Crescita e paura. Crescita è paura? | Intervista a Marco Peano

Un paesino immerso nella neve, lontano da ogni forma di vita che non siano i propri abitanti – Lanzo Torinese, così si chiama. Due ragazzini, non più bambini ma non ancora adulti, che si affacciano sul mondo con occhi curiosi e cuore al galoppo – Sonia e Teo, amici per contingenze su cui non hanno controllo. Un incidente, accadimento mostruoso che fa piombare su questo nugolo sparuto di anime la minaccia della fine di tutto. Gli elementi del nuovo romanzo di Marco Peano, Morsi – Bompiani 2022, sono tutti qui e, utilizzati in modo magistrale, danno vita a una storia incredibile. Una storia sul coraggio e sull’amicizia, sulla crescita e sulla paura, su quanto sia difficile fare ciò che è giusto invece di ciò che è facile.

Lanzo Torinese ci riporta alla Città di K. di Kristof. Sonia e Teo ai ragazzini protagonisti dei romanzi di Ammaniti. Le atmosfere all’aria tesa delle storie di Stephen King – c’è la neve di Shining, l’infanzia come momento di grande coraggio di It. Un romanzo atipico e bellissimo, questo di Peano, un unicum nel panorama contemporaneo italiano di cui avevamo un forte bisogno.


In prima battuta, i protagonisti del tuo romanzo potrebbero sembrare due, Sonia e Teo, ma, a conti fatti, Lanzo Torinese ha un ruolo centrale. Me ne parli?

A Lanzo Torinese sono particolarmente legato, pure se ormai dei posti della mia infanzia non rimane molto. Lì c’è la casa dei miei nonni materni che, in fondo, è quella in cui vive nonna Ada, la nonna di Sonia, dove i genitori della ragazzina la parcheggiano quando devono cercare di rimettere insieme i cocci del matrimonio. Il paesino è a una quarantina di chilometri da Torino, in mezzo alle montagne, ed è uno di quei posti in cui il tempo non sembrerebbe capace di entrare. Per questo, e per altri motivi, per me Lanzo Torinese rappresenta la provincia: quel luogo in cui le cose accadono in modo diverso, dove tutto ha una risonanza maggiore. L e meccaniche dell’umano brillano di una luce tutta loro, in provincia. E a me interessava soprattutto mettere in evidenza questo tipo di funzionamento.

Quindi è della provincia che volevi parlare.

Tra le altre cose. Da un punto di vista culturale e sociale, la provincia mi è sempre parsa interessante.

Sonia e Teo, invece? Da dove vengono, loro?

È partito tutto da un’immagine. Quella di una ragazzina che giocava da sola nel cortile innevato della casa dei miei nonni materni – a Lanzo Torinese, appunto. Da quel fotogramma ho iniziato a chiedermi perché fosse lì e, soprattutto, quale fosse la minaccia che incombeva su di lei.

C’era una minaccia sulla sua testa in questa immagine che vedevi?

Sì, c’era fin dall’inizio e mi ha accompagnato lungo tutta la scrittura.

Quando e dove l’hai scritto, Morsi?

Ho cominciato nell’agosto del 2018 in Puglia e gran parte della stesura, poi, è avvenuta a Lisbona – città importante per me, che amo molto. Insomma, ero lontanissimo sia dai posti che racconto, sia da quelle atmosfere. L’ho finito a inizio 2020, quando della pandemia non si parlava neanche – cosa che fa un certo effetto, se si considera che ci sono dei parallelismi forti tra il mio libro e quanto è successo e sta, purtroppo, succedendo.

E questa minaccia di cui parli ti ha accompagnato dalla Puglia a Lisbona?

Sì, è arrivata immediatamente e mi ha accompagnato lungo tutto il tragitto di scrittura. Il romanzo, in effetti, gira attorno a questa minaccia. Però in modo concreto si è materializzata solo in corso d’opera.

Non ti era chiaro, all’inizio, di cosa si trattasse? L’avvertivi e basta?

