“La gente saliva sciamando dalla sotterranea. Come insetti, senza volto, impazziti, mi sbattevano contro, mi venivano addosso, mi circondavano, implacabili. Giravano come trottole, si urtavano, si spingevano; emettevano suoni orribili”
Charles Bukowski moriva il 9 marzo 1994, venticinque anni fa. Il vecchio sporcaccione dal cuore cristallino lasciava questo mondo misero e spettacolare per via di una leucemia fulminante. Del suo corpo sappiamo quanto alcol sia passato nelle vene, e quanta musica — classica — nelle orecchie. Conosciamo il vagabondare erotico di uno che tra il calore della carne e quello del whisky sceglieva sempre entrambi, all’estremo. Disgusto, disperazione, qualche volta lirismo. Dal vecchio Céline aveva appreso inseguire la notte, che può essere più scura e profonda, spregevole carogna che batte in fondo al petto degli uomini. La sua era nigredo al bancone, processo alchemico, o tra lenzuola sporche in una vita putrida, o lì dove si può: vita sporca e viva, via ad allontanare il tanfo della morte. John Fante come dio personale, Bandini come modello di vita.
“Mi alzai in piedi con il bigliettino di accettazione in mano. IL PRIMO. Dalla rivista letteraria numero uno d’America. il mondo non mi era mai sembrato così bello, così pieno di promesse.” (Factotum)
Consumava biblioteche pubbliche e guai, riversandoli in strabilianti capoversi di nonsense, allucinati e grotteschi come il mondo quando scendi dalla giostra dell’alcol, ma con in più la certezza di essere diverso e per questo di possedere sguardo, lingua, un’assoluta forza, luce e verità.
“Ecco di che cosa aveva bisogno un uomo: speranza. Era l’assenza di speranza a scoraggiare un uomo.” (Factotum)
A diciassette anni amavo perdermi nelle sue storie provocatorie e pulp: i suoi racconti erano pieni di immagini potenti e personaggi indimenticabili. Donne: pazze, innamorate, ninfomani, streghe, sirene. Miserabili, bellissime, alcolizzate, perdute, divertenti. Iniziai con i racconti di Storie di ordinaria follia e Compagni di sbronze. Poi ci presi gusto a scandalizzare il libraio del mio quartiere (l’unico rimasto, già allora) con titoli come: Quello che mi importa è grattarmi sotto le ascelle e Shakespeare non l’aveva mai fatto. Imbarazzato e confuso, sempre indeciso tra sentirsi preso in giro- e quindi offendersi, o riconoscere la propria ignoranza, vergognandosi; alla fine lo costrinsi a ordinare l’opera omnia di Bukowski.
“Mister Bukowsi, gestisco questo albergo da 20 anni e mai, mai, ho visto robe come lì da lei.
Qui abbiamo sempre avuto inquilini rispettabili, mister Bukowski!”
“Rispettabili sì, al punto che ogni 15 giorni, o giù di lì, uno sale sul tetto e si tuffa a capofitto sul piazzale d’ingresso, fra i suoi vasi di fiori finti”. (Storie di ordinaria follia).
Siccome la vita ha il dono dell’ironia, Bukowski già da qualche tempo è l’idolo di ragazzini che approcciano l’alcolismo, citandolo più o meno a casaccio, accludendone stralci a margine di foto di nudo, fattanza, sclero feriale o festivo (i ragazzini non conoscono differenza), idiozia varia. Siccome la critica molto spesso frequenta più il racconto della vita che la vita stessa, l’opera di Bukowski è confinata sotto l’etichetta di “Realismo sporco”. Assieme a Carver, che per di più è “minimalista”.
Voi non sapete che cos’è l’amore ha detto Bukowski
Io ho 51 anni guardatemi
sono innamorato di questa pollastrella
sono cotto ma anche lei si è fissata
e insomma va bene così è così che deve andare
gli entro nel sangue e non ce la fanno a sbattermi fuori.
Carver lo sapeva chi era Bukowski, perché con lui condivideva il cuore di una poetica, non predefinita da codici e non etichettabile: la radiografia del sistema lavorativo americano. Il disagio di un’America con speranze troppo grandi, sconfinato epicentro di infelicità, più capace di incubi che di sogno. Un magnete che irradia dolore, il Rumore bianco di cui avrebbe scritto De Lillo.
E il sudore che colava, e lo stravolgimento della sbronza, l’impossibilità degli orari, e Jonstone là dentro con la sua camicia rossa, che lo sapeva, che si divertiva, che fingeva di farlo per tener bassi i costi. Ma tutti sapevano perchè lo faceva, invece. Oh, che brava persona era Mr. Jonstone! (Post office)
Dalle peripezie sotto il sole e la pioggia, con una sacca di cuoio a tracolla, per consegnare posta, con abiti logori e scarpe rotte, tra cani feroci e la gente, bizzarra, folle, infelice –l’incubo della gente e il suo racconto raggiunge una sconvolgente efficacia. Ma soprattutto le gerarchie: postini fissi e supplenti, le regole e il servilismo. Un’umanità annichilita dal lavoro: manuale, faticoso, alienante. Cartine stradali e regolamenti, poco tempo per sentirsi umani. È Marx: sregolato e autarchico. Dolorosamente autentico.
Ma voi non sapete che cos’è l’amore
ve lo dico io che cos’è
ma voi non mi ascoltate
Non ce n’è uno di voi in questa stanza
che riconoscerebbe l’amore neanche se si alzasse
e ve lo mettesse nel culo“L’amore è per la gente vera” (Factotum)
Il lavoro alienante e l’Amore vero: restare vivi nonostante tutto. Questo lega Bukowski a Carver. E la provenienza sociale, infanzie difficili e successo tardivo. L’ironia. Carver che fissa l’oblò della lavatrice in funzione, e pensa che Hemingway non l’aveva mai fatto. E quel bisogno di successo, criticato odiato, ancora una volta ossessione made in USA- successo ridefinito e infine perseguito. A rivelare che la lotta, anche quella di classe, non ammette sconfitta. E che se esiste qualcuno al mondo in grado di godersi il paradiso, quello è un operaio.
«Hollywood è più scema, più crudele e più stupida di tutti i libri che ho letto a riguardo […]. Ci Sono troppe mani che dirgono, troppe dita nel piatto […]. Sono golosi e cattivi […]».
Disgusto, disperazione, alcol, donne e cavalli. Dagli spalti di un ippodromo alla walk of fame, l’umanità non cambia. Anche corteggiato da sceneggiatori, osannato da ragazzine e poeti borderline, Charles Bukowski è rimasto sempre fedele a sé stesso: stropicciato, non allineato, vero. Sempre con un bicchiere a lisciargli le pieghe.