Disclaimer:
In fondo, in cuor nostro, lo sappiamo. Siamo perfettamente consci, noi appassionati di musica ed amanti dell’elettricità dei concerti, di quella sensazione unica di tensione e attesa dell’artista, di esperienza comunitaria e di rilascio di quella tensione sotto forma di gioia pura ed eccitazione. Sappiamo benissimo, dicevo, che andare ai concerti ma soprattutto andare ai festival, le rassegne (in particolare in Italia) comporta una serie di disagi. Attese infinite, cancellazione last minute dei live, confusione sulle location, inaccessibilità dei luoghi con la rete di mezzi pubblici, prezzi al bar così alti che conviene di più bere e mangiare in un’enoteca esclusiva. Però ce ne infischiamo sempre perché quello è un contorno e noi, molto banalmente, siamo lì per la musica e per gli artisti: poi al netto dei disagi in fondo non si supera mai troppo il limite che ci fa perdere la pazienza, e che a tratti ci impedisce di godere di ciò per cui siamo lì, la musica. Ecco quella linea purtroppo il Jazz Re Found quest’anno l’ha superata ripetutamente, per una serie di motivi.
Puntualizzo, farò questo discorso qui all’inizio perché credo sia d’obbligo farlo, poi parlerò solo dei –bellissimi- concerti a cui ho assistito, senza tornare su quanto dirò ora.
Partiamo dall’inizio: ho lo zaino pronto per partire da Roma alla volta della bellissima Torino, quando scopro per puro caso che il Jazz Re Found poco più di ventiquattro ore prima dell’inizio ha cambiato location per quanto riguarda il palco principale, dallo Spazio Q 35 in pieno centro torinese, al Supermarket Club a circa venti/trenta minuti dalla location originaria. Qui il comunicato ufficiale (uscito a festival già iniziato) che giustifica il tempestivo cambio adducendo come motivazione “le stringenti nuove normative sulla sicurezza” introdotte dopo i fatti gravissimi di Piazza San Carlo, l’anno scorso. Appunto, l’anno scorso, il cambio di location è avvenuto il giorno prima l’inizio, con una percepibile nuvola di imprecazioni da parte di chi magari aveva prenotato un posto per dormire lì vicino. Come se non bastasse, si è palesemente dichiarato il falso avendo scritto sull’evento che la nuova location si trovava a soli cinque minuti a piedi dalla vecchia; niente di meno vero considerato che come detto con l’autobus dal centro ci vogliono minimo venti minuti, che diventano facilmente trenta e di più con il normale traffico cittadino.
Però pazienza, mi son detto, probabilmente la nuova location sarà più grande e più adatta ad ospitare eventi di grande portata come si prospettano quelli del JRF, e quindi più godibile e sicura. Ecco, niente di più sbagliato visto che il Supermarket è un ex discoteca orrenda e minimamente adatta a concerti di questo tipo, sia per le dimensioni ridotte (per fare un paragone con una sala che conosco bene, siamo più o meno sulle dimensioni del Monk di Roma, un dieci per cento più grande forse), sia per la sua struttura, con la zona più immediatamente vicina al palco rialzata da uno scalino, e che rendeva impossibile la visione a chi era immediatamente dopo quelli che ci stavano sopra. Parlando con i ragazzi torinesi del cambio di location le reazioni si dividevano in due tipi “il supermarket? E che è?” oppure, chi aveva avuto un passato da frequentatore di discoteche “il Supermarket? Ma è una discoteca e pure piccola, ti pare che lo fanno lì il Jazz Re Found?”.
