L’Egitto è una polveriera e in pochi, prima delle ultime manifestazioni di piazza, avrebbero immaginato una situazione come quella di queste ore.
Pochi giorni fa raccontavamo di una primavera araba alle prese con una svolta cruciale del proprio percorso. I fatti hanno velocemente superato ogni nostro tentativo di acciuffarli e metterli dentro un articolo.
Nella home dei siti di informazione di mezzo mondo l’Egitto è in prima pagina. Il tenore dei titoli è più o meno questo: “Golpe in Egitto. Morsi agli arresti domiciliari”. Noi vi forniamo una guida per capirci qualcosa in più.
Se invece sapete tutto sulla primavera araba, vostro cugino è in piazza Tahrir o volete leggere solo gli aggiornamenti, andate direttamente all’ultimo paragrafo.
Hosni Mubarak
Con lui inizia tutta la primavera araba. Lei rimane, lui no. Ufficialmente è stato il quarto Presidente egiziano, ma trent’anni al potere fanno pensare soprattutto a una dittatura.
Nel 1981, quando assume la carica, l’Egitto ha già avuto due capetti piuttosto longevi (Nasser, al potere per 14 anni, e Sadat, 11 anni). Dilettanti in confronto a Mubarak, che riesce a istituire un sistema di controllo dell’opinione pubblica e dell’apparato statale abbastanza efficiente da permettergli di ipotizzare, solo due anni fa, un passaggio di consegne al figlio (Marina B., stai attenta: i padri che mollano tutto portano sfiga!).
L’Egitto, dopo una seconda metà di ‘900 passata inseguendo una politica di grandezza, si ritrova fermo al palo. La contrapposizione tra USA e URSS aveva permesso ai precedenti capi di Stato di giocare un po’ alle puttane tra un blocco e l’altro, riuscendo a ritagliarsi spazi di influenza a livello internazionale. La fine della Guerra Fredda e la sempre minor importanza strategica del Canale di Suez mettono il paese all’angolo.
L’Egitto resta così schiacciato tra una dittatura pigra ma efficace e un’economia che non farebbe invidia neppure ai Greci. Il paese sembra la Sfinge: immobile e malandato.
Fratelli Musulmani
E l’opposizione? vi starete chiedendo. L’opposizione non esisteva?
Qualcosa c’era. Si raggruppava in due schieramenti.
Da una parte i filo-occidentali fighetti, educati nelle migliori università (quindi non in Egitto), che tra un incarico internazionale e l’altro si lamentavano di quel cafone di Mubarak. Non serve dire che non se li cagava nessuno.
Dall’altra i Fratelli Musulmani. Una specie di leghisti in salsa coranica. Si guadagnarono (e, in trent’anni, di tempo a disposizione ne ebbero parecchio) la fiducia della popolazione rurale. Fuori dalle città la dittatura mordeva meno e, in un paese in cui il welfare state viene scambiato per il nome di un gruppo rock, i Fratelli Musulmani rappresentavano l’unica rete sociale ed economica a cui si potesse rimanere aggrappati prima di morire di fame.
Uno Stato inefficiente e occupato unicamente a preservarsi dai cambiamenti lasciò così spazio ad un movimento ottuso ed estremista, che, rendendo meno schifosa la vita della popolazione più povera, riuscì a rappresentare l’unica opposizione credibile a Mubarak.
Esercito
Gli ultimi tre presidenti del paese sono stati anche militari. La repubblica egiziana è nata rovesciando un re. Tramite golpe militare.
L’esercito sulle sponde del Nilo conta. E anche parecchio. I generali devono essere soddisfati (e ben remunerati), se il governo di turno vuole rimanere in piedi.
Talvolta i militari sembrano farsi portatori di cause popolari, come quando, in questi giorni, gli elicotteri volavano a bassa quota sopra i manifestanti sventolando bandiere egiziane. Ma, potete giurarci, appena vi distrarrete un attimo torneranno a fare i loro comodi.
Primavera araba
Nel 2011 arriva la svolta. La popolazione, sull’onda delle proteste in arrivo da Tunisi, prende possesso di piazza Tahrir, uno dei luoghi centrali del Cairo. Le manifestazioni chiedono la fine del regime di Mubarak.
Fratelli musulmani e normali cittadini resistono a qualsiasi tentativo di fermarli. Anche il fan-club della dittatura scende in piazza, per un sereno confronto: i morti sono più di 350.
