L’autenticità di Malcolm & Marie

Il progetto di Malcolm & Marie nasce da un’idea di Zendaya che, dopo la soppressione della serie tv HBO Euphoria a causa dell’epidemia di Covid-19, ha chiesto al regista Sam Levinson di realizzare un film nel bel mezzo della quarantena. In neanche una settimana Levinson stende un copione dal tocco autobiografico, che riflette la contemporaneità e indaga i misteri dell’amore e dell’arte. I protagonisti del titolo (rispettivamente John David Washington e Zendaya) sono una coppia giovane e glamour di Los Angeles; lui è un regista che si sta facendo largo nello star-system a suon di successi filmici, lei è la sua musa con un passato da attrice fallita tossicodipendente. Entrambi di ritorno dalla clamorosa presentazione dell’ultimo film di Malcolm, finiranno per mettersi a nudo e a confrontarsi direttamente con gli spettri del masochismo e del narcisismo che infettano la loro relazione.

Malcolm & Marie andrebbe gustato già solo per le condizioni particolari in cui è stato realizzato, ma ciò ne sminuirebbe le reali qualità da kammerspiel ottimamente diretto e interpretato. Sebbene la storia proposta  non aggiunga nulla di nuovo ai temi da essa avanzati, l’impasto dialogico s’interessa ai fluidi dualismi dei protagonisti, perfettamente complementari pur essendo ben distinti dai rispettivi punti di vista. Le lunghe sessioni di monologo germogliano dall’ottima intesa degli interpreti, venendo per altro rafforzate dall’intelligente supporto estetico e musicale. A fronte della staticità di location e azioni, Levinson gioca con i movimenti di macchina spericolati, mentre il patinato bianco e nero in stile spot Dior acuisce i mordaci contrasti tra il tumulto interiore dei personaggi e lo sfarzo degli interni.

Zendaya e John David Washington in Malcolm & Marie

L’aspetto più interessante di Malcolm & Marie è la sua autenticità (termine che, per altro, ricorrerà molto all’interno dei battibecchi): la relazione principale è vera, vicina a esperienze che potremmo aver provato tutti noi, dove il sentirsi sminuiti o dati per scontati divengono strumenti di disgregazione. Il film di Levinson rimarca l’importanza della tensione verso il miglioramento (personale e di coppia), ricordando che non c’è errore più vigliacco del voltare le spalle ai problemi, perché in amore c’è molto di più dello stare insieme e del sesso. La semplicità delle argomentazioni, forse ovvia ma per nulla banale, viene cesellata da una precisione geometrica nella scrittura che rielabora la realtà attraverso il filtro d’autore. In uno dei suoi sfoghi, difatti, Malcolm vomita bile sulla spesso poco lungimirante critica cinematografica e sottolinea la crucialità del punto di vista all’interno dell’arte: il cinema non per forza deve intrecciarsi alla politica, ma in primo luogo è il mezzo per evocare il vero delle cose, per estetizzare l’emotività.

Un ottimo film teorico da soppesare senza preconcetti, né capolavoro né spazzatura, un gioco al massacro forse più verboso e meno raffinato di Carnage in ogni caso messo in scena con la giusta carica espressiva. Le mille ambizioni contenutistiche e tecniche (si perde il conto dei piani-sequenza in quasi due ore di proiezione) potrebbero apparire addirittura arroganti a certo pubblico, ma la purezza dell’amore di Levinson per il cinema è innegabile e trascende qualsiasi riserva.

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