Lettera a chi c’è stato | La poesia di Luigi Amendola

Le cabine telefoniche abbandonate nella città di vetro e cemento. Gli sguardi sfuggevoli d’amore e i brindisi per quello che verrà. Per quello che è stato, che è già stato scritto. Lettera a Telemaco (Bizzarro Books, 2022), più che come una raccolta postuma di poesie, si presenta come un portale capace di proiettare i piccoli gesti quotidiani o lo stupore del bambino sullo sfondo di un futuro incerto che si assottiglia sempre di più, avanzando tra le pagine, fino a ridursi a un mesto sussurro abbozzato che rimane strozzato in una forma sempre più frammentaria, disordinata, inafferrabile nella sezione Pervinca (poemetto della sanità) come il respiro affaticato che si addensa sui versi impalpabili di Luigi Amendola. Questa raccolta parla all’uomo di ieri e di oggi, si rivela con una pacatezza garbata e impeccabile, con la leggerezza pensosa di chi ha studiato il mondo, l’ha vissuto cercandone il segreto inviolabile, condividendo i sogni di tutti e le numerose, inevitabili delusioni. L’origine di tutto ciò che circonda lo sguardo curioso e malinconico del poeta, senza rinunciare agli studi di una vita, alla passione per la letteratura che affiora a più riprese tra le pagine. E nemmeno alla ricerca di una poesia civile che non raggiunge mai uno statuto autonomo, ma si mescola con le sensazioni e i ricordi del vissuto, con le proprie convinzioni politiche rielaborate attraverso date e personaggi iconici come Majakovskij.

Voci dalla costa,
crepitio di fuochi,
ritmo uniforme dello scafo:
la mezzarancia affonda,
tra l’albero maestro
e il guizzo della scocca.
Sapere chi guida e ci guida
chi pure comanda
e dove quest’ansia.
Chi gira intorno
e alla chiglia si ferma,
si piega nell’acqua,
e alle assenze, al vuoto
dà nomi di donne.

(Lettera a Telemaco, p. 53)

Venticinque anni fa. Era il 1997, l’ultimo anno in cui uno scrittore italiano è stato finora insignito del Premio Nobel per la Letteratura, lo stesso che si è portato via prematuramente Luigi Amendola, uno dei poeti migliori della sua generazione. Una voce che è riuscita a esprimere la sua poesia anche attraverso la forma romanzo con Carteggio del rancore (1993) o Segreti d’autore (1994) e la drammaturgia, ma che ha affidato la verità della sua esperienza e del suo lavoro lungo una vita ai versi come se fossero un testamento. L’unica eredità possibile e una traccia concreta per Telemaco impegnato nella costante ricerca del padre.

Amendola è stato insignito del Premio Montale nel 1986 e ha sempre rappresentato un punto di riferimento nel mondo culturale degli ultimi decenni del secolo scorso in Italia: oltre ad aver scritto su la Repubblica e L’Unità, è stato il fondatore del trimestrale Versicolori, una delle riviste che ha contribuito all’affermazione della poesia come strumento di divulgazione e talvolta di opposizione negli anni Ottanta.

A Lilly

Ascolta amore
quest’urlo, la smorfia
di vittoria con affanno
che amplia intorno a noi
un’eco di orizzonti a venire.
Smarriti con la memoria
i sentieri di fiume
i ricoveri di giostra
e le pudiche titubanze
restano le icone dei figli
in rapida sequenza d’anni,
ma il desiderio governa ancora
le stanze dell’impero.
(p. 55)

I luoghi appaiono tappe intermedie di un viaggio ininterrotto, insofferente a qualsiasi schema prestabilito. Il Chiostro di Sant’Onofrio, la Marina d’Argentario, Piazza Tienanmen sono tutti punti concreti e precisi che compongono un paesaggio mentale astratto, impossibile da ricostruire, se non come uno degli elementi irriducibili di un flusso poetico inarrestabile. Lettera a Telemaco strappa il lettore dalla sua epoca, come sottolinea Francesco Piccolo che ha firmato la prefazione di questo volume, e lo proietta, pur restando attualissima, in un universo poetico sterminato e lontano, in un passato che coincide con una conchiglia trovata nostalgicamente su una spiaggia abbandonata o con un bacio sulla fronte dei figli. Questa raccolta, che è accompagnata dai componimenti dedicati ad Amendola di illustri voci della poesia contemporanea come Mario Luzi e Valerio Magrelli, manifesta e incarna perfettamente quello che dovrebbe essere, nella sua più cinica e spudorata azione esplosiva, lo scopo della poesia: imprimere l’impressione fugace, l’attimo effimero e intrappolato nella memoria in un tempo che non si misura solo in sorrisi amorosi e abbracci fraterni, che non è fatto di minuti e secondi, ma di piccoli, inestimabili momenti di gioia vissuti e rivissuti, lunghi come l’eternità.

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