Pezzi di Stato iniziano a franare sotto i piedi di Mubarak. La polizia si schiera con i manifestanti. Il governo perde sempre più presa nei confronti del proprio apparato di sicurezza. Anche l’esercito fa la giravolta e tradisce il capo.
Per Mubarak è il colpo di grazia. In venti giorni cade un impero trentennale. Il dittatore rassegna le dimissioni e si ritira in un villaggio vacanze a Sharm a ballare il gioca-jouer con comitive di turisti modenesi ubriachi.
Elezioni
Subito dopo la caduta del capo risulta però chiaro che il grosso del lavoro è ancora da fare. Il campo degli oppositori è affollatissimo. L’esercito reclama un ruolo dominante nel dopo-Mubarak, forte di un appoggio non immediato ma fondamentale alla rivoluzione. I Fratelli Musulmani non vogliono però farsi sfuggire l’occasione di dare un’impronta fortemente islamica al futuro dell’Egitto. I liberali filo-occidentali festeggiano. A Parigi.
Il paese liberato dalla dittatura si contorce tra la richiesta pressante del partito islamico, certo dell’appoggio popolare, di elezioni democratiche e la voglia matta dell’esercito di tenere il potere per sé. Se per abbattere Mubarak erano bastati venti giorni, ci vuole più di un anno perché i generali traslochino dai palazzi presidenziali alle caserme. Tra maggio e giugno 2012 le elezioni hanno finalmente luogo.
Mohamed Morsi
A vincere è lui, Mohamed Morsi, candidato dei Fratelli musulmani. Il margine non è minuscolo (3%) e lo sconfitto è un fedelissimo di Mubarak. L’opposizione si compatta quindi dietro un nome che rappresenti la primavera araba.
L’idillio tra Morsi e gli Egiziani dura poco. Il presidente, in un anno, riesce a far arrabbiare quasi tutti. Prima insedia i suoi compagni di partito nelle posizione-chiave dell’apparato statale, neanche si trattasse di una partecipata del comune di Roma. Poi tenta di modificare la Costituzione a proprio vantaggio, arrogandosi poteri troppo simili a quelli che Mubarak si era attribuito con la forza.
Intanto la situazione economica egiziana non migliora. Quelli che speravano di trovare più cibo in dispensa con la fine della dittatura rimangono delusi. Il governo si dimostra incompetente nel risolvere problemi ormai diventati metastasi e la burocrazia statale si conferma una macchina inefficiente e corrotta, incapace di invertire la rotta di un paese con un piede e mezzo oltre l’orlo del baratro.
Tamarod
La gente ritorna in piazza. Lo ha fatto questa domenica, forte di una petizione che ha raccolto 22 milioni di firme (i voti per Morsi alle elezioni erano stati 13 milioni). Chiede la fine del governo e nuove elezioni.
La risposta delle istituzioni non si fa attendere: si dimettono tutti, o quasi. A difendere il fortino restano solo i Fratelli Musulmani, certi che, se perderanno il potere questa volta, non sarà facile riconquistarlo. Morsi resiste e le proteste sfociano in scontri, con una ventina di morti tra manifestanti a favore e contro il governo.
Domenica in tanti ci chiedevamo quanto questo nuovo movimento, chiamato Tamarod (“ribellione”), sarebbe durato. Alcuni temevano si trattasse dell’inizio di una nuova serie di proteste, in ognuna delle quali ci sarebbero stati morti e feriti, che solo sul lungo periodo avrebbe trovato una soluzione.
Invece i manifestanti sono rimasti in piazza. Superiori in numero ai supporter di Morsi, hanno ricevuto l’attenzione di tutti i media internazionali. L’esercito, rapido come sempre nel riconoscere il vento che tira, ha atteso solo un paio di giorni prima di schierarsi a favore di Tamarod.
A Morsi, dalle forze armate, è arrivato un ultimatum: lasciare la poltrona oppure farsela togliere da sotto il culo. Il presidente, spalleggiato da un partito in piena crisi di nervi, ha fatto spallucce. Ma questa sera la situazione è arrivata alla svolta.
L’esercito ci va giù pesante e, di fatto, depone Morsi. Ora il fratello musulmano meno amato d’Egitto è agli arresti domiciliari. Anche per lui sembra essere arrivato l’annuncio di fine corsa, mentre a scendere in pista sono i carri armati, che, per tranquillizzare la situazione, stanno passeggiando per il Cairo.
Resta però la sensazione di essere di fronte ad un nuovo golpe. Se così fosse, la primavera araba sarebbe, ancora una volta, tradita. L’esercito è in strada. Ma per difendere chi?