Per gran parte della mia adolescenza rigorosamente anni Novanta, gli Ottanta hanno continuato a inseguirmi nelle maniche a sbuffo compulsive di una cugina più grande di me. Sbuffi sfrenati, voluttuosi, a margine di spalline imbottite da giocatore di rugby. L’orrore di una moda da dimenticare, dall’alto di t-shirt aderenti e redivivi jeans a zampa, era per me tanto evidente da lasciare a macerare la soluzione a tanta ostinazione lungo l’arco dell’intero decennio. Poi, l’illuminazione: se la bella giovinezza si fugge tuttavia, altrettanto non può dirsi per le sue spoglie fisiche- resti, relitti. Uno sgambetto triste al tempo, chiaro, ma il caso non era chiuso. Per non so quale upgrade spirituale mia cugina lasciò quell’appiglio disperato al passato, almeno esteriormente.
Tuttavia soltanto oggi so come ci si sente, perché ho scoperto che Daniel Pennac sono le mie maniche a sbuffo. Il caso Malaussène- Mi hanno mentito, mi ha lasciato tiepieda e indifferente a sperare nel seguito: “il seguito!” più come incoraggiamento silenzioso al fantasma dello scrittore amato, che come reale aspettativa di coinvolgimento. La storia ruota attorno al rapimento di Georges Lapietà, milionario uomo dagli affari poco limpidi, la cui buonuscita -il “paracadute d’oro”- viene richiesta in riscatto a scopo benefico. Dopo 18 anni da “La passione secondo Thérèse” torna la tribù Malaussène, torna l’ironia del professore di francese che a scuola prendeva brutti voti, e una volta adulto e letterato ci ha svincolati dal peso legato all’idea di leggere, ci ha liberati, unificati sotto lo stendardo allegro e vivace delle copertine Feltrinelli . I dieci diritti del lettore, ricordate? “Ogni lettura è un atto di resistenza”: così, e altre cose che ci facevano sentire migliori, in Come un romanzo. Cosa è cambiato? “Allora com’è che non l’ amo più”?
Il tempo, certo, non è uno scherzo: questo tempo, violento e anonimo, sbalzato da un incubo e variamente armato. Il terrorismo ha la sua parte nell’ultima Francia di Pennac, e una parte ben ritagliata, nei riferimenti al cambiamento e nelle nuove paure che scandiscono i giorni del racconto. Figura addirittura un personaggio, un giovane magrebino, che le prende di santissima ragione da una pseudo-inglesina praticante di arti marziali. Si scopre essere non soltanto un potenziale stupratore, ma addirittura un aspirante terrorista, condensando così in un solo personaggio il livello di guardia raggiunto dall’intolleranza occidentale rispetto a quella che un altro scrittore francese, dalla scrittura molto più crudele, “spiacevole” e catastrofista di quella di Pennac, ha chiamato “sottomissione”. Il tempo incrudelisce, certo fa differenza leggere un autore a 18 o a 37 anni, ma tratteggiare la realtà come un grande fumettone amoroso per poi inciampare nello stereotipo diseducativo stona, oggettivamente.
Eppure lo stesso Pennac fa dire alla Regina Zabo, la capa delle Edizioni del Taglione, al cui servizio lavora il capro espiatorio Benjamin: “Degli zingari non frega niente a nessuno, ma quest’epoca che più cinica non si può adora designare dei colpevoli”. Non è che è diventato più difficile, oggi rispetto agli anni ’90, riuscire a sembrare quelli giusti, quelli della sinistra dolorosamente pensosa e ironicamente combattiva, quelli dalla parte lucida della Storia?
Il circo avvincente di una famiglia dall’albero genalogico rocambolesco, gli incroci di destini, i sentimenti buoni ma non fessi, i colpi di scena, le girandole di frizzi, erano davvero questi che leggo adesso?
“Non è che mi aspettassi di sentire riecheggiare ancora le imprecazioni di Jérémy, le rimostranze di Thérèse, le urla di Verdun, non che cercassi il sorriso di Clara o la schiena del Piccolo chino sin dal mattino sui suoi disegni, ma insomma tutto questo c’era stato e adesso non c’era più”.
Ecco, il punto, per dirla proprio con Benjamin Malaussène è questo.
Fanno ancora presa – va detto, ed è un piacere farlo, in mezzo ai cocci sparsi di Pennac – il fascino speculare delle contraddizioni interne ai personaggi e i richiami interni al testo: due donne che si travestono quotidianamente: l’una per apparire bella come Claudia Cardinale nel film di Sergio Leoni (double hommage à l’Italie, n’est-ce pas?); l’altra alle prese con intrugli grassi e fondi di bottiglia per imbruttirsi; un autore viene perseguitato dai fratelli per aver sconfessato in un libro la validità narrativa dei genitori adottivi bugiardi mentre Benjamin, narratore familiare di lungo corso, è lasciato all’oscuro delle trame intessute dai più giovani della tribù. Strappano sorrisi le trovate divertenti di cui il libro è infarcito, una garanzia dell’intrattenimento. Ecco, appunto: l’intrattenimento prima o poi viene a noia, scade, decade, si rivela. Si cerca qualcosa in più da una voce nota, non fosse altro che il salto verso il verosimilmente nuovo di personaggi già esistenti, una parvenza di vita vera. Vecchi amici da ritrovare, con cui ridersela del tempo passato e per un po’ fronteggiare smargiassi la morte. Una fiammella di nostalgia contro l’avanzare del nulla.
Il caso Malaussène non nutre ma ammazza quel sentimento dolce che è la nostalgia, sbriciola la madeleine che ci riconsegna fragrante gli anni ’90 come un tempo intero, su cui splende il sacro alone dell’economica Feltrinelli, quando Pennac era il Benni francese e Benni il Pennac italiano. E Baricco era già immancabilmente “barocco”.