Quando abbiamo smesso di capire il mondo di Benjamín Labatut è uno dei libri più affascinanti e disturbanti apparsi negli ultimi anni. Una lettura compulsiva che dilata la percezione della realtà e scava tra inafferrabili sotterranei, dove si muovono le misteriose e caotiche particelle osservate con meraviglia dai fisici a inizio Novecento. Con il nuovo libro Maniac – Adelphi, traduzione di Norman Gobetti – Labatut continua la sua personalissima ricerca narrativa, e ancora una volta compie una catabasi tra i paradossi della scienza e della rivoluzione quantistica per illuminare il lettore alla consapevolezza del caos che domina il mondo.
“Non riusciva più a individuare nell’universo alcun tipo di ordine razionale, alcuna legge naturale, alcuno schema ricorrente, solo un vasto, smisurato mondo in espansione permeato dal caos, infestato dall’insensatezza e privo di qualsiasi disegno intelligente.” – Maniac
Anche se in libreria può capitare di trovare Maniac tra i saggi, Benjamín Labatut è uno scrittore. La sua forza sta nell’intensità narrativa. I suoi scienziati sono mostri wilcockiani posseduti da orizzonti inconosciuti e schizoidi. Labatut mette su carta una costellazione di storie e voci sulla falsariga dei letterati nazisti in America di Roberto Bolaño, con la differenza che János Von Neumann e Paul Ehrenfest sono realmente esistiti. Per questa ragione dietro il lavoro di Labatut c’è una accurata ricerca, fonti storiche come Turing’s Cathedral di George Dyson. Dunque: da una parte c’è la realtà, dall’altra l’ordito della scrittura che ci tesse sopra. L’effetto è molto potente.
I posseduti di Labatut sono cercatori di segreti, persecutori che buttano la testa nei sotterranei quantistici per scavare la realtà, possibilmente piegarla alla propria volontà sfidando gli dèi e il caso. Rosi da forze sconosciute, si assecondano alla propria passione scientifica o epistemologica perché non riescono a vivere altrimenti. A tratti troppo ambiziosi per fermarsi, vanno avanti maniacali anche di fronte ai grandi dilemmi morali – la bomba atomica, l’autodistruzione, l’indefinita espansione dell’intelligenza della macchina. Così il matematico Von Neumann somiglia a un antieroe senza scrupoli, perfetto prototipo dell’uomo di inizio Novecento emerso nell’atmosfera delle terribili guerre che azionarono un perverso meccanismo di corsa agli armamenti, e operazioni segrete che si servirono delle menti migliori della scienza per costruire mostruosi ordigni di distruzione di massa.
Maniac è soprattutto la storia di János Von Neumann raccontata polifonicamente attraverso le voci di colleghi, amici, nemici, parenti. Von Neumann è il ragazzo prodigio che voleva oltrepassare i limiti della matematica e non si fermò quando incontrò sulla sua strada i paradossi di incompletezza di Kurt Gödel. Labatut ci lascia seguire il matematico ebreo ungherese sin da giovanissimo, mentre prova ad aggiornare la matematica con le scoperte della fisica quantistica, al culmine delle sue ambizioni: “era convinto di poter trovare le basi matematiche della realtà, un territorio scevro di contraddizioni e paradossi”. Costretto a emigrare negli Stati Uniti per scampare alla persecuzione nazista, in America Jancsi diventa John e viene reclutato dal progetto Manhattan per la costruzione della bomba atomica. Fa parte del piccolo clan dei “cavalieri ungheresi dell’apocalisse”. Ma è con il calcolatore Maniac che Von Neumann raggiunge la sintesi della sua personale ossessione.
