Londra psichedelica | 14th Hour Techicolor Dream

“L’Inferno deve essere come Londra” Percy Bysshe Shelley

A metà degli anni Sessanta Londra è il centro della musica, della moda, delle culture alternative che si fanno strada tra tanti giovani ormai pronti a vivere la prima estate psichedelica. Ma non tutti sanno che la festa rock che ha dato il via a tutto, con molte probabilità, è stata determinata da un blitz della polizia inglese proprio nel cuore culturale di quella swinging London che ospitava, nel suo grembo creativo, le principali avanguardie artistiche, sociali e politiche in cerca di cambiamento. In campo musicale, l’Inghilterra aveva velocemente assimilato e metabolizzato l’ondata americana del rock’n’roll di fine anni Cinquanta e nel giro di qualche anno Rolling Stones, Who, Pink Floyd e molti altri, seguirono i Beatles che furono gli alfieri della “British Invasion”, andando a primeggiare nelle classifiche d’oltre oceano. La deflagrazione psichedelica saliva dalle viscere di Londra, dove già da qualche tempo covava sotto la cenere. C’entra l’arte ovviamente e la politica, così come l’emergere della generazione figlia del dopoguerra; c’entra l’urgenza di esprimersi e di affermarsi ben oltre gli schemi e gli spazi imposti.

Anche gli eccessi saranno in parte figli di quella curiosità senza freno. Quegli eccessi che da una parte si incanalano verso le discipline artistiche e le alimentano, raggiungendo talvolta vette inesplorate, e dall’altra faranno pagare a molti di quei giovani un prezzo alto in termini di autodistruzione. Riavvolgiamo il nastro per capire come si arriva a quella primavera del 1967, a pochi mesi da quella che sarà ricordata come la “summer of love”, e soprattutto per comprendere l’importanza del Technicolor Dream non soltanto come evento musicale e artistico, ma anche storico e culturale.

Facciamo pertanto un tuffo nella Londra in bianco e nero di qualche decennio prima per comprendere meglio come nasce e si compone quella tavolozza di colori che darà una veste cromatica così affascinante alla psichedelia. Bisogna calarsi in quegli anni, soprattutto nel ventennio che dalla fine della Seconda Guerra Mondiale arriva appunto alla metà degli anni Sessanta. Periodo questo nel quale, a livello sociale e culturale, i cambiamenti saranno enormi. I giovani diventano un soggetto ben più visibile e attivo, e una parte di essi si fa anche avanguardia, aprendo nuovi orizzonti. Il Technicolor Dream probabilmente sarà allo stesso tempo l’apice e l’inizio del declino “dell’underground” più puro e genuino, prima che il mercato riuscirà velocemente a fagocitarne quasi ogni aspetto. Il Technicolor Dream fu la festa per celebrare la maggiore età della generazione del dopoguerra.

Baby Boomers

L’Inghilterra esce a pezzi dal conflitto bellico. Le città sono malmesse e fanno fatica a risollevarsi; la maggior parte ha ancora molta polvere addosso, un manto grigio che ne segna anche lo spirito. Il futuro è incerto e minato. I neonati di quegli anni, venuti alla luce sotto pesanti bombardamenti vivranno l’infanzia in una povertà diffusa. Ma dal nulla, proprio parte di quella generazione, ricomincerà a colorare i propri sogni, togliendo quel grigio che li aveva ricoperti e quasi fatti scomparire. Prende le mosse da lì la generazione di musicisti che regalerà molte rockstar al Novecento. Paul McCartney, disse in una riflessione poi forse poco approfondita e ripresa da altri, che “i Beatles sono il frutto del dopoguerra”, probabilmente riferendosi da una parte alla speranza di una via di fuga materiale ed esistenziale dai disagi figli della condizione post bellica e dall’altra al percorso formativo che da adolescenti, loro come tanti coetanei, hanno fatto, assorbendo come spugne tutte le novità, soprattutto artistiche, che annusavano, anche da fuori i confini del Regno.

