Sembra ieri. E invece sono già trascorse sette primavere da quella fatidica notte in cui Mark Linkous si tolse la vita sparandosi dritto al cuore, lasciando una voragine nel panorama musicale internazionale e un incolmabile vuoto in tutti coloro che seguivano il progetto Sparklehorse sin dall’uscita di Vivadixiesubmarinetransmissionplot (1996), disco dal titolo impronunciabile destinato, già dal suo suggestivo incipit, Homecoming Queen, a penetrare sotto la pelle di molti ascoltatori.
Sin da quando David Lowery, frontman dei Camper Van Beethoven, lascia a casa di Linkous un registratore multitraccia atto ad accogliere le prime take del progetto – oltre che a segnarne un’attitudine compositiva asciutta e lo-fi negli arrangiamenti – le creazioni firmate Sparklehorse si moltiplicano e, dopo il primo seminale lavoro, trovano spazio negli album successivi: Good Morning Spider (1998), It’s a Wonderful Life (2001), Dreamt For Light Years in The Belly of a Mountain (2006) e infine il postumo Dark Night of The Soul (2010), realizzato con il produttore Danger Mouse. Poeta surreale, il linguaggio di Linkous individua un delicato punto di equilibrio tra un alternative folk roco, minimale e dolente e un rock inquieto, istintuale, punk nella vocazione: due anime che convivono in un rapporto di reciprocità e a cui solo una personalità musicale matura poteva donare coerenza, situando anzi nel rapido mutamento di paesaggi sonori una parte della propria cifra stilistica. L’originalità delle sue creazioni non tarda a richiamare l’attenzione di – tra gli altri – artisti del calibro di PJ Harvey, Tom Waits, Daniel Johnston, con cui intesserà fruttuose collaborazioni.
Non è dunque difficile comprendere come il progetto Sparklehorse abbia conquistato e conservato, anche dopo la morte del suo fautore, un posto d’onore nelle teste e nei cuori di moltissimi fan in tutto il mondo, a prescindere che questi ne abbiamo sincronicamente accompagnato la carriera, seguendolo sin dalle prime registrazioni e attendendo con ansia l’uscita di ogni nuovo brano, o che lo abbiano tardivamente scoperto grazie a uno di quegli intrecci del caso che tanta parte rivestono nel condurci verso incontri importanti – incontri che definiscono il nostro gusto, il nostro bagaglio culturale ed esperienziale e, in ultima istanza, noi stessi – con i dischi, i libri, le persone della nostra vita.
Incontri preziosi e nei confronti dei quali è naturale provare un debito di gratitudine: è questo l’approccio che anima l’ideazione e la pubblicazione, a sette anni esatti dalla morte di Mark Linkous, dell’album tributo A Room Full of Sparkles, appassionata dedica rivolta a quei brani che hanno fatto ridere, piangere e sognare le band e i cantautori che costituiscono i sedici progetti musicali coinvolti, andando a costituire una porzione importante del loro variegato background. Un progetto nato dal basso, totalmente autofinanziato e autopromosso, orgoglioso del proprio farsi in nome del Do It Yourself e con l’unico scopo di commemorare l’importantissimo ruolo svolto dalla breve parabola musicale di Linkous e di renderlo al pubblico come un dono – il disco è gratuitamente scaricabile dal profilo Bandcamp dell’etichetta – attraverso diciassette canzoni reinterpretate da artisti che fanno capo al complesso e stratificato humus della musica indipendente tanto internazionale quanto nostrana.
Sembra provenire da una stanza spoglia, senza quadri affissi alle pareti, la sognante Someday I Will Treat You Good degli Urali: un’inversione di segno che, nel negare l’originale, lo rivela profondamente. Qualcosa del genere si può dire per la King of Nails di Konge Milo (monicker di Olmo Curreli, voce dei sardi Vilma) che mette da parte chitarre distorte e ne dà un’interpretazione inedita in odore di gospel. Un approccio più fedele anima l’interpretazione di Homecoming Queen dei Tyndall, conservando l’equilibrio fragile tra incedere magniloquente e una “confidenziale” e desacralizzante esecuzione grazie all’arrangiamento giocato su sonorità come quelle del metallofono, della tastiera Casio e di un cantato “mascherato” dal megafono.
Il progetto cantautorale Beeside è invece presente con le intimissime rielaborazioni di Gold Day e It’s A Wonderful Life (entrambi da It’s A Wonderful Life) affidati alle sole voce e chitarra. Ci sono anche i WAS, con un’eterea versione di Everytime I’m With You, mentre C. L. Handerson rende omaggio aggiungendo un surplus di surreale all’atmosfera di Heart of Darkness; interessante anche la rivisitazione di Pig dei La Bestia, declinata in chiave post punk, tutta incentrata su un crescendo cauto che poi si sviluppa ed esplode.
A vestirsi invece di raffinato e sensuale minimalismo è Revenge: giocando coi cromatismi, in virtù della sontuosa voce di Daniela Pes, scivola lieve attraverso un bridge che suona più aperto e disteso grazie a reminiscenze che vanno dal trip-hop alla Portishead a certo post rock, andando a costituire uno dei gioielli dell’album insieme a See The Light (da Dreamt for Light Years in The Belly of A Mountain) di Paul Go, versione accorata e puntuale, con Paul G. Oliver a voce, chitarra e basso e Petr Stark a curare un’attenta opera di missaggio.
Ma sono molti altri i pezzi inanellati da questo lavoro di intento corale: da Weird Sisters affidata ai Synthetic Trees a Sunshine, reinterpretata dai Prom ’99, progetto nato ad hoc per questo album, da Shade And Honey di How We Got Giraffes a Hammering The Cramps, in cui la voce fa da contrappunto, senza mai invaderli, agli ampi orizzonti sonori in cui la melodia può dispiegarsi, dei Please Don’t Save Mary sino a Mountains, brano interpretato da The Spacepony. Ultima canzone, a cui spetta il delicato compito di congedarci e accompagnarci alla porta, è una carezzevole e malinconica Cow, registrata a Glasgow dai Gendo Ikari’s Soup.
Una compilation che, nelle parole di Tea Campus, fautrice e coordinatrice del progetto con la sua Oh!Dear Records, “è più una raccolta di ricordi, di sensazioni e di puro amore”. Non a caso, nel libretto digitale scaricabile assieme all’album sono state inserite le foto, volutamente “casalinghe”, di tutti quei luoghi (abitazioni, camerette, garage, studi di registrazione) che hanno visto il lavoro di chi, con dedizione autentica, si è impegnato a rievocare l’anima musicale di Mark Linkous. Insieme a essa, quel linguaggio profondamente innovativo che, lungi dall’essersi spento in quel drammatico 6 marzo 2010, ha scardinato il paesaggio del rock odierno, e forse anche il nostro modo di intenderlo, lasciandoci un’eredità preziosa e scottante da gestire.