È da poco uscita per La Nave di Teseo la nuova edizione della raccolta di racconti di Luca Ricci, L’amore e altre forme d’odio, in una versione arricchita da cinque racconti. A distanza di quattordici anni dalla prima pubblicazione dei racconti per Einaudi, Luca Ricci ricorda quel giovane narratore agitato dall’amore e l’ossessione per i racconti e la forma breve. “Pensavo pensieri ambiziosi e cercavo l’impossibile”. Vi lasciamo godere questa lettura su cosa muove lo scrittore di racconti, e cosa va cercando la scrittura: nuove vie, l’impossibile. È così che un giovane cuore mantiene vivo il furore di raccontare.
Il romanzo – tutti i romanzi, nessuno escluso, mi hanno sempre ricordato l’immagine di un pachiderma – vuole rappresentare la realtà, e per ottenere questo scopo si affanna nella pedanteria stilistica. Il motivo? La letteratura, che è fatta di parole, è uno splendido processo sintetico, che funziona in modo lineare per astrazioni. Un volto, per esempio, non potrà mai essere davvero catturato dalla scrittura, in quanto ogni faccia è mobile mentre la scrittura è fissa, dà luogo a un’ingessatura. Descrizioni troppo dettagliate di un volto (del mondo) non fanno che peggiorare la situazione, volendo colmare qualcosa di incolmabile, volendo raggiungere qualcosa di irraggiungibile. Come ebbe a osservare Alain Robbe-Grillet: “Tutto l’interesse delle pagine descrittive (…) non risiede nella cosa descritta, ma nel movimento della descrizione”.
La scrittura è un processo eminentemente intellettuale, e la sua voluttà deriva da una selezione: ciò che si esclude concorre al risultato finale almeno quanto ciò che viene scelto. Per questa ragione all’epoca del mio apprendistato letterario preferivo il racconto. Il racconto mi sembrava un modo più onesto del romanzo. Nella sua brevità pareva ribadire l’evidenza che il suo compito fosse produrre un effetto letterario, e non offrire su un piatto d’argento la testa della realtà (semmai un’impressione). D’altronde si dovrebbe leggere per fare l’esperienza della letteratura: se voglio partecipare a un vero Safari, non mi basterà leggere dei Safari raccontati da Hemingway. E in fin dei conti il realismo, lungi dal volersi occupare sul serio della realtà, è solo un genere letterario. Il racconto era ai miei occhi il disvelamento degli scopi della letteratura, e in quanto tale la summa dell’arte della scrittura. Non solo quindi il racconto come unità narrativa minima alla base di qualunque storia (i romanzi, a ben vedere, sono anche un’addizione di storie brevi: è facilmente riscontrabile, da L’Odissea ai Promessi sposi), ma soprattutto come forma pura, come misura aurea capace di esaltare lo specifico letterario.
Il giovane Luca Ricci
Ero un avido lettore, chiaramente. Del resto avevo scoperto il piacere della lettura proprio grazie ai racconti di Edgar Allan Poe e H. P. Lovecraft, e questo più che sulla modalità dice molto delle mie inclinazioni, del mio sentirmi naturalmente portato verso la brevità piuttosto che la lunghezza. Se i maestri mi avevano conquistato, avevo invece qualche problema con gli scrittori contemporanei. Soprattutto mi facevano arrabbiare le antologie, che sulla scia del lavoro di scouting di Pier Vittorio Tondelli (ma non vogliamo qui incolpare il povero Tondelli del tondellismo), negli anni novanta del secolo scorso erano diventate una vera e propria moda editoriale. Nel 1996 era uscita per a Einaudi Stile Libero Gioventù cannibale a cura di Daniele Brolli, ed ero rimasto negativamente colpito dalla eterogeneità degli scrittori coinvolti, cioè dalla forzatura di voler mettere insieme voci lontanissime l’una dall’altra. Ciò che veniva venduto come una ricchezza a me pareva invece indicare una sciatteria, un voler prendere sottogamba il problema dei racconti.
