I’ve said a lot of terrible things to you. My heart was broken and I know yours is broken too
Queste le parole rivolte dall’ex moglie Randi (Michelle Williams) a Lee Chandler (Casey Affleck) in uno dei passi più espliciti del film, in cui il dolore si permette di esplodere e, per la prima volta, riconoscersi.
Manchester by the Sea, terzo lungometraggio di Kenneth Lonergan, mette in scena un dramma familiare: Lee è solo, un bidello di Boston, un idraulico all’occorrenza, che si muove da una mansione all’altra, tra diverbi e commenti poco nascosti al suo indirizzo, con una freddezza robotica di chi non ha più niente da perdere. E la domanda, davanti a un uomo all’apparenza eroso così profondamente da essere ridotto a guscio per lo più inerte, giunge lenta ma spontanea: Perché è diventato così?
Poi, in un giorno come un altro, in una routine apparentemente senza scampo, Lee viene richiamato a Manchester da una telefonata che gli annuncia la morte del fratello maggiore Joe, unico legame rimastogli insieme al nipote Patrick, di cui viene nominato tutore.
È la Manchester del titolo, piccola cittadina del Massachuessets, by the Sea, tra pescherecci, mari increspati e casette dai colori freddi che Lonergan pone a palcoscenico minimale di un rapporto umano, quello tra zio e nipote, costretto ad adattarsi agli avvenimenti, al confronto reciproco, all’inadeguatezza dei ruoli e dei tentativi di convivere con un dolore nuovo che grava sul proprio spirito, sempre, e ne desta altri, ai nostri occhi inizialmente non concessi, ma pur sempre lividi. Con il flusso dell’acqua di Manchester si rivela una pena ben più intima: i richiami della cittadina, costruita in un’ottica di sottrazione in cui ciò che davvero importa è ciò che risveglia, mostrano quanto l’indolenza di Lee sia così tanto in contrasto con dinamiche interiori potenti come onde contro le quali non si può lottare, figuriamoci sperare di vincere.
Lonergan armonizza la struttura narrativa del film con una serie di flashback, ritorni al passato, confusioni tra ciò che è stato e ciò che è; ciò che sarà quasi non importa perché i ricordi, a volte inaspettati, del protagonista ci segnalano l’impossibilità di porre pace a un dolore che nato una volta, non muore mai e si ripercuote anche nelle azioni più semplici.
La sceneggiatura, qui nelle mani del regista stesso, si distende su questo andamento scostante, indefinito; in questo andirivieni di tempi distesi ed esplosioni di rabbia, nevrotiche e improvvise dei personaggi che rompono le nocche contro il lutto che aleggia come nuvola e si fa muro quando si prova a distruggerlo; un cancro inestirpabile contro cui si può solo giocare con un’ironia triste, un sdrammatizzare malinconico di pochi secondi; un piede che va avanti e torna subito indietro.
Ed è proprio in questi passi mancati che Manchester by the Sea, però, a volte, inciampa: nella sua politica di riduzione all’essenziale, del mostrare altro se non il dolore; del lasciare allo spettatore la possibilità di seguire i personaggi senza risvolti clamorosi e di trovare risposte solo qualora si voglia trovarne; di lasciar vivere tutte le sensazioni in una scrittura che vuole esser lenta e naturale come l’incedere della vita in un piccolo borgo spoglio, il primo e grande errore è un uso della musica spropositato, caricato e quasi caricaturale. Il vivere concreto e autentico di una sofferenza così improvvisamente arricchito da una sofisticheria di poco gusto in quel contesto, tanto da scadere nel melodramma. Un Adagio di Albinoni che diventa cliché, un orpello di cui non c’era davvero bisogno. Perché, in fondo, è tutto già nelle espressioni dei personaggi e, in particolar modo, di un notevole Casey Affleck, nella sua interpretazione migliore valevole anche della candidatura agli Oscar come Miglior Attore Protagonista. Fratello del più famoso Ben, qui è catalizzatore e padrone di tutto il film, nella sua presenza-assenza addensata da gesti trattenuti e mozzati, capaci di rendere reale un tormento perenne molto più degli spasmi incontrollati di collera contro la prima cosa utile a divenire bersaglio.
Manchester by the Sea vuol fare del dolore protagonista e ci riesce, pur con qualche riserva. Nel suo scorrere si ha, infatti, a tratti la sensazione di una frenata, di una perdita di presa; di un voler essere essenziale col rischio realistico di risultare tirato, troppo tirato; valido ma incapace di osare.
Forse il brusio della settimana che lo issa a nuovo capolavoro dell’anno non è così poi giustificato da ciò che il film è, ma sicuramente Manchester by the Sea, con andatura furtiva, si sta avvicinando agli Oscar ormai prossimi, in cui è nominato in ben cinque e grandi categorie (Film, Regia, Attore protagonista, Attore non protagonista e Sceneggiatura originale), con la testa alta di chi sa di potersi permettere di strappare qualche statuetta, anche meritatamente.