Alla fine degli anni Cinquanta i dischi di importazione arrivavano in Inghilterra attraverso i marinai e i militari statunitensi che poi li rivendevano a negozi e privati. Una generazione di futuri musicisti si abbeverò al jazz, al blues e soprattutto al rock’n’roll primigenio attraverso questo tipo di scambi. Anche il cinema americano in questa fase ebbe un grande impatto, non solo Elvis, che univa cinema e musica, ma anche James Dean e Marlon Brando, stimolarono gli adolescenti a rompere gli schemi con il “vecchio” mondo. A Liverpool, città di mare, quindi di ingenti sbarchi di vinili americani, i non ancora “Fab Four”, di questo beneficiarono prima di altri, e successivamente l’esperienza in Germania, ad Amburgo, altra città di mare, popolata dunque da militari di diverse nazionalità di stanza lì, rese ancora più importante e variegata questa conoscenza che creò una base formativa decisiva, in virtù delle tante ore passate non solo ad allenarsi a suonare cover, ma anche a scoprire nel quartiere di St. Pauli, in prossimità del porto, repertori di diversi paesi, proposti dai numerosi live club per assecondare le diverse nazionalità e provenineze dei componenti delle truppe alleate. Poter beneficiare dell’arrivo massiccio della musica americana, ovviamente non valeva soltanto per i futuri Beatles, ma per tutte le band in formazione e i giovani musicisti. Tutto ciò qualche anno dopo sarà restituito agli States sotto forma di “British Invasion”. Tutti quei musicisti puristi del blues, come i primi Stones, gli Yardbirds, gli Who, ebbero nei medi anni Sessanta una grande influenza per una generazione di ragazzi americani che, passata la grande eccitazione per il rock’n’roll, non trovavano in patria dei nuovi idoli in cui riconoscersi (agguerrita schiera di cantautori folk a parte, naturalmente). La “British Invasion” capeggiata dai Beatles, si spiega così, e il processo di costante influenza reciproca, di osmosi, è continuato a lungo.

Rolling Stones

Quella artistica era solo una parte di una ricerca esistenziale più complessiva e tutto questo naturalmente cominciò a incidere anche sul modo di vivere, cominciava a farsi impellente la necessità di cambiare la propria quotidianità, di mettere in discussione le regole esistenti. Fino ad allora si diventava adulti assai presto, con tutte le responsabilità che ne derivavano. A diciotto anni si passava dall’essere bambini al dover essere adulti in un attimo, dai pantaloni corti a quelli lunghi, senza via di mezzo. La generazione dei cosiddetti “baby boomers”, nati subito dopo la guerra, improvvisamente ridefinì il concetto di adolescenza: quei ragazzi, superate le difficoltà della prima infanzia, si trovavano a vivere in un periodo di pace, con prospettive assai migliori dei loro padri. E soprattutto, col passare degli anni, grazie alla ripresa economica post guerra, avevano sempre più soldi a disposizione, ed anche tempo e spensieratezza, a cui contribuì anche l’abolizione del servizio militare obbligatorio (1960). Tempo e soldi che venivano spesi comprando vestiti, dischi e strumenti musicali, formando band.

La musica divenne la colonna sonora di quelle vite, ebbe un effetto dirompente, cambiò i rigidi stili di vita tradizionali, ridefinì valori e sogni di una generazione. È dalla metà degli anni Sessanta che si inizia a parlare di culture giovanili, in cui la musica, ha sempre rappresentato un elemento centrale, cruciale, nelle vite degli adolescenti. In Inghilterra ciò che arrivava dall’America attecchiva rapidamente prima che altrove, probabilmente anche per un fatto culturale e di immediata comprensione della lingua. All’inizio degli anni Sessanta a Londra gli uomini d’affari andavano ancora in giro con la bombetta in testa e l’ombrello in mano, mentre una nuova generazione, cominciava a prendere coscienza delle storture del mondo e a criticare le istituzioni. I giovani, ridefinendo la propria esistenza, andavano alla ricerca di un nuovo modo di socializzare e condividere nuove esperienze; contemporaneamente sviluppavano una maggiore attenzione verso l’arte: non più solo in maniera contemplativa ma finalmente partecipativa. Era una continua scoperta, conquista e difesa. La ribellione allo stato di cose, nell’Inghilterra Vittoriana, porterà anche a un crescente bisogno di lottare ed esprimersi da protagonisti. È proprio a questo punto che si cominciano a creare i presupposti reali per la formazione di una vera e propria avanguardia, ancora embrionale, in fase di formazione, ma che ancora non si riconosce in quanto tale.

