Un martedì sera di luglio di un’estate che stenta a riscaldarsi, decidiamo di andare a Collegno per il il Flower Festival. Torniamo sul luogo del delitto dove pochi giorni prima si sono esibiti, tra gli altri nomi del ricco cartellone, CCCP e IDLES: il passato e il presente del punk, il passato dell’indie italiano, emiliano e sovietico, e il futuro di quello inglese. A questo giro ci torniamo per un incontro importante che porta il titolo “Complimenti per la festa, una festa del cazzo!” e vedere una band tutta piemontese che si chiama Marlene Kuntz. Il titolo è ripreso dall’apertura del loro classico “Festa mesta”, diventato il grido di un’intera generazione che preferiva andare ai concerti, piuttosto che ai matrimoni. I quattro di Cuneo, che con alcune sostituzioni è arrivato al numero di cinque membri ormai da qualche anno, si è riunito per tornare alle origini e suonarci Catartica per il trentesimo anniversario dell’uscita del disco, promettendoci anche altre chicche tratte dai primi tre dischi della loro gloriosa prima fase. Nella provincia post-industriale di Torino dunque, non troppo lontano dalla città grigia da dove hanno cominciato oltre trent’anni fa, cercando di far crescere l’erba della musica indipendente nel deserto culturale, questi cinque ragazzotti ormai arrivati ben oltre la soglia dei cinquanta, capeggiati dal carismatico Cristiano Godano e dal più discreto Riccardo Tesio, ci mostrano di non aver perso la grinta con cui hanno portato in giro un disco che negli anni Novanta ci faceva sentire più vicini alla scena newyorkese in cui si esibivano band come i Sonic Youth. E ci regalano una serata a di musica grandiosa.
Il lungo tour che riscopre Catartica e che passa per Torino, prima di arrivare a città anche europee quali Parigi e Berlino, nonché la stessa Cuneo, è un bagno di folla, di entusiasmo, di emozioni: suggella la storia di un gruppo che ha fatto la storia dell’indie italiano e che sembra essersi guadagnato il super-potere di fermare il tempo, convincendoci di poter suonare quei pezzi scritti tra il 1994 e il 1998 per un momento che dura in eterno. La carriera del gruppo è proseguita attraverso numerosi altri dischi, alcuni progetti anche molto ambiziosi come l’ultimo Karma Clima, che ha coinvolto numerose iniziative sul territorio cuneense per risvegliare la coscienza ecocritica dei propri ascoltatori. Ma Catartica è per sempre. Non chiamiamola nostalgia: credo che sia semplicemente un disco che suona bene oggi come nel 1994, resiste al tempo come gli album dei Sonic Youth o dei New Order, sempre attuale. Ci sono dentro idee e cuore, se fosse inciso oggi credo che a molti piacerebbe come è piaciuto allora. Anche perché il gusto è cambiato e si è riallineato a distanza di trent’anni, attraverso numerosi ritorni di fiamma e revival, senza invecchiare, riportandoli sui binari giusti. Perciò da una parte i Marlene Kuntz mi hanno ricordato il live dei Blonde Redhead che ha inaugurato questa rassegna di concerti a Torino: non una band che fa la cover di sè stessa, come accade con le reunion che ormai non sorprendono più, ma che mette in scena il recupero di un momento musicale importante. Non la nostalgia di un momento bloccato nel passato, ma un presente che si riattualizza sul palco, ogni volta che quei due ragazzotti piemontesi oggi prossimi ai sessanta schiatarrano scomposti come quando ne avevano venti e gridavano al mondo che i loro desideri di rock’n’roll non potevano restare rinchiusi a Cuneo.