La sala è appunto per niente spaziosa e ha costretto molti di noi a vedere i concerti da posizioni impossibili, tipo sulla stessa linea del palco, o a non vederlo proprio. Ho visto con i miei occhi più persone sentirsi poco bene in mezzo alle centinaia di persone presenti, con una mancanza di ossigeno ed aerazione clamorosa. La ciliegina sulla torta in questa situazione di disagio estremo (all’interno della quale fortunatamente a parte i malori sopra citati, miracolosamente nessuno si è fatto veramente male) sono stati i buttafuori: già all’entrata si percepiva l’indottrinamento estremo con cui erano stati rimbambiti, fra perquisizioni sgarbate e frasi militaresche. Il colmo si è però raggiunto quando qualcuno, cercando un po’ d’aria e di spazio, provava ad uscire un attimo dal locale. Si veniva accolti dai suddetti omoni che intimavano senza mezze misure o possibilità di trattative “se esci vai a casa”. Sì, esatto, non si poteva uscire dal locale se non per tornarsene a casa, si era costretti a rimanere in una sala non adatta ad ospitare così tante persone anche durante le lunghe pause fra un’esibizione e l’altra, se si voleva respirare un attimo – semplicemente per non sentirsi male- si era costretti a tornarsene a casa. Anche qui quindi, situazioni di disagio e soprattutto tensione estrema, con i miei occhi non ho visto nessuno venire alle mani ma non sarei sorpreso se fosse successo. Questa insomma la situazione vissuta durante i concerti visti al Supermarket. C’è poi stato un altro momento di confusione e miscomunicazione: Venerdì e Sabato erano ovviamente i giorni in cui erano previsti più concerti, veramente tanti, che nella location originale avrebbero avuto luogo su due palchi ma all’interno dello stesso locale. Questo ovviamente non poteva avvenire nel piccolo Supermarket, e quindi gli organizzatori hanno sparso alcuni dei concerti in altri locali della città, tipo l’Astoria o il Pop, rendendo impossibile seguire tutti i concerti per una mera questione temporale, essendo dislocati in posti non vicini fra loro. Tra l’altro il Pop è un circolo ARCI, cosa non comunicata dagli organizzatori che anzi hanno più volte ribadito come il concerto fosse gratuito. Tecnicamente è vero, ma se non si possiede la tessera Arci non si entra, e quindi ecco che magicamente bisogna spendere dieci euro non previsti, con i poveracci gestori del posto che cercavano di scusarsi mortificati per una cosa con cui non c’entrano nulla.
In conclusione, un disastro sotto tutti i punti di vista a livello logistico e organizzativo, come se non bastasse spesso coadiuvato da una comunicazione non solo in ritardo, ma proprio scorretta ed ingiusta. Un vero peccato ed un’occasione persa, oltre una totale mancanza di rispetto per chi ha comprato i biglietti singoli e soprattutto gli abbonamenti ,visto pure che si trattava della decima edizione. Di chi sia il “peccato originale” poco importa, tutto ciò ha inciso sulla qualità di ascolto e semplicemente sul divertimento e la soddisfazione che si pensava di provare, ed è stato assolutamente inaccettabile. Ma ora parliamo di musica.
I concerti:
Diversi sono i concerti che incuriosiscono o che scatenano una vera e propria attesa spasmodica, con un’ottima commistione di promesse e mostri sacri.
Mercoledì 29 il tutto ha il via presto, alle 18 al Bellissimo Blue Loft, studio di grafica torinese in pieno centro che presta i suoi spazi per gli eventi pomeridiani o mattutini, con concerti principalmente di locals ed incontri molto interessanti, fra cui spiccheranno sicuramente quelli di Soundreef sulla questione dei diritti d’autore e quello di Griot sul tema “Sangue Misto”, in cui protagonisti sono i musicisti provenienti da una commistione di diverse culture.
La sera però va in scena il vero spettacolo: sul palco del Supermarket salgono per primi i Technoir, originari di Genova ma con origini nigeriane e greche. Soul sperimentale? Future Soul, Nu-Soul? Poco importano le definizioni, ciò che importa è che la musica c’è, solida ed innovativa, con sonorità quasi completamente inedite nella scena italiana. La voce di Jennifer è matura, potente e dalle più disparate sfumature, caratteristiche complementari alla chitarra di Alexandros, sempre imprevedibile ed intrisa di blues nel modo più lusinghiero possibile. Non una sorpresa, visto che il loro disco d’esordio, Nemui, è della primavera scorsa, ma una conferma in sede live di potenzialità infinite ed ancora tutte da esplorare, oltre di un già solido presente. Dopo di loro tocca a Cory Henry ed i suoi apostoli del Funk. Conosciuto soprattutto per aver fatto parte dei meravigliosi SnarkyPuppy guidati dal formidabile Michael League, il nostro ha una carriera di altissimo livello iniziata da giovanissimo al seguito di alcuni dei più importanti artisti americani (fra cui Bruce Springsteen, Kenny Garrett, i The Roots e tantissimi ancora). Il suo live è esattamente ciò che ci si aspetta, una celebrazione del Funk come stato mentale e come musica, in cui il suo organo Hammond è il protagonista meravigliosamente coadiuvato da una formazione precisa come un metronomo: un live coinvolgente ed infarcito di una classe e di una professionalità incredibili, che spazia dai grandi classici del genere a composizioni originali.
