Fine gennaio 2020, la pandemia era già in atto ma non ce ne eravamo ancora accorti. In una fredda serata invernale ero sul Vomero, a Napoli, per la presentazione di Ambulance Songs – Non dimenticare le canzoni che ti hanno salvato la vita, edito da Arcana, insieme a uno degli autori, Salvatore Setola. In quel libro – quasi integralmente votato a quella che, in maniera molto rapida, possiamo definire musica leggera – sbucava, prima tra le sue “Ghost Track”, un omaggio a Luciano Cilio con la sua Track #8 da I Nastri Ritrovati. Alla fine di quell’incontro si avvicinò una persona dal pubblico, commossa, che voleva comprare una copia per portarla alla famiglia di Cilio, che abitava un paio di piani sopra al suo appartamento, così da fargli sapere “che c’era ancora qualcuno che si ricordava di Luciano”.
Già, Luciano Cilio, classe 1950, napoletano del Vomero vecchio. Un solo vero disco pubblicato, l’immenso “Dialoghi del presente” nel 1977, poi la tragica fine – suicida – a Milano, il 21 maggio 1983. Chi furono davvero l’uomo e l’artista dietro una parabola di vita così breve?
Provano a rispondere a questa domanda quattro autori: Salvatore Setola e Luca Buonaguidi (psicologo e poeta) – già autori di Ambulance Songs – Girolamo De Simone (autore, compositore, agitatore culturale, amico e testimone del lavoro di Cilio) e, non da ultimo, il fotografo Fabio Donato che di Cilio colse una serie di bellissime istantanee durante il suo lavoro in studio, attraverso il libro L’urlo. I suoni senza voce di Luciano Cilio, edito da Crac Edizioni.
Un libro che, oltre a essere un’importante testimonianza sul percorso breve di un musicista fondamentale nella nostra storia recente, è soprattutto un atto di memoria, intesa nelle parole di De Simone – come “forma di ricordo, in cui esso non appare semplice sedimento ma dinamica protesta”.
Chi era Cilio ce lo dice Salvatore Setola: “un rigoroso sperimentatore che tuttavia anteponeva l’espressione lirica alla ricerca sonora fine a se stessa, perché voleva che l’avanguardia uscisse dalla sua autistica chiusura, superando la meta-musica di John Cage per mirare all’emozione della gente comune”. E uno dei grandi meriti di questo piccolo volume (cento pagine in tutto) è proprio quello di volere e sapere raccontare insieme alla parabola dell’uomo – le cui informazioni restano tuttora scarne tali da richiedere il ricorso a un’intervista impossibile per ricordarne le svolte principali della carriera e dell’idea musicale che sottendeva la sua ricerca – anche la sua centralità nelle dinamiche della musica colta sullo scorcio del finire degli anni settanta e il rapporto con la sua città, una “Napoli sotterranea [che] ci fu davvero, una città d’artisti importanti anche se ignoti, o noti ovunque tranne che intra moenia”.
Autore non accademico, che non sapeva scrivere la musica affidandosi a “enigmatici spartiti semiografici”, Cilio – per quanto il paragone possa apparire azzardato ma certamente funzionale – stava, con il suo Dialoghi del Presente a certa musica colta del Novecento, come a certa musica elettronica contemporanea sta Space is only noise di Nicolas Jaar. Entrambi i lavori sono caratterizzati dalla stessa rarefazione dei suoni, da un dialogo intimo con se stessi e con la forma scelta, dalla stessa idea di musica come qualcosa di fisico e di etereo a un tempo, capace, in ogni modo, di affrontare l’idea di silenzio e del suo contraltare ambivalente di occupazione di uno spazio nel tempo. Non a caso Jaar è figlio “d’Arte” nel senso più stretto del termine – se non più ampio in questo caso – perché suo padre, Alfredo, – è uno dei più apprezzati artisti contemporanei e la storia di Luciano Cilio s’intreccia in più di un’occasione con tanta arte contemporanea a Napoli, in particolar modo attraverso l’esperienza con la Galleria di Lucio Amelio e le vicende di Morra la cui Fondazione rappresenta oggi – sia detto per i non napoletani o anche per i napoletani stessi che non la conoscono – un punto di assoluta avanguardia artistica e di ricerca sul linguaggio in ogni aspetto artistico, scenario nel 2018 di uno dei concerti più importanti ospitati in città negli ultimi anni, quello del compositore minimalista Terry Riley.
“Figlio mai nato di una Napoli asserragliata in futili consuetudini accademiche e distratta dal bel rumore di vita del prog e del neapolitan power”, Cilio pure passò per certe strade – soprattutto nell’incontro con l’Alan Sorrenti del folk prog di Aria, con la sorella di quest’ultimo, Jenny, e con il chitarrista texano Shawn Phillips che, a Positano, mise su uno studio di registrazione che, nel giro di poco tempo, divenne ritrovo di artisti e centro d’incontro culturale; eppure a Napoli, “eduardianamente città di fantasmi, passò pure lui come fantasma. Fu sempre lì, ma altrove. Cilio fu un napoletano atipico, un partenopeo eretico, un predicatore pessimista. Il suo temperamento ribelle lo portò più volte a denunciare lo stallo culturale di Napoli […] Il suo peccato originale […] che lo condannò all’isolamento”.
