che hai a disposizione.

Saranno tre gli incontri con Orkideh, ciascuno più profondo del precedente, fino a un epilogo, del romanzo e del loro rapporto, rocambolesco e folle, quasi incredibile, ma allineato con l’ingegno immaginifico di cui è dotato Cyrus.

Foto di Alessia Ragno

Kaveh Akbar alterna i piani temporali, dà voce a Cyrus ma anche ai suoi sogni, ai suoi genitori e allo zio Arash Shirazi, angelo della morte durante il conflitto con l’Iraq, ovvero uomo che vestito da cavaliere sovrannaturale va a dare conforto ai soldati morenti sul campo di battaglia. È proprio allo zio che Akbar dedica uno dei capitoli più riusciti, il capitolo 11, un racconto compiuto all’interno del romanzo in cui la cura nella profilazione dei personaggi e nelle parole raggiunge un picco splendente. È in questa elevazione di linguaggio, parole e metafore, Akbar innesta l’ironia più divertente che permea il rimuginare continuo e meticoloso di Cyrus, ma anche i ricordi del suo passato. Il triste Cyrus, il martire per vocazione, si scopre arguto e divertente, dettaglio che chi legge però intuisce già da quel punto esclamativo nel titolo, quel Martire! che aggiunge brio e movimento a una parola granitica e oscura. Cyrus, allora, riflette sul tardo-capitalismo, sullo scopo dell’esistenza, sull’abbandono e la morte, sulla sua identità, ma ricorda anche di quella volta in cui, strafatto di Fentanyl, si amputa le dita di un piede mentre lavora, momento esilarante pur nella sua tragicità, fino a sciogliersi nei momenti di tenerezza con l’amico Zee e verso sé stesso. Cyrus è un diamante con più facce, ciascuna impegnata a riflettere la luce del mondo come può, ma sempre con la stessa brillantezza. Martire! è ,allora, non solo l’esordio singolare di uno dei più promettenti poeti americani, ma anche una finestra su ciò che la narrativa può fare se si spoglia delle aspettative e degli schemi delle logiche di vendita, nonché una lezione di scrittura che dialoga con chi legge, sfidando l’abitudine alle solite metafore. Martire! è un romanzo moderno, sperimentale, capace di esplorare l’emotività complessa di un uomo che si è perso e cerca il senso del suo vagare. E non importa se il finale si tinge di toni fin troppo fantastici, l’amore per le storie di Akbar, e di Cyrus, prevale, a patto di non sacrificare mai struttura e lingua.

Viene da individuare, allora, un filone ben preciso nella narrativa americana contemporanea, quello che ha visto un culmine nell’esordio di un altro giovane poeta americano di prima generazione, Ocean Vuong, Brevemente risplendiamo sulla terra. Non è, infatti, un caso che entrambi siano poeti e figli di immigrati, è la nuova America che parla e che nessuno può far più tacere. Per entrambi sono le parole e la sperimentazione linguistica l’unico mezzo per l’eternità. Sarà l’arte l’arte a tramandare l’essenza di una generazione che provano a contrastare con tutti i mezzi, politici e non, ma senza successo. E come Cyrus ritrova scopo attraverso la sua arte, anche Akbar e la sua narrativa fresca e innovativa ridanno scopo all’editoria, anche in traduzione, da troppo abbandonatasi alle polverose logiche del mercato e del profitto a tutti i costi.

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