Francesco e Claudia sono due spatriati, modelli di una generazione – quella dei nati a cavallo tra gli anni Settanta e gli Ottanta – fatta di ragazzi e ragazze che per primi sono andati in cerca di loro stessi, di ragazzi e ragazze che si sono allontanati dalle proprie radici, convinti che altrove ci fosse qualcosa, qualcosa di più grande, ad attenderli, che non hanno avuto paura di sperimentare, provare. Francesco e Claudia, persone e personaggi complessi, sulla carta vivono e bruciano, danzando sulle note di una storia onesta, una storia che spinge i suoi protagonisti fino ai loro stessi limiti. Ed è questo ciò che Mario Desiati fa in nel suo ultimo romanzo: ricerca i limiti dei suoi personaggi – ma li abbiamo davvero, dei limiti? Con Spatriati – Einaudi 2021, Desiati ha vinto il premio Strega 2022, portandoci a scoperchiare le radici di un’intera generazione.
Mario, cominciamo dalla fine. Francesco, uno dei tuoi due protagonisti, deciderà di tornare a Martina Franca mentre Claudia, l’altra dei tuoi due personaggi principali, rimarrà a Berlino. Mi sono chiesto, e dunque ti chiedo: credi che un posto in cui abitare, un luogo in cui stanziarci, una volta diventati adulti dobbiamo averlo?
No, dobbiamo no – non c’è niente che dobbiamo. Raccontando una storia, naturalmente, devi tracciare per i tuoi personaggi una traiettoria, devi dare loro una sorta di meta finale a cui giungere, ma l’epilogo di Spatriati non è un messaggio, né un insegnamento – se avessi voluto fare una cosa del genere, avrei scelto un altro mestiere. Ho cercato un finale tondo, ma aperto con Claudia e Francesco insieme nell’ultima pagina.
Hai detto che non c’è niente che dobbiamo: un concetto chiave del tuo romanzo.
Ma sì, certo. Quel che conta, a mio avviso, è non trascurare tutte le strade che possono aprirsi di fronte a noi, i vicoli che possiamo percorrere. Ed è, in effetti, ciò che fanno Francesco e Claudia; in realtà, è soprattutto lei a farlo, lui ha bisogno che le strade possibili gli vengano mostrate, indicate. Il mondo è talmente vario, le possibilità dello sguardo sono talmente tante – tendenzialmente infinite -, che l’atto di guardarci attorno lo dobbiamo a noi stessi. È per questo che le radici vanno allentate, se non addirittura tagliate. L’evoluzione dello sguardo, secondo me, è fondamentale.
Credi che l’evoluzione dello sguardo di cui parli vada di pari passo con un’evoluzione identitaria – che l’identità, insomma, cambi allo stesso modo?
Be’, l’identità è uno dei temi del libro. Si tratta di un argomento rischiosissimo, specie perché diventa subito qualcosa dalle connotazioni politiche – tanti regimi totalitari sono nati sul tema dell’identità, e bisogna sempre star attenti alle sfumature. Per tornare a Spatriati a me piace pensare all’identità come a un viaggio. L’identità è fluida: siamo esposti alle esperienze che facciamo, ai libri che leggiamo, ai film che guardiamo, alle persone che amiamo, a quelle che perdiamo, ai lutti e ai traslochi e alle gioie e alle tristezze. Ogni esperienza è destinata a cambiarci, in qualche modo – è destinata a cambiare la nostra identità, appunto. Ognuno di noi, poi, può usare questa fluidità per allargare il proprio sguardo, ampliare i propri orizzonti, che è quel che cercano di fare i miei protagonisti – oltre che ciò che tento di fare io stesso nella mia vita.
Cosa intendi? Cos’è che tenti di fare?
Tento di prenderle, queste esperienze, e di inglobarle nel mio essere, di farle mie.
Quali sono le esperienze che ti cambiano maggiormente?
Farei riferimento alla letteratura, se non ti dispiace. Quand’ero ragazzino mi piaceva leggere i libri in cui mi riconoscevo, quelli in cui succedevano delle cose al protagonista che avrei voluto succedessero a me, in cui mi sentivo rappresentato, a volte consolato o fomentato. Solo da più grande, poi, ho capito che, in realtà, i libri che hanno potenziato maggiormente il mio sguardo, che hanno ampliato di più i miei orizzonti, erano quelli distanti dal mio mondo, dagli spazi in cui sono cresciuto e dai miei gusti.
In pratica, ciò che ti ha aiutato di più a crescere, a rendere più ampio il tuo sguardo, è quel che era più lontano da te. È così?