La conoscenza sfugge all’indolenza. // Questa città-piaga / paga di vita
mi tratta come un topo / che le attraversa le dita.
L. Buonaguidi
Il discorso di Luciano Cilio è un discorso che passa certamente per un confronto – un dialogo ancora – con tutte le avanguardie del novecento colto: l’atonalità e la dodecafonia da Arnold Schönberg ad Anton Webern, la musica concreta e quella seriale, Pierre Boulez e la rivoluzione darmstadtiana di Karlheinz Stockhausen ma per arrivare a una forma che fosse assolutamente personale e immersa negli anni della sua crescita artistica: “universo alternativo” – come dichiarò lo stesso musicista – “dove la coscienza del tempo reale possa essere nullificata” immersa in quel golfo, in quel “Mediterraneo di Cilio [che] non è soltanto il mare che bagna Napoli: è eterotopia, luogo proiettato su altri luoghi, spazio affacciato su un altrove”.
Quei Dialoghi del Presente, nel tempo, hanno sempre più assunto le sembianze di dialoghi del futuro e sul futuro, passando prima per la loro riedizione espansa, dal titolo (che riprende il Quarto Quadro) quanto mai rappresentativo di “Dell’Universo Assente”, quindi per la raccolta I Nastri Ritrovati, anch’essi ormai introvabili e che colgono Cilio sul limitare del suo ultimo disco fin dalle esperienze col sitar e la fascinazione dell’India.
Tutto questo fu accolto con grande chiusura dall’ambiente partenopeo, una chiusura che dall’Accademia si è allargata all’intero mondo culturale musicale che – stavolta in senso assoluto e non solo nell’esperienza di Cilio – si è fatta sempre più estrema avallando, spesso e volentieri, solo dinamiche a carattere oleografico purché spendibili all’interno di un sistema stantìo fatto di rimandi che insistono sempre sulla lingua e su certi cliché.
Le scelte di Cilio, la fedeltà alle proprie idee gli costarono l’estromissione da un certo tipo di mondo culturale, da un certo tipo di confronto con lo stesso pubblico e gli interlocutori di Luciano cominciarono a essere soltanto Eugenio Fels – l’interprete delle sue composizioni – e il suo amico Girolamo De Simone cui si deve il lavoro quasi archeologico di riscoperta filologica.
Il libro è diviso idealmente in quattro parti: Una fuga dal tempo, affidata a Setola, Un’intervista impossibile di Setola e Buonaguidi, Luciano Cilio mi disse… della voce autorevole di De Simone e Suoni senza suonatore, che alterna le poesie di Buonaguidi – “Sono stato suo amanuense e la paternità di questi testi la attribuisco a me stesso soltanto perché non posso dimostrare che le anime ci parlino, ancora” – alle foto di Fabio Donato.
“Sospeso nel vuoto, in assenza di peso e del mondo circostante, come un’icona bizantina o un apostolo caravaggesco”, così Setola descrive il Cilio di Donato che ne immortalò e ne restituisce oggi in qualche modo una fisicità che a noi posteri appare quasi stridente rispetto alla musica che ci ha lasciato perché la musica di Cilio rappresenta quasi una musica/non musica che è sottile come l’aria, come Flaubert che “voleva scrivere un libro fatto di niente”.
Il suo mondo era e rimane, forse, ancora un mondo in cui era certamente difficile avere consenso di là dal fatto che le motivazioni che hanno portato Cilio al gesto estremo – “La morte è l’emigrazione più radicale” – restano assolutamente nascoste, ignote, inconoscibili. Specchio, forse di quell’”universo assente [che] è anche un’immagine che esprime una frattura, un esilio, una separazione. La lontananza dall’uno, dall’unico, a cui solo i mistici hanno posto rimedio spogliandosi del proprio sé per ricongiungerlo al tutto”.
Davanti a una stessa biografia lacunosa appare ancora più incredibile il lavoro che viene fatto in questo libro: non potendo raccontare davvero Luciano Cilio, si parte dalla sua musica e da quella musica si prova a immaginarne una biografia e un percorso, offrendo al lettore spunti che sono come le coordinate di possibili interpretazioni; provando, in fondo, a fare quello che faceva lui stesso: riempire un pentagramma con delle immagini, con dei colori, con linee di spessore diverso che potessero essere la base dell’interpretazione musicale. A otto mani, L’urlo prova a fare questo, riuscendoci: ricostruire il percorso, avvicinarsi al cuore della questione Luciano Cilio.