Mancano alla festa per ovvi motivi purtroppo, il batterista fondatore della band, Luca Bergia, tristemente mancato due anni fa e ricordato sul palco per un momento breve e intenso che precede l’esecuzione di “Lieve”, un brano che all’epoca Ferretti e Zamboni decisero di suonare come cover in una delle raccolte del Consorzio dei Produttori Indipendenti. In tutta sincerità, non avrei immaginato di riascoltare Catartica senza di lui, ed è la mancanza che ho sentito di più, se non altro per motivi affettivi. Ma non voglio essere ingeneroso, perché chi lo sostituisce ormai dal 2021 fa un lavoro decisamente di altissimo livello, molto fedele nell’insieme ma con piccoli momenti di giusta originalità negli arrangiamenti: si tratta di Sergio Carnevale, storicamente legato alla line-up originaria dei Bluvertigo, band uscita nello stesso periodo dei Marlene che non è sopravvissuta alla loro prima trilogia discografica, anche a causa dell’incontenibile personalità del leader Morgan. Mancano i bassisti di quell’epoca, Daniele Ambrosoli decisamente quello che si fa più sentire, subentrato in Il Vile e Ho ucciso paranoia. Quest’ultimo è stato il primo disco della band che ho sentito suonare dal vivo: era il 1999, 25 anni fa. Il mio personale anniversario della scoperta dei Marlene Kuntz si sovrappone con quello della band e anche se gli arrangiamenti diversi nelle orecchie di conosce quei brani a memoria più di una volta crea piccole discrepanze nell’ascolto, Godano e Tesio riescono a ricreare la magia: se chiudo gli occhi, torno a Roma, quella notte al Palacisalfa, con un amico caro romano che me li aveva fatti scoprire, splendidi e devastanti, come diceva lui. Al basso c’è invece il solido Luca “Lagash” Saporiti, ormai elemento fisso della band dal 2007, il più longevo nella storia del gruppo, a partire da Uno. E c’è il polistrumentista Davide Arneodo che aggiunge quel tocco che al Catartica originale mancava, una piccola firma inessenziale ma presente che ci ricorda che questi signori intanto hanno continuato a crescere e migliorare, e perciò questi brani che conosciamo a memoria rivivono di minuscoli, cruciali, rimaneggiamenti.
Ad accoglierci e scaldarci, compito ingrato, c’è Max Collini, che appare affiancato da Jukka Reverberi come da precedente progetto Spartiti, di cui esibiscono uno dei brani, “Austerità”. Ma il tema della serata è quello di Storie di antifascismo senza retorica, uno spettacolo che Collini porta in giro con vari ospiti leggendo brani pubblicati nell’omonimo libro e che qui esibisce in forma ridotta, ripescando anche brani memorabili dal repertorio degli Offlaga Disco Pax, come “Sensibile”. Un aperitivo di sostanza e gusto.
Poi sul palco tinto di rosso appaiono loro cinque. La scelta dei pezzi è semplicemente perfetta. Si fa a gara, nel pubblico, a chi riconosce prima un brano da pochi accordi o da qualche miagolio metallico, ma Godano e Tesio non hanno voluto rendere le cose facili al loro zoccolo più duro. L’apertura è atipica è difficile da beccare al primo tentativo: “Trasudamerica”, seguita da “Canzone di domani” e “Gioia (che mi do)”, quest’ultima raramente esibita dal vivo anche nei live di quel periodo, quindi “Fuoco su di te”, praticamente buona parte della seconda metà di Catartica, per poi passare a “Aurora”, presa dall’EP Come di sdegno. Si continua con altri pezzi meno appariscenti tratti da Il Vile, come la densissima “L’agguato”, e Ho ucciso paranoia, con “Lamento dello sbronzo”. Si torna a Catartica dirigendosi verso la fine, con “Mala mela” e “1° 2° 3°”, che chiudono il disco, per poi aprire il valzer dei classici passando a Ho ucciso paranoia con “Infinità”, una delle più intense love songs della band, e “Ineluttabile”. Si passa a fare sul serio a questo punto, con “Lieve”, seguita dall’attesissima “Festa mesta”, che manda il pubblico in delirio come avrebbe fatto trent’anni fa, e quindi “Sonica”, con cui si precipita in una vertige conclusa nel modo migliore, quando Godano annuncia che ne manca ancora una – in realtà dal disco ne mancano altre tre, che non saranno eseguite – ossia “Nuotando nell’aria”. Dai boati e tuoni e lampi si passa ai sussurri e singhiozzi, ognuno ha una storia finita da associare a quella che è forse la ballata più struggente di quella fase, se mi si consente insieme a “Pelle” degli Afterhours. La mezzanotte incombe ma sembra che i cinque non abbiano intenzione di smettere, escono per tornare rapidamente con l’encore: “Hanno crocifisso Giovanni”, una chicca recuperata da una di quelle raccolte che uscivano in quegli anni pioneristici e mitici, Materiale resistente del 1995; quindi un’altra ballata molto intensa ma dolce, “Come stavamo ieri”; e poi – nessuno ci sperava ormai – arriva anche “Ape regina”. Non c’è spazio per appassionati delusi stasera, i classici ci sono tutti, e la performance non ci farà rimpiangere trent’anni di attesa, e loro sono in forma magnifica. Si chiude con “M.K.”, il manifesto con cui si sono presentati. Arriva l’ora di avviarsi a casa. L’ultima metro è ormai andata, nessuno sembra farci caso. Stasera abbiamo portato a casa un pezzo di storia che ci appartiene.
