È passato un po’ di tempo dall’ultima volta che sono stato colto da un forte senso di stupore e straniamento durante l’ascolto di un disco, la consapevolezza di star probabilmente ascoltando qualcosa di completamente nuovo e inedito. È quella stessa sensazione che ti fa nervosamente girare tra le mani la copertina di un disco per accertarti che l’album in questione appartiene davvero al tale artista e che non c’è il rischio che tu sia caduto in un fortuito caso di omonimia.
Da ascoltatori ci siamo sempre lasciati viziare da quella bella abitudine che hanno i Low di non mettere praticamente mai in fila due dischi simili, ma con Double Negative la band di Duluth va più lontano e realizza uno degli album più interessanti della loro discografia e, probabilmente, della musica degli ultimi dieci anni.
Messe da parte le aspirazioni folk e cantautoriali di The invisible way e i ritorni slow-core di Ones and Sixes, i nostri si lasciano nuovamente sedurre dalle nuove tecnologie.
In tal senso, la scelta di avvalersi, non per la prima volta (era già successo con il precedente Ones and Sixes), della collaborazione di B.J. Burton (già produttore di James Blake e dell’apprezzatissimo 22, A million di Bon Iver, ndr.) si rivela vincente.
Sebbene episodi più elettronici e sperimentali siano già presenti nel passato della band (si pensi a Drums and Guns), qui succede che le chitarre e le armonie vocali che costituiscono da sempre i muri portanti della musica della band, siano totalmente inondati da un impetuoso tsunami elettronico che avvolge, calpesta e in qualche modo distrugge gli 11 brani che compongono il disco. È un po’ come scrivere un disco di armonie bellissime, canzoni curate nei minimi dettagli e farle letteralmente schiacciare dalle macchine. Impossibile negare che tutto ciò contribuisce naturalmente a creare uno scenario di atmosfere oscure e apocalittiche per niente rassicuranti, un po’ come i tempi che siamo sempre più abituati a vivere.
In un susseguirsi di continui inabissamenti e ritorni a galla, i brani si alternano tra chiusure claustrofobiche e splendide aperture melodiche, che assomigliano a raggi di luce che, di tanto in tanto, rompono l’oscurità generale. La disperazione nei testi e la presenza minacciosa del male giocano il ruolo principale.
“Quorum’s not the reason
Selfish interest
You’ve got to break the quorum”
Fin dalle prime note di Quorum si ha la sensazione di essere risucchiati in un vortice, di essere costretti a seguire, come ammaliati, la voce di Alan che, strozzata e storpiata, sembra intrappolata in fondo a un pozzo.
Il senso di malessere si fa enorme (“It started up with nothing / To let them win the war / So fast and quick we ran / I couldn’t help but notice”). La percussività marziale di Dancing and Blood annuncia uno dei brani più rappresentativi del disco, che sembra inseguire l’ascoltatore durante una fuga, mentre il cantato di Mimi si libera finalmente, dopo un incedere di chitarre su un finale degno dei migliori Nine Inch Nails.
La toccante e pinkfloydiana Fly rappresenta la fenice che rinasce dalle proprie ceneri, una catarsi improvvisa e ben piazzata nel lungometraggio in bianco e nero che stiamo ascoltando. Qui la voce si solleva eterea e libera. Leave my weary bones and fly, recita l’inciso sottolineato dagli acuti profondi, ma il volo dura poco e la serenità della quiete è immediatamente seguita dalla tempesta. L’ambient di Tempest si annuncia con un tappeto di tastiere e un canto come di voci dall’oltretomba che se nella prima metà del brano risultano riconoscibili, finiscono per essere schiantate e saturate dal vocoder (“Look away / away, look away / Even if you won’t”). Tempest è un grido strozzato in gola durante una discesa negli inferi.
“Everybody says that the war is over
But it isn’t something you forget so easy”
La guerra, tema caro alla band Americana, impersona uno dei mali che ossessionano il disco, quasi a suggerirci che anche se non la vediamo direttamente, essa è sempre presente come uno spettro sopra le nostre teste. Così il messaggio di speranza che arriva nascosto nella litania cicaleggiante di Always Up è solo passeggero perché i tonfi che cadenzano il capolavoro dell’album, Always trying to work it out, entrano in scena come passi di un gigante pronto a calpestarci in quello che è un atto di presa di coscienza dell’impotenza umana.
“It’s more let it out than let it go
It’s not the end, it’s just the end of hope”
Dancing and Fire (alterego di Dancing and Blood?) apre le danze sul finale di questo viaggio oscuro e ci restituisce una ballata in puro stile Low che canta la fine della speranza.
Il trittico composto da Poor Sucker, Rome e Disarray chiude egregiamente l’album con la stessa potenza espressiva con cui le prime tre tracce iniziali lo aprivano, restituendo una perfetta composizione geometrica all’opera.
Con Double Negative, i Low, con ormai 25 anni di carriera alle spalle, ci consegnano un affresco nichilista dei tempi moderni, perfettamente attuale e disperato, che si piazza, nella loro discografia, un po’ come il loro KID A, e si lancia, a passo deciso, in corsa verso il podio nelle classifiche di fine anno.
Semplicemente sublime.