Sì. E credo sia naturale: per crescere dobbiamo necessariamente passare per ciò che non sappiamo.
Non credi, dunque, siano le rivoluzioni più grandi quelle che portano ai maggiori cambiamenti? Pensi ci si possa modificare, e in modo radicale, pure partendo da fatti minori?
Non esistono modificazioni minori o maggiori: le rivoluzioni personali non hanno una carta d’identità e tutto può succedere a qualunque età. Spesso sentiamo dire che una determinata cosa puoi farla solo a venti o trenta o quarant’anni, o che il nuovo puoi scoprirlo solo fino all’adolescenza. Io credo invece che non ci sia un tempo per le rivoluzioni personali, dipende tutto da noi. È sufficiente tenersi aperti al mondo, e non spegnere mai il motore della curiosità.
Rimanendo sulla fluidità, e accostandoci adesso alla sessualità. La sessualità fluida di Francesco si inceppa continuamente, si incaglia in ostacoli che, soprattutto da più giovane, hanno molto a che fare con la cultura patriarcale in cui è nato e cresciuto. Come liberarsi da queste catene?
Eh, questo è un grande tema. A Francesco piacciono sia gli uomini, sia le donne. Pure se secondo me preferisce gli uomini, visto che, a conti fatti, l’unica di cui si innamori realmente è Claudia – ragazza che si veste da maschio e che ha gusti particolari, dettagli che in qualche modo la rendono una persona senza sesso. E in una comunità come quella in cui è nato e cresciuto, dove a dominare sono concezioni ferree della sessualità, una persona come Francesco, che non ha un’identità sessuale ben definita, ha vita difficile. Meglio: in comunità come queste persone come Francesco faticano di più a mettere in atto le proprie rivoluzioni. Solo a Berlino riesce ad ampliare il suo sguardo, a viversi con naturalezza.
Parli di Andria, il ragazzo con cui ha una storia a Berlino?
Parlo di lui, sì, ma anche della stessa Claudia: con lei Francesco vive un amore spatriato. Un amore che può pure sembrare privo di senso, è sufficiente pensare che i due hanno pochi momenti d’intimità, ma che lo rende libero.
Di Andria che mi dici?
Su Andria avevo scritto tanto, in realtà. Lui è il grande amore di Francesco, e nella prima stesura c’era una parte molto lunga su di lui, che lo vedeva protagonista. Nelle pagine che lo riguardavano, Andria andava in Siria come Foreign Fighter – si diceva ci fosse una brigata LGBTQ – e raccontava la propria storia, per poi, alla fine, tornare da Francesco.
Perché hai deciso di tagliarla, questa parte?
Perché avrei spostato il focus su Andria e non mi andava: i protagonisti volevo rimanessero Francesco e Claudia.
Però, ascoltandoti, sento che provi una certa affezione per Andria.
Sì, certo. Sono molto affezionato a lui.
Quant’era lunga questa parte di cui parli?
Parecchio, circa sessanta pagine. Il punto è anche che quando scrivi una storia devi, per forza di cose, decidere cosa raccontare e cosa no: la scrittura è anche un’alternanza tra ciò che metti sulla pagina e ciò che lasci non detto, tra quel che c’è e il vuoto – e i vuoti spesso sono più importanti dell’inchiostro. Andria è importante, sia per la storia sia per Francesco, e l’ho affidato al vuoto.
Perché il vuoto è tanto importante?
Per molte ragioni. Una tra tutte: ti permette di dare valore al pieno. Non l’ho deciso a cuor leggero, è ovvio, ma dopo lunghe chiacchierate con la mia editor in Einaudi – Angela Rastelli, che non ringrazio mai abbastanza per il lavoro fatto insieme – ho deciso fosse meglio così.
Torniamo a Francesco e Claudia, e al rapporto che hanno. Ho sempre pensato che il desiderio, inesaudito e protratto nel tempo, si tramuti in ossessione. Mi chiedo quindi se Francesco sia, in realtà, solo ossessionato da Claudia.
No, credo di no. In questo romanzo volevo raccontare un amore davvero spatriato, senza risoluzione. E credo che il loro sia un sentimento del genere.
Con l’ossessione, invece, che rapporto hai?