Il giorno dopo, al Supermarket va in scena uno dei concerti più attesi, quello di un gigante della musica ormai non solo più italiana ma europea se non mondiale, visto il lungo periodo trascorso negli Stati Uniti; sto naturalmente parlando di James Senese con i “suoi” Napoli Centrale. La prima osservazione, per quanto banale possa essere, è che si stenta a credere che si abbia davanti un uomo di 74 anni che è riuscito ad uscire più o meno indenne non solo dal dopoguerra napoletano e dal marchio di “figlio della guerra”, ma anche dagli eccessi degli anni ’70 ed ’80, dalla gavetta fino al successo e dalle normali flessioni dello stesso. In un parola siamo di fronte ad una leggenda, coadiuvata dai musicisti compagni di una vita soprattutto Zurzolo al basso. Il concerto inizia un poco lento, con un paio di ballad pop dal sapore anni ‘80 grazie a cui la band si scalda. Un po’ come i motori diesel il meglio lo danno infatti a medio alto regime, ed è quando i ciuffi grigi ed i giacchetti con cui sono tutti saliti cominciano a volare che il concerto si innalza verso nuove vette. E quindi fra cavalcate jazz-rock, pezzi dei Napoli Centrale, suggestioni etniche ed un emozionante tributo a Pino Daniele, il concerto supera le aspettative, liberandosi dalla nostalgia di cui si pensava potesse essere intriso per vivere un presente musicale ancora eccitante e vivido, e che ha ancora (e probabilmente sempre avrà) il suo da dire.
Subito dopo il concerto ho anche avuto il piacere e l’onore di scambiar poche battute con James, che mi ha confessato come al momento in Italia ed in generale nel mondo “non c’è qualcuno che mi ispira al momento. Al di fuori [dell’Italia] sono i grandi che rimangono. Noi siamo amanti di Davis e Coltrane, e non si passa avanti questa è la scuola più forte che c’è, scuola di sentimenti e di tutto. Poi tutti gli altri bravi musicisti però non hanno quella forza, quella cultura che hanno loro” ma anche come allo stesso tempo
“La traccia che abbiamo segnato negli anni ’70 ed ’80 c’è! È così evidente! Il problema è sempre, farlo espandere quanto più possibile, anche se noi giriamo in tutta Europa.” E chiudendo, ha puntualizzato meglio sul perché non è entusiasta dell’attuale mondo musicale, lasciandomi con una piccola perla: “il problema è mettere fuori il tuo pensiero la tua dimensione, e metterla fuori col cuore, come tu vedi le cose davanti a te, questo è quello che facciamo. Uno può pensare che sia matematica ma non lo è assolutamente, ogni suono è messo al punto giusto per dare la dimensione che noi cerchiamo. Gli “altri” contemporanei, non ce la fanno ad andare oltre questa “matematica” è molto difficile essere libero su questo. È una ricerca questa che io faccio da tutta la vita, 24 ore su 24. Se riesci ad andare oltre questa matematica, a fare il tuo, potrai proprio vivere meglio a livello mentale.”
Ad aprire e chiudere la serata due dj set di stampo “vintage” con DJ Fede e soprattutto in chiusura Bradley Zero a tentare l’arduo compito di non far finire la festa.