Yardbirds

Fumo di Londra

Già nel 1952 si avvertono i primi vagiti della nascita di una ‘green awareness’, insomma di una prima sentita coscienza ambientalista. Ma l’aria di Londra, si sa, è sempre stata irrespirabile. I fatti sono testimoniati da leggi che sospendevano in alcuni periodi dell’anno la combustione del carbone per il riscaldamento. Con la rivolouzione industriale poi tutto è ulteriormente peggiorato, perché al riscaldamento domestico si sommavano le fuoriuscite di fumo dalle fabbriche. Ma all’inizio degli anni Cinquanta, anche per fattori di casualità, la capitale inglese diventa anche capitale dello smog, parola che nasce dall’incontro del termine smoke (fumo) con fog (nebbia). Cosa accade? Per una serie di fenomeni metereologici, la città si trova avvolta da una cappa di aria fredda che resta intrappolata in basso e sovrastata da un altro strato di aria calda che non ne permette il ricambio, in una totale assenza di ventilazione. Le basse temperature che mordevano la popolazione spinsero all’uso maggiore di carbone per il riscaldamento domestico. Questo portò all’aumento indiscriminato di smog che si aggiungeva a quello prodotto già dalle ciminiere industriali. Dal 6 al 9 dicembre del 1952 la città fu vittima di questo fumo assassino che causò, in modo diretto e indiretto, almeno dodici mila morti e ben centomila persone colpite da problemi respiratori di vario tipo.

Questa tragedia portò qualche anno dopo alla creazione del Clean Air Act (1956), provvedimento che aveva il compito di contenere l’impatto degli inquinanti urbani e tutelare la salute pubblica. Questi fatti contribuirono a far nascere una coscienza ambientale diffusa. Tuttavia per le prime vere e proprie manifestazioni di piazza bisogna attendere ancora qualche anno, per la precisione, le prime marce per il disarmo nucleare. Nel 1962, Trafalgar Square vede la partecipazione di dodici mila persone, e una ancora più numerosa, arriverà a trenta mila l’anno seguente ad Hyde Park, con l’importante dato che la stragande maggioranza dei partecipanti ha meno di ventuno anni. Le legittime proteste cominciano a saldarsi lentamente anche col mondo culturale in fermento.

Bertrand Russell e la moglie Edith Russell alla marcia anti-nucleare

Swinging London

Londra appende definitivamente il suo abito sgualcito dalla guerra e fiorisce, sboccia di nuovi colori in vari campi, dalla moda, alla musica, al cinema, alla fotografia, alla pop art, nel suo dedalo di strade divenute poi iconiche come King’s Road, Kensington e Carnaby Street. Nel 1965 ci fu uno dei passaggi fondamentali per il manifestarsi di una vera e propria cultura underground che sarebbe andata ben oltre i confini del Regno. L’11 Giugno settemila persone riempirono fino all’ultimo posto disponibile la Royal Albert Hall, per un evento di poesia che vede sul palco i principali esponenti della Beat Generation a cominciare da William S. Burroughs, Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti e Allen Ginsberg, che con il suo “Urlo” di fatto riunì per la prima volta in un unico luogo tutto quelle persone che da quel momento in poi cominciarono a riconoscersi come simili, nella condivisione di un percorso che li avrebbe visti fianco a fianco negli anni seguenti. Di fatto si riunì per la prima volta il movimento underground. Questo fermento portò a delle tappe succcessive, necessarie per essere visibili, crescere e allo stesso compattarsi.

Uno dei passi successivi fu la fondazione della “London Free School” a Notting Hill, in modo tale che ci fosse anche una sede fisica, un punto di riferimento in cui creare dei veri e propri momenti di confronto, formativi, artistici, ma anche in grado di creare un’interazione col quartiere, riavviando e ravvivando lo spirito comunitario di vita sociale, minacciato da tensioni razziali. Si organizzarono eventi che nel tempo sarebbero diventati sempre più importanti, come il ripristino della tradizionale e popolare fiera di Notting Hill, interrotta un centinaio di anni prima, che contribuì, appunto con l’incontro in strada, a placare quelle tensioni razziali in passato sfociate anche in violenti scontri. Il Notting Hill Street Festival col tempo divenne un evento sempre più colorato e partecipato tanto da diventare, sotto il nome di Carnevale di Notting Hill, uno dei più importanti eventi del genere in Europa.