Ero altresì molto irritato dalle riviste, perché nella maggior parte dei casi erano più vetrine che laboratori: in quanto riserve indiane si tendeva a chiudere un occhio sulla scarsa qualità di ciò che talvolta pubblicavano, e per lo più raccoglievano scritture d’occasione, dove il singolo racconto si prendeva una effimera visibilità a discapito di uno spazio di progettazione. Insomma sul racconto la situazione mi appariva chiara quanto deprimente: al di là dei singoli esiti, mancava una visione, e gli scrittori con un autentico senso e rispetto della forma breve scarseggiavano (ricordo incontri felici coi libri di Claudio Piersanti e Dario Voltolini, e prima di loro c’erano state le reverie di Antonio Tabucchi e le manie di Daniele del Giudice).
A me non interessava soltanto scrivere un bel racconto, bensì scoprire una nuova via, ritrovare la vena sperimentale de Il castello dei destini incrociati di Italo Calvino (correva l’anno 1969). Pensavo pensieri ambiziosi e cercavo l’impossibile: me lo potevo permettere, ero giovane. Era l’estate del 2005, vivevo a Pisa in un loft circondato su due lati da una grande terrazza, una specie di casa sull’albero. Lì, nei mesi precedenti avevo cominciato a scrivere una serie di racconti brevi tutti ossessivamente incentrati sulle coppie e sulle loro case, per la prima volta sentendo di aver fatto mia la lezione di Guy de Maupassant (per la velocità) e Raymond Carver (per l’economia degli elementi). La domanda da cui partivo era semplice: “Quanto posso togliere ancora prima di mandare tutto in vacca?”. Volevo sondare il limite oltre il quale un racconto non avrebbe più potuto definirsi tale: forzando il meccanismo, portavo alla luce il suo funzionamento; raccontando storie strangolate, ridotte ai minimi termini, eseguivo un’accurata radiografia dei procedimenti. Volevo scrivere un libro che fosse anche un saggio sul racconto, che ci dicesse di sé.
Restavo estasiato quando Roland Barthes ne Il grado zero della scrittura diceva che “La scrittura è dunque essenzialmente la morale della forma”. Scrivevo senza badare a nient’altro che non fosse il mio progetto di scrittura: non c’erano carriere all’orizzonte, collaborazioni a giornali, editori importanti, premi, unghie di potere. Ero soltanto un ragazzo che scriveva rintanato nella sua casa sull’albero, un novello Cosimo Piovasco di Rondò, un barone rampante rapito dallo stesso sogno di purezza e radicalità. Ero totalmente intransigente verso me stesso – il critico più temuto – e potevo rifare lo stesso racconto anche dieci o venti volte.
L’amore e altre forme d’odio nelle edizioni Einaudi e La Nave di Teseo
Poi arrivò la telefonata. È quella che sogna ogni aspirante scrittore che si prenda minimamente sul serio. Lietta Manganelli, la figlia di Giorgio, mi avvisava che Einaudi voleva farmi fare un libro di racconti. “Ma io non ce l’ho un libro intero!” osservai. “Ti faranno un contratto in bianco”, disse Lietta. Era tutta colpa di Guido Davico Bonino (in combutta con Giovanni Tesio): aveva letto alcuni miei racconti usciti per un combattivo editore milanese – Alacrán -, e si era innamorato. Tempo una settimana ed ero in viaggio per Torino, i racconti sarebbero usciti un anno più tardi, nel settembre 2006, nella collana Arcipelago, col titolo de L’amore e altre forme d’odio.
Sono passati molti anni da allora, ma il libro ha continuato ad avere una sua diffusione piccola, quasi clandestina e segreta. Ricordo bene la mia richiesta all’editore di farne un tascabile. La risposta di Einaudi fu lapidaria: “Ha venduto troppo poco”. Da lì cominciò una sorta di limbo, in cui le copie in giacenza nel magazzino si assottigliavano comunque, un poco alla volta, lentamente ma costantemente. Quest’anno La nave di Teseo ha ripubblicato il libro nella sua collana tascabile, I delfini, in un’edizione accresciuta di cinque racconti. E così, l’ambizione di quel ragazzo arroccato nella sua casa sull’albero, tutto il suo giovanile furore e tutta la sua appassionata ricerca, sono nuovamente nella piena disponibilità dei lettori.