Il 22 Settembre 2004 il volo Oceanic Airlines 815 si schianta su un’isola che sembra deserta: è l’inizio del catartico viaggio di Lost, serie trasmessa per la prima volta sul canale americano ABC proprio il 22 Settembre del 2004. Ne è passato di tempo da quel primo episodio, da allora Lost è riuscito in qualche modo a cambiare il linguaggio dei serial televisivi, a diventare una storia fondante del ventunesimo secolo, a raccontare un purgatorio di storie intrecciate. Ma quali sono i momenti, in questa lunghissima narrazione durata sei stagioni, che ricordiamo di più?, quali parti di Lost si sono fissate nella nostra memoria collettiva? Avviso: spoiler (però vabé, è come se qualcuno vi dicesse all’infrasatta chi ha ucciso Laurea Palmer — insomma è passato del tempo, fatevene una ragione)
L’incidente. J. J. Abrams sceglie di iniziare tutto con uno schianto aereo a soli tre anni dall’11 Settembre, con la memoria degli americani ancora incollata allo schermo dei televisori a fissare gli aerei che si schiantano sulle Torri Gemelle. La storia però non è questa, e l’aereo cade su un’isola che si rivela subito un mondo stranissimo, e senza troppe risposte, diventando man mano una collezione di domande (a volte anche estremamente esistenziali). Piuttosto l’ispirazione iniziale è più quella di Robinson Crusoe, in gruppo: ognuno dei protagonisti di Lost ha una storia conflittuale e violenta alle spalle, e l’isola diventa l’occasione per andare indietro con la memoria. Che tecnica sceglie Abrams per creare questa narrazione?
I flashback. Non è proprio il massimo delle rivoluzioni della narrazione televisiva quello di utilizzare i flashback di pezzi precedenti di vita per raccontare una storia, il punto è che man mano che si evolve la serie scopri un rigoglioso intreccio di vite e personaggi che sono quelli che casualmente (e senza conoscersi) erano sull’aereo. Viene fuori un primo disegno di quello che deve essere Lost, tant’è che già dalla prima serie iniziano a sprecarsi le teorie in rete sull’isola come una particolare forma di purgatorio che serve a espiare il proprio passato (non si sa bene se a questo punto Abrams decide di cambiare la trama e aumentare il livello di domande del telefilm per confondere il pubblico). Tuttavia si respira già un’aria di lotta tra l’idea di un Bene e un Male con le maiuscole (infiniti boriosi discorsi su fede e scienza, personaggi ‘buoni’, personaggi ‘cattivi’, partite di backgammon), che poi troveremo incarnate in due personaggi (o semi-dei?) nell’ultima serie, quella che conclude i capitoli Lost in modo un po’ becero. Ma si può giudicare un libro solo dalla fine, o dal racconto vivo a cui ti assecondi durante l’intera storia?
Le rivalità. Metti un gruppo di sconosciuti sull’isola e arriveranno anche le piccole lotte interne per leadership acclamate (il dottor Jack diventa ben presto il leader del gruppo e il riconosciuto e incarnato buon senso per tutti gli altri) di contro a combattivi solitari come Sawyer e John Locke. Non si tratta solo di rivalità apparenti, ma anche di scontri di filosofie di vita: Locke è il mistico del gruppo, che sull’isola ricomincia a camminare e scopre per primo i poteri magici di questo antro di mondo nascosto, portando le prime domande al pubblico. Lui è l’uomo di fede che si scontra con Jack Shepard che non crederà a niente di mistico a proposito dell’isola fino alla conversione finale (è anche per questo che proviamo un certo disgusto per l’ultima serie, no?). Sawyer, aka James Ford, è il materialista a cui frega veramente poco del dibattito scienza/fede, accetta di essere sull’isola e pensa che il meglio che bisogna fare quando sei nella merda è arrangiarsi con quello che hai. La rivalità Jack/Sawyer è più materiale di quella del dottore con Locke, perché riguarda una donna, il cibo, e lo scontro fisico. Si capisce che il re incoronato di tutta la faccenda in Lost sia Jack Shepard fin dal primo frammento di telefilm, si sa così bene che la primissima domanda a riguardo resterà: allora se sapevamo già tutto, che cavolo abbiamo inventato a fare ottomila domande?
La donna indecisa. Le espressioni di Kate Austen nella prima stagione sull’isola sono sempre alquanto esilaranti, è come se mettesse in pausa il ruolo di bella e stronza che va avanti nei flashback della vita vera da fuggitiva, e diventasse la segugia del dottor Jack, che per qualche strana ragione però non riesce a portarsi a letto. Ci riuscirà invece Sawyer. Di qui in poi per circa quattro serie la nostra eroina non riuscirà mai a decidersi (ma come dicevamo sulle previsioni scontate della trama, si sapeva che alla fine avrebbe scelto il dottore). Qui si apre la convenzionale parte ”amori e dubbi” di Lost, che probabilmente annoiava terribilmente il pubblico a casa, impaziente di sapere che cosa ci facessero gli orsi polari su un’isola tropicale, o quella storia dei numeri, o perché Locke avesse iniziato a camminare, e chi diavolo fossero gli Altri, di certo meno interessato a rispondere alla domanda ”chi sceglierà Kate Austen alla fine”.