Arriviamo così a Venerdì 1 Dicembre, serata principalmente di Dj sets sul palco del Supermarket. Prima di dar spazio ai piatti (analogici o digitali) ci sono però due bei concerti, LNDFK (al Pop) con il suo future-soul che pesca da Hiatus Kaiyote e FKA Twigs, e soprattutto, proprio al Supermarket, il producer olandese Jameszoo che accompagnato da un’ottima band regala un live profondo ed intenso, un jazz che si percepisce provenire dalla mente di un produttore e dj più che da un musicista canonico, e forse proprio per questo azzeccato e molto interessante nella programmazione del JRF. Per il resto della serata spazio a bassi dirompenti e batterie ossessive, con l’alternanza serrata (più o meno) fra DNN, The Dreamers, Roni Size e poi la ciliegina sulla torta, un’altra leggenda nel suo campo, Goldie. Tutti set interessanti ed apprezzati sul dance floor su cui però spicca senza ombra di dubbio quello di Roni Size, grazie soprattutto all’aiuto di visuals pazzeschi, veramente ben studiati e realizzati, complemento perfetto al suo set.
Con poche ore di sonno a sostenerci ecco subito Sabato 2, la serata più difficile da gestire a livello logistico visto che gli venti sono sparsi fra ben tre diversi locali. Alle otto al Pop l’appuntamento forse più interessante, il live di Moses Boyd Exodus. La band del batterista inglese si presenta in grande spolvero nella piccola sala del locale, esibendosi in un set compatto ed efficace, che dimostra anche (anzi, soprattutto) dal vivo come il progetto meriti un posto importante all’interno dell’affollata ed eterogenea scena di nuovo Jazz, in questo rinascimento di cui non vorremmo mai vedere la fine. Il fatto di averli avuti veramente ad un palmo di distanza ha reso anche il concerto più d’impatto, con gli splendidi soli, in particolare di sax, che letteralmente spettinavano la prima fila. Neanche il tempo di uscire dal posto che ci si precipita all’Astoria per la serata sponsorizzata da Soundreef che si concentra sugli artisti italiani, in particolare per seguire tre nomi molto interessanti, i Tweedo, Capibara ed Indian Wells. I Tweedo hanno unito Jazz e suoni elettronici quasi dance, incarnando alla grande lo spirito del JRF, riscontrando anche il favore del pubblico. Purtroppo dopo di loro dei problemi tecnici hanno fatto sì che le altre due esibizioni slittassero di parecchio, ed inficiassero non poco –soprattutto per la proiezione dei visuals- le due esibizioni, rivelatesi comunque molto molto interessanti. In generale dunque tre progetti tutti italiani che hanno di fronte a loro un futuro decisamente da seguire.
Ancora una corsa questa volta direzione Supermarket, per una serata eterogenea ma anche questa volta dominata dai Dj Sets, abbandonando la Drum and Bass per dirigersi verso lidi Black più classici, non a caso c’è il wonderkid Motor City Drum Ensemble come nome di punta. Prima però c’è un concerto meraviglioso come quello di Chassol, con il suo intrecciarsi perfetto di visuals e musica, che spazio dal jazz alla classica contemporanea, in un viaggio sonoro sempre sorprendente e godibilissimo (presto su queste pagine un approfondimento, più intervista, su di lui) . Subito dopo, con la pausa del set di Andrea Passenger, è la volta dei Casino Royale, che tornano su un palco dopo ben cinque anni, ripercorrendo la trentennale carriera che li ha visti protagonisti nell’importare e sperimentare un suono inedito all’epoca qui in Italia, fra Ska, Reggae, Hip-Hop ed accenni di elettronica in stile D&B, in generale un mondo musicale molto anglosassone. Finito i loro set hanno il via le danze: sul palco si avvicendano Nicky Siano, Peggy Gou ed il già citato Motor City Drum Ensemble, per ore ed ore di set, fra selezioni nostalgiche e più moderne che accontentano tutti i gusti e finiscono solo all’alba.
La Domenica stiamo tutti un po’ a pezzi, e non riusciamo a presenziare all’ultimo sussulto del Jazz Re Found 2017, una serata di dj sets ai Magazzini del Po’, locale che come il nome lascia intuire si trova proprio sul fiume piemontese. Finisce qui questa intensa sequenza di artisti uno dopo l’altro, che hanno regalato tutti esibizioni interessanti ed importanti, in un viaggio fra generi diversi eppure allo stesso momento con qualcosa in comune, con una programmazione che si è rivelato azzeccata e curata nelle scelte.
Tutte le foto sono di Giacomo Mondino