“Se fossi stato un uccello mi sarei bruciato le ali,” dice
l’esiliato a sé stesso. – Mahmud Darwish
All’appressarsi della primavera, ci immergiamo nella lettura di Non scusarti per quel che hai fatto, raccolta del poeta palestinese Mahmud Darwish pubblicata dall’editore Crocetti nella traduzione di Sana Darghmouni. “Non scrivere la storia come poesia”, canta in un verso della raccolta Darwish; ché “allo storico non vengono brividi di febbre quando nomina le sue vittime e non sta ad ascoltare il racconto della chitarra”. Nel costato del poeta s’agita ancora il bambino, la sua voce primitiva è la voce più chiara e innocente e s’intreccia al suono della chitarra lorchiana.
Per Mahmud Darwish l’esilio è l’espulsione dal regno dall’infanzia. Le prime immagini della coscienza, l’albero e la strada che non incontrerai più: ti è stato tolto un regno, sembra dire il poeta, e tu vivrai straniato. Non è raro che nei suoi scritti il poeta si dia del tu, un modo diretto di rivolgersi a sé stesso o a un altro tempo, quando le parole dovevano ancora attraversare una mutazione. La sua vita si porta addosso i segni delle parole che il raccattatore di versi annota.
Darwish nacque il 13 marzo 1941 ad Al-Birwa, un villaggio che non esiste più, occupato dalle forze israeliane nel 1948. Il poeta e la sua famiglia lasciarono il paese natale per cercare riparo in Libano. Il regno dell’infanzia si perse così nei giorni neri della Nakba. Per non dimenticare, il bambino si portò dietro i quaderni, e forse per scongiurare l’oblio e lo straniamento s’afferrò alla lingua, e con quella si mise a cantare, protestare, e cantare. Quando Darwish tornò a cercare Al-Birwa non la trovò più: la terra dove era cresciuto era occupata da sconosciuti.
Per tanto tempo girò paesi, mondi, strade; annotò versi sui fogli; estrasse canti da filari di parole. Per tutta la vita Mahmud Darwish è stato un esule, forse per questo ha tentato di mantenere viva una speranza dentro le parole, che fossero capaci di iniettarsi nel cuore del lettore per estirpargli l’aridità di dosso, scavargli un solco di immagini che potessero resistere agli anni.
“Chi è del sud conosce il sentiero dei vagabondi come il fondo del suo cuore. E imita il loro istinto e la loro improvvisazione dello spazio. Nessun “là” per lui, nessun “qui”, nessun indirizzo per chi è caotico e niente appendiabiti per la lingua.”
Quel sentimento da eterno uomo con la valigia avrebbe potuto rendere la sua lingua disorientante, ma Darwish sa afferrarsi alla concretezza della parola: la sua lingua è affilata, diretta, non ha bisogno di dissimulare.
Se sceglie di volgere il nostro occhio al “frutto del limone (che) brilla come una lanterna nella notte del migrante”, noi guardiamo al frutto di limone. Se in segreta complicità col mondo, il poeta annota, “entrerò nei gelsi dove il baco mi trasforma in filo di seta”, noi lettori siamo costretti a credere alla metamorfosi. E tanto crediamo all’incantamento delle parole da sospettare di trovarci anche noi con Darwish sulla terrazza della casa di Pablo Neruda a parlare di poesia con Giannis Ritsos, come accade nel Misterioso accadimento dei suoi versi stampati in raccolta.
Se ogni poesia è un disegno, una madre, un sogno, nel misterioso accadimento Darwish e Ritsos – fratello greco di versi e resistenza – si ricongiungono per un momento nel sogno poetico. E dunque nelle poesie di Darwish avvertiamo il sogno di un uomo, ma la singolarità della sua voce è in continuo dialogo con una collettività più grande. Nei versi che leggiamo si insinuano i ricordi della cacciata dal regno, il mare è una promessa di eterno Nostos, gli ulivi secolari e la pietra nascondono i fantasmi di casa.
“Il ritmo mi ha scelto, ma io sono un groppo in gola.”
Darwish incide sul foglio il suo destino di poeta a cui è impossibile dimenticare il groppo che si porta nella gola. In quell’essere un groppo in gola c’è un vissuto da esiliato e una memoria affollata di luoghi. Le terre del mondo arabo, l’Europa, l’America, il carcere. I suoi scritti portano inevitabilmente traccia della vita.
La mia vita è lo scandalo della mia poesia e la mia poesia è lo scandalo della mia vita, scriveva Darwish in Memoria per l’oblio, un testo di prosa poetica che rievoca i giorni in una Beirut assediata nell’estate del 1982. Nell’impossibilità di scrivere in diretta, il poeta usava la forza d’evocazione delle parole per ritornare a quei giorni.
“Come posso propagare in ogni mia cellula l’odore del caffè mentre le bombe si abbattono sulla parete della cucina che si affaccia sul mare e diffondono puzza di cordite e sapore di inanità?”. Darwish cerca nel caffè una maniera di afferrarsi al quotidiano mentre infuria la guerra con il suo vortice di terrore e demenza; il poeta si aggrappa al caffè con un disperato atto di protesta al tempo e alle bombe.
“Voglio l’odore del caffè. Voglio cinque minuti. Voglio cinque minuti di tregua per un caffè. Chiedo solo di poter preparare una tazza di caffè.” E ancora: “Come posso morire in quest’arsura, senza l’odore del caffè? Non voglio. Non voglio.” Nell’invocazione ai cinque minuti di tregua per un caffè c’è una forma di resistenza all’estinzione del linguaggio e dell’umano scritta da un pezzo di mondo in fiamme. All’appressarsi di una primavera da tempi oscuri, i poeti rischiano di tacere, le bombe continuano a cadere, si è tentati di credere che le parole perdano senso. Ma la poesia tiene viva la memoria della lingua – è un disegno, una madre, un sogno.
Per Darwish la poesia è un atto di libertà, l’interregno dell’essere umano che scrive dal margine della terra. Come la schiera di poeti esuli che si sono aggrappati alla lingua per ritrovare la parola casa, il poeta palestinese si aggrappa alla cenere della parola da cui può nascere ancora un canto nuovo che cerca di ridare senso al mondo. Il poeta raccoglie le parole da cielo e terra e come un arciere le lancia nel futuro: tocca al lettore non disperdere il dono di versi e canti.