La botola. Da un certo momento in poi la trama diventa più dark, e l’intera seconda serie ruota attorno alla scoperta di una botola che collega a una stazione Dharma dentro cui vive un tizio che crede di salvare il mondo premendo un tasto ogni 108 minuti. Qui viene diritta al cuore una domanda: ma cosa abbiamo visto? perché diavolo ci ha preso? ha avuto veramente un senso Lost? Tutto era guidato da una speciale curiosità nel rispondere a una serie di perché sempre più numerosi e no-sense: il problema è che tutto è finito con un nulla di fatto, cioè tutto è stato spiegato con lo stratagemma più semplice di tutti. La fede.
Gli Altri. Sin da subito è chiaro che l’isola non è davvero disabitata ma aleggia il fantasma degli ”Altri”. Chi siano questi Altri e cosa facciano non verrà mai chiarito del tutto, se non con mitologici salti nel passato che spiegano che in fondo chiunque vada sull’isola (altri o non altri) alla fine ci è sempre stato portato sopra (da Jacob, che lotta da una vita col fratello bastardo per vincere la sfida del Bene contro il Male, alè). Gli Altri fanno esperimenti sulle donne incinte? La decisione della sceneggiatura, che a un punto passa nelle mani di Lindelof e Cuse (e chissà perché, da allora inizia a prendere le prime cantonate) è quella di non dare nessuna spiegazione.
I pestaggi di Ben Linus. Ben Linus è il leader degli ”Altri”: la sua faccia è sempre l’inquieta mira di un pestaggio violento. Viene torturato dal torturatore Sayid Jarrah, e persino picchiato dal blando Jack. La cosa esilarante è che mentre stai per darlo morto e perdente, lui trova il modo di rialzarsi.
Desmond Brotha. Se la faccia di Ben subisce sempre un pestaggio, quella di Desmond invece assume quasi sempre un’espressione allampanata. Che Lost virasse verso il mistico e il fantasy lo capiamo tramite il personaggio di Dez che ripete ”brotha” all’infinito, il trait d’union tra la realtà e lo spostamento dell’isola (?), che acquista il superpotere di vedere nel futuro improvvisamente e di fare eccezionali viaggi nel tempo, rompendo le leggi della fisica e della matematica e del vattelapesca. In alto una tipica espressione di Hume durante una telefonata dal presente al passato verso la sua amata Penelope. (Per i novellini di Lost: questo articolo è difficile da seguire, ce ne rendiamo conto, ci sono milleottocento storie intricate che neanche a guardarle puntata per puntata si riesce a seguire. State tranquilli)
We have to go back. Il colpo di scena, la genialata, quello che dopo tre stagioni intere di domande mentre la curiosità andava scemando ti rimette in gioco tutto, apre uno scenario, e ti tarla il cervello con la domanda ”e ora?”. Alla fine della terza stagione Lost va ancora avanti per flashback, sei così drogato di flashback che non riconosci il cambio di verso quando lo vedi lì davanti a te: il flashforward, il viaggio in avanti improvviso. Vedi Jack con la barba fuori dall’isola che ascolta i Nirvana e pensi sia la solita solfa di un momento del passato, poi all’improvviso incontra Kate e le dice ”dobbiamo tornare sull’isola”. Eccheccazzo.
Not Penny’s Boat. Che non dobbiamo affezionarci ai protagonisti (o quasi) dei serial tv lo abbiamo capito quando è morto Charlie in Lost, una morte annunciatissima che ci ha sorpreso lo stesso. E poi muore facendo l’eroe, con quell’avvertimento per tutti: ”non è la barca di Penny quella che sta arrivando a salvarci”. Avviso: questo telefilm probabilmente oggi non è già più contemporaneo, c’erano colonne sonore che accompagnavano questi momenti studiate al dettaglio, filo-drammatiche e un po’ tirate per i piedi, ma ha aperto a certe strategie di raccontare le cose, ha mostrato delle possibilità narrative. L’intreccio del finale della terza stagione di Lost, con i flashforward fuori dall’isola, e la morte di Charlie sull’isola mentre tutti provano disperatamente a scappare e tornare alle loro vite, alla loro realtà, è una meraviglia narrativa. Quella terza stagione finisce così bene che dalla quarta in poi si subisce un naturale calo dell’attenzione. Anche perché da qui in poi succedono cose come.
Ben sposta l’isola. Alcuni personaggi iniziano ad avere una strana emorragia di sangue dal naso per i salti temporali. Alcuni tra questi muoiono di salti temporali. Gli Altri si scopre che non sanno davvero niente. Il cadavere di Locke viene posseduto dallo spirito del fratello bastardo di Jacob. Jacob è un uomo in carne ed ossa che vive da milioni di anni, e ha un piano: farti sostituire da qualcuno degno di sostituirlo, così la selezione viene fatta a colpi di portiamo una serie di gente random sull’isola, facciamoli uccidere tra loro, combattere i mostri, gli animali selvatici, gli Altri e i Non Altri, finché non ne sopravvive uno che diventerà il mio erede. Pestiamo Ben Linus comunque e sempre. Facciamo andare Dez nel passato e nel futuro comunque e sempre. Riportiamo un po’ di sana realtà con uno scambio di coppie improvviso. E inventiamo una realtà parallela dove ognuno riconosce la propria anima gemella con una sofisticata musica melò di sottofondo. Finisce con una grande festa in chiesa: tutto questo per celebrare il trionfo della Fede.
Insomma tutto finisce per ruotare attorno a questi due fratelli ”divini”: è da allora che abbiamo iniziato a pretendere che i finali fossero fatti bene e le sceneggiature non contenessero buchi narrativi. In fondo Lost ci ha insegnato globalmente, nella sua pretesa di essere una piccola Divina Commedia contemporanea, che non vogliamo essere presi in giro.