Se l’immagine di Oppenheimer è quella del Prometeo tormentato per aver portato il fuoco agli uomini, il ritratto di von Neumann che viene fuori dal coro di voci di Maniac, è quello di un geniale calcolatore che segue l’impulso della sua smisurata ambizione. Finanziato dalle forze armate a cui aveva promesso di facilitare i calcoli per costruire la bomba all’idrogeno, Von Neumann mette a punto la sua macchina, il Mathematical Analyzer, Numerical Integrator And Computer. Sogna di controllare il clima con previsioni matematiche, rubacchia idee a giovani invasati scienziati, condanna la moglie Klára Dán a un’esistenza nel dimenticatoio.
“Se noi fisici avevamo già scoperto il peccato, con la bomba all’idrogeno conoscemmo la dannazione”, si fa sentire la voce di Richard Feynman in uno dei passaggi più ispirati di Maniac. Dalla potente macchina di calcolo di von Neumann verranno fuori i terrificanti test della bomba che cancellò dalle mappe l’isola di Elugelab, le fantasmagorie dell’intelligenza artificiale, e la vagheggiata possibilità di replicare la vita biologica in un universo artificiale. Von Neumann era abbagliato dall’idea di unificare biologia, tecnologia e informatica, ma morirà prima di arrivare alla sintesi di una teoria degli automi autoreplicanti. Con la morte del matematico ungherese comincia l’ultima parte di Maniac – le voci si ammutoliscono, il ritmo della scrittura si fa piano, il racconto traballa seguendo la storia del campione di go Lee Sedol sconfitto dalla macchina AlphaGo. Sappiamo quello che comporta la sconfitta di Sedol. Ma non è abbastanza per abbandonare il gioco.
Labatut parla dei suoi libri come opere di finzione basate sulla realtà. La sua scrittura è eccitante. I suoi scienziati sono mezzi profeti visionari travolti da deliri metafisici, in alcuni casi portatori di cataclismi e morte, per altri versi menti estorte al reale per schizzare oltre le porte della percezione, segugi dei primi vagiti degli antichi filosofi che si chiedevano perché siamo al mondo. In questo senso Labatut svela molto di più. Ossessionato dalle energie del caos, e dalle forze oscure e inconsce che si sono insinuate nella visione scientifica, lo scrittore cileno traccia una via letteraria per cogliere alcune implicazioni filosofiche delle straordinarie scoperte di inizio Novecento. La crisi della verità. I paradossi delle particelle sfuggenti. Ciò che si nasconde allo sguardo. Lo spirito del vicino Oriente. Le energie devastatrici della fissione nucleare. I tormenti e le ombre che lambiscono una mente inquieta.
L’interesse narrativo per questo campo aperto si fa sempre più stimolante. In Stella Maris, l’ultimo romanzo di Cormac McCarthy, canto del cigno dello scrittore americano, questi discorsi arrivano a toccare vette devastanti in forma di cristallina narrativa. Alicia Western è una brillante matematica perseguitata da visioni, nel corso di un magistrale dialogo con il dottor Cohen, mette in discussione il linguaggio umano come l’invasione di una forma parassitaria, evoca la lotta dell’inconscio per venire allo scoperto, processi dimenticati che tornano sotto forma di sogni o doni, e che possono tradursi in matematica o musica. Perché la gente non si interessa di più alla scienza, le domanda il dottor Cohen. La riposta di Alicia è lucida e lapidaria: Le fa paura. Spesso perfino le persone colte preferiscono la follia. Alieni, Velikovskij. Dischi volanti.
Nel suo dittico Benjamín Labatut affronta la scienza a viso aperto senza ricorrere allo sci-fi. I suoi alieni sono i marziani dell’apocalisse. Sarebbe stato più facile, ma non è questo che vuole lo scrittore cileno. Proprio come i suoi posseduti, Labatut sente l’urgenza di scavare tra i precipizi del caos per portare alla luce gli effetti della sua ricerca. In questo caso si tratta di estrarre parole. Se siano o meno abbastanza le parole o il linguaggio per arrivare al cuore del libro, se vada fatto uno sforzo inconscio, è una domanda aperta per i lettori. Il genere di domande che fa felice chi legge.