Ci sono gruppi che vivi come un destino, che vanno oltre la dimensione musicale: il mio ciclo a Torino, per esempio, durato al netto delle intermittenze sette anni, si è aperto con un concerto dei Marlene Kuntz a OGR, quando ero appena arrivato in città, e si è chiuso con un concerto dei Marlene Kuntz a Collegno, qualche sera fa. Loro sono rimasti il mio metro di paragone su cui valuto l’evoluzione della musica indipendente e della scena musicale di Torino. Un gruppo che a lungo è stato il mio gruppo di riferimento in generale, che ho ascoltato forse una ventina di volte dal vivo nei dieci anni in cui li seguivo più da vicino, in numerose città. Sono cambiate tante cose, come è giusto che sia, intorno all’evoluzione della loro musica: all’epoca i Marlene Kuntz avevano appena pubblicato il loro decimo disco Lunga Attesa, e adesso, l’undicesimo, Karma Clima. Su questa webzine li avevo recensiti esprimendo entusiasmo per i pezzi storici e noia per quelli più recenti, confrontandoli con gruppi di formazione più recente, ed ero stato ingeneroso e spocchioso come uno di quelli che scrivono per le riviste musicali alla moda. Stasera, vedendoli generosamente elargire i loro pezzi amati dalla vecchia guarda, per alcuni giovani ascoltatori forse perfino sconosciuti, la prospettiva si ribalta, e forse sono maturato di più anche io, insieme a loro, mi sembra di capire meglio che dietro le scelte dei musicisti si celi il desiderio di riuscire a dire sempre cose nuove, che spesso risultano troppo diverse da quello che vorremmo ascoltare. Ma anche in questo caso, non mi sento un nostalgico, è solo il mio gusto che si è evoluto in modi diversi, come è giusto che sia.
Scriveva John Barth, un autore scomparso pochi mesi fa, che a volte l’amicizia è come un’opera galleggiante che si sposta sul fiume mentre noi restiamo fermi, e allo stesso modo possiamo capire i nostri amici solo nei momenti in cui ci transitano vicini. Forse è così anche per la musica, che si tratti di CCCP o dei Blonde Redhead, dei Marlene Kuntz di ieri, degli IDLES di oggi, dei BDRMM di domani: il nostro limite è dato dallo spazio e dal tempo, dal prezzo dei biglietti, dalla disponibilità di una serata, dalla distanza che ci separa dalla location. Altrimenti immagino che valga per molti quello che vale per il sottoscritto: andrei, se potessi, a vederli tutti, più volte, anche solo per vedere cosa sono diventati. Per collezionare performance che consacrano momenti unici e poterli confrontare con quelli successivi. Allora godiamoci questo tour che trasuda amore per quella fase e per quella fan-base, mettendo da parte l’ingenerosità di chi li ha abbandonati a metà percorso, o ancora prima. Visibilmente, loro continuano a divertirsi quando suonano questi pezzi, e stasera perfino i fans della prima ora più disamorati tornano a casa con gli occhi lucidi di chi ha visto davvero una meraviglia ricomporsi davanti.