Dapprincipio, mi dicevo solo che volevo raccontare una storia di crescita e di paura – d’altra parte, in questa immagine c’erano una ragazzina e una minaccia, era naturale seguire questi filoni. L’incidente, quello da cui la storia inizia sul serio, in testa l’ho avuto chiaro solo da un certo punto in poi.

Cioè quando?

Quando ho realizzato che la maggior parte dei pericoli nelle storie di paura che avevo tanto amato da ragazzino venivano dall’esterno. Io volevo che la mia minaccia avesse origine dall’interno. Mi spiego. Pensa al nostro stile di vita. Siamo sempre a guardarci o con il capo chino – spesso sul cellulare o sul computer. Siamo sempre piegati su noi stessi, no? Quindi mi sono detto: è se fosse da questo nostro delirio narcisistico che proviene la minaccia?

Chiedendoti quale fosse la minaccia che incombeva, non ti sei chiesto chi fosse lei, la ragazzina?

Sì, certo. E mi sono reso conto che in questa ragazzina c’era tantissimo di me. Anch’io, come dicevo, ho passato dei lunghi periodi della mia infanzia a Lanzo Torinese. Anch’io mi addormentavo cullato dal rumore dell’acqua che cadeva sulle pale del mulino vicino casa. Anch’io prendevo il latte da una cascina in paese e, tornando, sentivo il tepore della bottiglia di vetro stretta al petto.

Teo, dunque, è arrivato per ultimo?

In un certo senso, sì. Sempre a proposito della provincia, un altro aspetto che volevo raccontare è quel tipo di polarità, molto vicina alla provincia, che ha a che fare con la voglia di restare e quella di andar via: Teo e Sonia.

Pensi che la provincia la si possa effettivamente abbandonare?

Nel romanzo cito una frase che è stata riportata da Stephen King nel suo saggio su letteratura e cinema delle storie di paura. Dice: “puoi togliere una ragazza alla provincia ma non puoi togliere la provincia dalla ragazza”.

In Niente di vero, di Veronica Raimo, la Veronica personaggia si domanda perché la gran parte dei romanzi italiani sia sui legami famigliari. Nel tuo questi legami, in effetti, sono presenti ma sembra con la sola funzione di essere scardinati. È così?

Non saprei. In Morsi volevo raccontare di Sonia e Teo e in qualche modo volevo togliermi l’impiccio degli adulti. Fare un po’ come succede nei Muppets, in cui dei grandi si vedono solo le gambe, quelle e nient’altro – esistono, ma sullo sfondo. Di fatto, gli adulti in questo libro sono figure fantasmatiche. La nonna, la più presente, c’è ma non si sente. È una cosa che credo nessuno abbia notato, e questa è la prima intervista in cui lo dico: la nonna nel libro non parla in modo diretto. Tra lei e la nipote non c’è mai uno scambio di battute, è Sonia che ci riporta quello che lei, la nonna, dice.

A proposito di nonna Ada, e della sua figura. Nel romanzo il matriarcato ha un certo ruolo.

Sì, il sapere passa attraverso le donne: da nonna Ada, alla figlia e alla nipote – in futuro, poi, ci sarà un’altra nonna che parla, che racconta la storia a un’altra nipote. È un sapere, al femminile, che passa per il conflitto famigliare e che nasce dal fatto che gli adulti non siano esempi eccelsi del ruolo che ricoprono. Prendi nonna Ada. Vive la presenza della nipote in casa come un’incombenza, un impegno che non avrebbe voluto prendere.

Marco Peano

Restiamo a Lanzo Torinese. Che ricordi ne hai? Com’è stato ambientare una storia tanto cruda, e per certi versi orrenda, in un posto a cui immagino tu sia così affezionato?

