Macchine (da scrittura) come McEwan

“Homo sum, humani nihil a me alienum puto”. Nel 165 a.C., Terenzio fa pronunciare questa battuta al personaggio di Cremète nell’opera Il punitore di se stesso. Difficilmente il commediografo si sarebbe immaginato che, nel 2019 d.C., questa frase potesse adattarsi ad un oggetto che, di umano, non ha in teoria nulla fuorché l’aspetto: un automa. A giocare con la storia e a tessere questo improbabile nesso tra Antichità e contemporaneità è Ian McEwan, che torna in libreria con Macchine come me, edito da Einaudi.

Lo scrittore inglese ambienta il suo romanzo in un 1982 alternativo, ma nondimeno tremendamente reale. Sono principalmente due i dati storici modificati da McEwan in questa dimensione parallela: la guerra delle Falkland/Malvinas è stata vinta dall’Argentina e, soprattutto, Alan Turing è vivo e vegeto. È proprio la presenza del genio matematico inglese, qui scampato alla castrazione chimica e al suicidio, a influenzare profondamente l’Inghilterra di quel diverso 1982. Grazie ai suoi studi, infatti, scienze matematiche e robotiche hanno fatto passi da gigante, portando alla creazione del primo androide destinato alla vendita di massa: Adam (o Eve, nella versione femminile). Ed è con l’acquisto di un Adam che si apre la vicenda del protagonista, Charlie Friend.

Charlie ha trent’anni, un modesto appartamento di proprietà e vive costantemente sull’orlo della povertà: sua unica occupazione è giocare in borsa con i suoi pochi risparmi, accucciato in camera da letto (di giorno riarrangiata come studio) a guadagnare e perdere poche centinaia di euro alla volta. La sua passione per la tecnologia lo spinge però ad investire i suoi ultimi, scarni risparmi nell’acquisto di un Adam – rendendo evidente che siamo in una realtà parallela. Nel nostro mondo nessuno si indebiterebbe per comprare, così per dire, l’ultimo modello di I-phone, giusto? – senza sapere che sarà l’evento che gli sconvolgerà la vita. L’automa, infatti, si dimostra da subito decisamente più umano di quanto ci si potrebbe aspettare, sviluppando emozioni, sentimenti e ragionamenti profondamente personali. Soprattutto, Adam si innamora di Miranda, la vicina di casa e successivamente fidanzata di Charlie. Un amore destinato a conseguenze tragiche, perché Miranda non è chi sembra, e nasconde un passato che tornerà a cercarla, piombando su tutto il terzetto.

Con Macchine come me, McEwan si conferma ancora una volta Scrittore con la esse maiuscola. La sua prosa, splendidamente tradotta da Susanna Basso, dovrebbe essere insegnata nelle scuole: non c’è mai un termine generico, un sostantivo approssimativo o un verbo fuori posto. McEwan ribadisce di poter trasformare in grande letteratura anche una lista della spesa, se ben scritta. Eppure… c’è un eppure. Sì perché questo suo ultimo romanzo, che contenutisticamente non è di certo una lista della spesa, tradisce però come ormai l’Inghilterra sia all’annaspante ricerca di una nuova voce generazionale.

Spieghiamoci meglio. L’Inghilterra è prepotentemente cambiata dal secondo dopoguerra a oggi, con una rapidità tale da far venire il fiatone e storici e scrittori. A cavallo tra gli anni Novanta e i Duemila, due autori si erano imposti su tutti come coloro che avevano sviscerato al meglio i cambiamenti interni alla società: Jonathan Coe e Ian McEwan. Entrambi, pur con modi, voci e registri diametralmente diversi, erano riusciti a fotografare il passaggio dall’Inghilterra di Churchill, canto del cigno della grandeur imperiale, a quella della Tatcher, in cui l’ondata di privatizzazioni capitalistiche aveva totalmente minato il tessuto sociale. Coe e McEwan questo passaggio l’hanno vissuto, l’hanno interiorizzato e hanno saputo restituircelo su carta, stilisticamente perfetto e contenutisticamente illuminante. Ma è qui che è insorto il problema: diventati scrittori di culto, entrambi sono stati catapultati in una società altra, elevata, elitaria e rarefatta, che la realtà la vede solo marginalmente, infiocchettata sui quotidiani o nei brevi servizi dei telegiornali. La pianta si è levata troppo alta, e dall’humus terreno non riesce più a trarre linfa vitale.

Di Coe e del suo tentativo di analizzare il presente resuscitando i personaggi de La Banda dei Brocchi abbiamo già parlato. McEwan, con questo romanzo, conferma a sua volta di aver perso contatto con la vera Inghilterra di oggi. Da Blair in avanti il Regno Unito ha cavalcato, indemoniato, verso una crescente e drammatica confusione: il problema di come gestire l’immigrazione dalle ex-colonie, la disoccupazione, le grandi città industriali rimaste senza vocazione, l’impoverimento culturale, la dilagante rabbia culminata nella Brexit sono tutte tematiche recenti, pienamente esplose dopo le Olimpiadi londinesi del 2012, ma che pochi – se non nessuno – scrittore inglese è riuscito ad analizzare compiutamente. Non è un caso che McEwan scelga di trattare tematiche moderne, come la tecnologia ed il suo influsso sulla vita umana, ambientandole in un passato a lui più congeniale. Il risultato, però, rimane solo parziale.

Come Coe, anche McEwan si rivela estraneo alle dinamiche della contemporaneità. Rimane un ottimo narratore, ma le cui vicende hanno il sapore del distacco. Si vuole parlare dell’Inghilterra presente, ma i termini sono poco personali, poco partecipativi. Sono i termini con cui un antropologo osserva e descrive una realtà che conosce poco o che, in questo caso, non conosce più. A essere diventati macchine, sembrano ormai gli scrittori: produttori di un libro all’anno, regolare, seriale, ma freddo e impersonale. La letteratura inglese reclama la voce di una nuova generazione, che le vicissitudini degli ultimi sette anni le abbia vissute sulla sua pelle. Che le abbia masticate, digerite, e ce le sappia riproporre come cosa viva, attuale. Solo così la massima di Terenzio potrà continuare ad essere valida. E solo così potremo evitare che, il mestiere dello scrittore, finisca per essere appannaggio degli Adam.

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