Ma che cos’è l’indie? Jack Kerouac guardò sempre con diffidenza quella che fu definita la “seconda generazione della beat generation”, persino un poeta urlatore come Gregory Corso non entrò mai nelle sue grazie. Del resto fu Kerouac a coniare il termine beat in tutta la sua sprezzante autenticità, l’uomo beat è l’uomo battuto, lo sconfitto, il minoritario esiliato dalla società, “la beat generation” – scrive Jack – “è un gruppo di bambini messi all’angolo della strada che parlano della fine del mondo“. Erano esaltati pazzi poeti urlanti e viaggiatori ubriachi di vita, prima che diventasse una moda, una tendenza, che aprisse persino le porte al movimento hippy, prima che tutti iniziassero a scartavetrare le parole con violenza artificiale: insomma erano autentici cantori prima della notte buia che porta a svilire la bellezza della verità.
È questo il pericolo dei movimenti, delle mode, il pericolo insito nelle parole stesse: più passano di bocca in bocca più diventano vuote. Ogni parola ha un senso, nasce per descrivere, o anche per parlare, riassumere un concetto o un delirio. Ma che ne è del senso autentico di ogni parola quando questa attraversa i decenni, e si muove veloce dentro mille teste che possono essere intere generazioni, e passa i continenti, i simboli, i rituali e il folk, entra nelle riviste, nei bar, nelle bettole e nei bordelli, contamina mille e più mille personaggi e poi rincasa vuota, scevra, disfatta?
È questo il pericolo insito delle parole, l’horror vacui. Tanto più ci troviamo di fronte a una parola generalista come indie tanto più esiste una difficoltà di fondo a capire cos’è l’indie. Le riviste ufficiali vi parleranno delle etichette indipendenti, degli anni ’80, con vaghe citazioni di Jesus & Mary Chain, Pavement, i primi Sonic Youth, e via così. Ma indie non è solo questo, la parola si è evoluta, è uscita dai garage dei gruppi indipendenti ed è entrata nel mondo, avvolta in un’atmosfera di non-sense: troppo spesso si confonde la parola indie con gli oggetti, gli occhiali a lente grande con montatura scura, o il ciuffo tra i capelli, e un’andatura che si fregia d’esser cool risultando molto più spesso claudicante e snervante ai più. Indie è anche la moda di una chitarra, di un basso, di una batteria, un synth, la democratizzazione della musica.
Per quanto le televisioni ve lo nascondano, ché sono sempre più interessate a farvi vedere veline velini e un sacco di roba stantia, morta, in questo momento in Italia esiste una piccola rivoluzione culturale. Ci si carica delle chitarre in spalla per andare a suonare nei locali, si ascolta musica italiana e d’oltreoceano, si riscopre e ci si appassiona al cinema indipendente. Tutto questo è reale anche se un po’ di maniera, può apparire una posa dei tempi, e in effetti in parte lo è. Si lega all’ossessione di avere qualcosa da dire, da comunicare, l’ossessione di essere parte di qualcosa, di essere insider. È anche un po’ un movimento di rivendicazione degli outsiders. Ovviamente in un calderone e panorama del genere è difficile carpire la verità della “cultura dell’indipendenza”. Chi è il vero indipendente?
Allora torno con la mente a Jack Kerouac, che dopo aver detto di essere un beat se ne andò per la sua strada a continuare a scrivere come un romanziere di razza, lasciò i beat a fare i beat, e imboccò il fucile per cacciare nel Nord America. Il vero indipendente non è ossessionato, è un anarchico dello spirito non un drogato delle mode e della società.
È questa l’autentica direzione de L’indiependente, riuscire a rimanere dei veri indipendenti in un ventunesimo dove tutto si fa per darsi un tono, un’immagine. Riuscire a scrivere di Bergman e dei Velvet Underground senza cadere nei vizi ossessivi di condividerne un frammento. Del resto in Italia abbiamo avuto il privilegio di veder passare uno dei più grandi indipendenti di spirito del secolo, tal Fabrizio De Andrè. Un libertario che ci ispira a seguire la nostra natura. Libertà e indipendenza non vanno mai separate. Ma di questo ne parleremo prossimamente. Buona lettura!