Eh, per anni sono stato un grande sostenitore dell’ossessione. Ancora oggi, tra l’altro, credo sia molto importante in letteratura – ti permette di esaltare il fulcro di una storia, aiuta a metterla meglio a fuoco. Parlo dell’ossessione per un luogo, un carattere, un’azione. Da giovane ero così attratto da questo tipo di pensiero, quello ossessivo, da scriverci addirittura un intero romanzo, Il paese delle spose infelici. Sui due protagonisti, Annalisa e Veleno, ho scaricato tutte le mie ossessioni. Solo da adulto, oggi, mi dico che l’ossessione può anche essere pericolosa. Tenere sempre vivi e vigili i propri demoni non è qualcosa da fare a cuor leggero, secondo me.
Di che pasta sono fatti i tuoi demoni?
Della pasta del futuro: sono fatti di tutto quello che non riesco ad afferrare.
Ma il tuo motto da ragazzino non era ama i tuoi demoni? Ricordo qualcosa del genere.
Eh sì, lo era. E li amo ancora, certo, solo che oggi lo faccio con giudizio, in modo coscienzioso.
Parliamo del libro in sé, scostandoci dai tuoi personaggi e dalla tua storia. Il romanzo, vincendo il premio Strega, ha ricevuto tanta visibilità, immagino. Com’è andata?
Bene, direi. Sono contento, oltre che grato per tutto il lavoro fatto dalla mia casa editrice. E poi grazie allo Strega ho avuto l’occasione di capitare tra le mani anche di lettori che altrimenti non mi avrebbero letto, ed è stata un’esperienza interessante, istruttiva.
Istruttiva?
Ho ricevuto molti messaggi – la maggior parte sui social, tant’è che ho preferito congelare i miei account. Molti erano belli, altri non tanto.
I lettori ti scrivevano per dirti che il libro a loro non era piaciuto?
Esatto, e alcuni erano proprio incazzati. Ma lo capisco, figurati: è un romanzo che divide perché, in effetti, i temi possono anche respingere, o spaventare.
Chi era a scriverti?
Molti uomini – erano loro gli incazzati – che ci tenevano a dirmi che questi maschi deboli – parlavano di Francesco, chiaramente – sono fastidiosi in letteratura.
È successo solo via social?
No, è capitato anche a un paio di presentazioni. Alcuni erano indignati per le pagine più erotiche del romanzo – a Roma un signore ha detto che il libro non lo si poteva leggere, tanto era spinto.
A cosa credi sia dovuta questa protesta?
Non saprei dire con certezza, probabilmente c’è anche un po’ di paura. Che un maschio che sembra eterosessuale – parlo di Francesco – finalmente faccia venir fuori i propri demoni, raccontando le sue inclinazioni e realizzandosi in pienezza con un altro uomo, viene visto come scandaloso e, forse, pure spaventoso. Io penso che la cosa scandalosa, piuttosto, sia che questo pensiero esista ancora nel 2022.
Parliamo dello Strega, adesso. È vero che all’inizio non volevi partecipare?
È vero, sì. Tanti miei amici hanno partecipato, io stesso lo avevo già fatto, ed è molto faticoso. E poi, quando sono stato proposto, stavo già scrivendo, ero già impegnato nel progetto del nuovo romanzo.
Cos’è cambiato?
Alcuni miei amici hanno cominciato a parlarmene, a dirmi che avrei dovuto partecipare, secondo loro – lo stesso Alessandro Piperno, che mi ha proposto e a cui sono molto grato, non faceva che ripetermi che avrei dovuto farlo. Ne ho discusso con l’editore prima ovviamente.
Be’, è andata benissimo, direi.
E non solo per il risultato, ma anche perché ho avuto dei compagni di viaggio stupendi. Sono contentissimo sia di aver condiviso quest’avventura con Veronica Raimo – pubblicata da Einaudi pure lei – sia di aver conosciuto autori e autrici eccezionali. Alcuni dei libri della dozzina erano bellissimi.
Avete legato? Qual era l’atmosfera?
Sì, abbiamo legato tanto, certi li sento ancora. E c’era un’atmosfera rilassata. Ci facevamo scherzi tra di noi, ridevamo, eravamo felici. Il clima era allegro, leggero. Ho beccato un anno fortunato, credo: di tensioni non ce n’erano.
C’è un momento dello Strega a cui sei particolarmente legato?
La tappa di Benevento, in cui è stata proclamata la settina. È stato un bel momento: eravamo ancora tutti e dodici assieme e nel backstage prima della votazione c’era una specie di fratellanza e sorellanza molto forte. Eravamo molto vicini, ed è stato un momento intenso per tutti e dodici.
Mario, un’ultima domanda. Hai sessant’anni: dove sei, con chi sei, che fai?
Sono una Magnolia. Un albero di Magnolia.