Strano, ma anche importante. Oggi ho l’impressione che in quel posto dovessi tornarci e che dovessi abitarlo di nuovo con l’età che avevo quando ci passavo quei lunghi periodi – tant’è che ho scritto un romanzo ambientato lì. Mi torna in mente un’intervista fatta a Niccolò Ammaniti in occasione della pubblicazione di Io non ho paura. In breve, raccontò che per scrivere di questo ragazzino intrappolato in un buco sotto terra aveva fatto un esercizio di memoria così da riacciuffare le sensazioni e le paure che aveva lui a quell’età. Aveva paura anche del buio, come quasi tutti i bambini, e, scrivendo questo romanzo, si è ricordato che da piccolo quando stava steso a letto e non riusciva a prendere sonno, per la paura dei mostri che si aggiravano nel buio, immaginava che gli si aprisse la pancia e che tutti quei mostri e pericoli venissero risucchiati dentro, così da liberarlo. Con Io non ho paura, forse, Ammaniti ha affrontato quel periodo lì. Con Morsi, mi viene da pensare, io devo aver affrontato le paure che in quel periodo mi pervadevano a Lanzo Torinese.

Una tra tutte?

Quella di rimanere intrappolato lì, come succede a Sonia e Teo.

Il tuo romanzo è sulla crescita e sulla paura. Crescita e paura. Crescita è paura?

Sì, sono strettamente connesse per me. In questo libro ci sono due ragazzini costretti a crescere molto più in fretta di quanto sarebbe naturale – devono, proprio devono farlo per affrontare gli eventi che si parano loro davanti. E in questo, nel crescere così rapidamente, improvvisamente, credo ci sia un ché di spaventoso. Ma d’altra parte, e me ne sono reso conto anni fa con la mia analista, per me il crescere è fortemente collegato a una sensazione di paura.

Perché?

Non so, forse perché crescere significa soprattutto cambiare, e in maniera definitiva. E per uno che è cresciuto in provincia, dove ogni modificazione è qualcosa di allarmante, vedere che il mondo attorno a noi, e noi stessi, cambia dev’essere difficile – e spaventoso, appunto. E poi, penso che la crescita sia la parte più strana della vita. Avviene una metamorfosi su cui non abbiamo alcun controllo, crescono i peli e cambia la voce e ti fanno male alcune parti del corpo: ti senti posseduto da mutamenti di cui non capisci le ragioni e le direzioni. Allo stesso tempo, e forse questa è la parte più atroce, prendi consapevolezza che, volente o nolente, ti stai apprestando ad abbandonare l’unica cosa che conosci: l’infanzia. È un cambiamento da cui non si torna indietro, lasci il tepore di un’età, nella maggior parte dei casi felice, per dirigerti verso l’ignoto.

Per il giovane Peano crescere dev’essere stato tosto.

[Ride, ndr] Più che un’esperienza tosta, crescere per me è stato tutto un gioco di resistenze. Era come se avessi i piedi piantati verso l’età adulta. Era come se rimandassi quella nuova stagione, che sapevo sarebbe arrivata. Era come se dicessi, a me stesso e al mondo, che c’era ancora tempo, che non dovevo crescere per forza quando il corpo e la realtà avevano comandato. Ecco, per il giovane Peano crescere è stato questo: rimandare ancora un altro po’. È l’ultima età in cui possiamo sentirci immortali, quella dell’infanzia. E penso che in pochi l’abbandonino a cuor leggero.

Parli della scrittura come di uno strumento attraverso cui elaborare la realtà che hai attorno – e, forse, anche te stesso. È qualcosa che fai scientemente, in fase di scrittura, o si tratta di una consapevolezza che arriva dopo?

La scrittura che è necessaria ragiona in termini di esperienza. Mentre mia madre se ne stava andando, L’invenzione della madre l’avrei pubblicato dieci anni dopo la sua morte e l’avrei iniziato dopo tre, avevo già capito che quello che stavo attraversando non l’avrei potuto elaborare in alcun modo se non provando a utilizzare la scrittura. E penso serva a questo, la scrittura: a mettere ordine nel caos del mondo.

Dunque, scrivi per esorcizzare delle paure, penso a Morsi. E per elaborare dei traumi, penso a L’invenzione della madre. Cosa succede a queste paure e a questi traumi, una volta fermati sulla pagina?

Questa domanda mi fa tornare in mente una gran bella lezione di scrittura tenuta da Michele Mari alla scuola di Giulio Mozzi. In breve, disse che credeva nei mostri che aveva raccontato perché, una volta nero su bianco, erano diventati realtà. Ecco, se scrivo di qualcosa quel qualcosa diventa reale e mi risulta più semplice scenderci a patti.

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