Fanno dischi da vent’anni i Low e dopo aver scavato a fondo nella terra dura dello slowcore, dopo averne irrorato i solchi, si sono sporcati di diverse contaminazioni, restando sempre fedeli a se stessi e mantendendo la capacità, oggi tanto rara, di continuare a scrivere delle grandissime canzoni. Il cammino della band si allontana per un attimo dall’elettricità e fa tappa alle officine di casa Wilco, dove Jeff Tweedy in persona si siede dentro la cabina di regia e registra la nuova fatica della band di Duluth. La bellezza dilaniante del loro ormai decimo disco in studio parte tutta dal suono, quel suono così naturale e diretto che restituisce la purezza degli strumenti nudi e crudi, con il loro timbro originale, mantenuto senza artifici, il piano e la sei corde a fare da protagonisti. Sembra quasi di avvertire il profumo dei legni delle chitarre, di quella Martin anni 40, pizzicata e percossa da un ammaliante Alan Sparhawk. E’ pieno di canzoni sussurrate e sensuali il cammino invisibile dei Low, se Plastic Cup galoppa tra la polvere su un country accennato, Amethyst è poesia dell’anima, ogni nota al suo posto: semplice, minimale, necessaria. Se chiudi gli occhi e resti ad ascoltare in silenzio, lo avverti quel sussulto che ti prende sornione ad ogni cambio di nota, mentre le voci si rincorrono in una marcia composta. So Blue fa tornare la luce, è solare e luminosa con il cantato di Mimì che disegna arabeschi vocali su una musica gonfia di pathos. Sarà proprio la sua voce tra le principali protagoniste di questo album, non era mai accaduto che la Parker cantasse così tante canzoni e il risultato è davvero notevole. Echi di gospel si inseriscono nella tradizione più pura del folk americano, austero e rurale: “I know I shouldn’t be afraid” il leit-motiv del ritornello di Clarence White che non puoi evitare di ripetere mentre le note si rincorrono.
Se nella prima metà questo si rivela come un album austero e secco, nella seconda parte i suoni si aprono un po’ e risultano meno ieratici, come in quel capolavoro assoluto che è Just make it stop, dove il leggero riff di chitarra elettrica enfatizza il ritmo, rilasciando il senso di dramma che si gonfia nelle precedenti tracce. Si avverte il profumo del pop degli anni ultimi anni sessanta. Con il songwriting d’autore delle ultime tre tracce si chiude l’ennesimo capitolo degno di nota della band americana, tra la coda quasi noise di On My Own, alla cristallina ed emozionante To Our Knees.
Un percorso che fa dell’attesa il motivo predominante, comunicando quel senso di precarietà e di incertezza che solo il viaggio sa insegnare. Un diretto flusso di coscienza nel quale farsi trascinare come dentro un torrente.
The Invisible Way porta con sè l’aridità e il fascino del deserto, è un disco da consumare mentre si consuma la strada e si alza la polvere, con la luce che, filtrando, riesce a restituire agli occhi un piccolo ma necessario scorcio di orizzonte.
Sub Pop, 2013