Ma tutto questo ancora non bastava. Era giunto il momento di aprire un locale in cui dare spazio alla musica e a tutta la creatività crescente. Iniziò così una raccolta fondi che portò alla nascita dell’Ufo Club, che presto si affermò come uno dei locali più importanti della città e contenitore di questi nuovi fermenti artistici. A suonare alla serata di raccolta fondi furono chiamati gli emergenti Pink Floyd, notati qualche tempo prima, in una serata al Marque club nel 1966, da Peter Jenner, che poi ne divenne il manager. Jenner fu colpito dai tratti sperimentali e spettacolari della performance, in grado di generare scenari psichedelici in cui immergersi completamente. I venerdi all’Ufo divennero di lì a poco l’appuntamento fisso del movimento. Quasi tutti i venerdi erano proprio i Pink Floyd a esibirsi.

Le serate divennero memorabili e imperdibili, anche perché si riproduceva in piccolo l’evento della lettura di poesia avvenuto tempo prima al Royal Abert Hall, si cominciarono a sperimentare i primi “light show”: giochi di luce che trasformavano continuamente il locale, illuminandone o nascondendone delle parti a seconda degli eventi che si alternavano. I manifesti che invitavano alle serate avevano una grafica curata, nuova, colorata e psichedelica che ne preannunciava visivamente il senso. A condividere profondamente gli ideali e il percorso di quel movimento all’interno dei Pink Floyd era principalmente Syd Barrett, ma di fatto, per emergere e aumentare di visibilità, fu una situazione accettata di buon grado dagli altri, anche perché i manager dell’epoca spingevano in quella direzione. Il nascente movimento aveva bisogno anche di un giornale che potesse fermare nero su bianco le riflessioni, le novità e le lotte di quegli anni. Inizialmente si mandò in stampa un semplice ciclostilato, grazie alla sempre efficace azione e animazione di John Hopkind “Hoppy”, figura fondamentale (un vero e proprio collante di tutte le anime del movimento). Quel ‘giornalino’ partì al momento giusto, pronto ormai a irrompere con maggiore forza e visibilità sulla scena londinese.

Nasce così l’International Times (IT) che immediatamente diventa la rivista ufficiale della Londra alternativa. Il giornale dava voce a tutto quello che i media ufficiali ignoravano volutamente e non avrebbero mai detto. Raccontava eventi legati all’undergound, aveva un filo diretto con il movimento di protesta che cresceva anche negli Stati Uniti e, non ultimo per importanza, ne importava le novità culturali intervistando musicisti con domande e risposte senza nessuna censura, cosa impensabile per i giornali dell’epoca. Si stampava sottoterra, nei sotterranei della “Indica” libreria/galleria, uno dei fulcri della vita culturale, della cosiddetta “Swinging London”. Se per la musica il riferimento era il Club Ufo, per l’arte e la letteratura lo era certamente la galleria / libreria Indica, che vede tra i soci finanziatori Paul McCartney e tra i principali animatori Barry Miles, John Dunbar e Peter Asher, fratello dell’attrice Jane Asher, all’epoca fidanzata del beatle Paul. Per i più distratti si tratta anche della galleria in cui qualche tempo dopo si conosceranno John Lennon e Yoko Ono.

Arriva la Polizia

Il corto circuito esplosivo nella capitale britannica, che catapulterà tutti nel Technicolor Dream, si innesca il 9 marzo del ’67, quando la polizia irrompe nella sede dell’International Times, sequestrerando tutto, liste di nomi degli abbonati, copie del giornale, assegni e finanche “i contenuti dei posacenere”. Sarà un azzardo, non solo perché tre mesi dopo sarà restituito tutto con un nulla di fatto, ma perché immediatamente scatta la solidarietà di quel movimento che comincia ad allargarsi. Si pensa immediatamente a un happening di raccolta fondi a sostegno della rivista. Il fermento aumenta, la solidarietà cresce, quindi la necessità più impellente è la ricerca di un luogo adatto, che possa realmente soddisfare le esigenze del movimento. L’Alexandra Palace, una vecchia sala semi abbandonata, ma capace di contenere oltre dieci mila persone, sembra il posto giusto. Costruito nel 1873, il “palazzo del popolo” è devastato da un incendio poco dopo la sua inaugurazione. Rimesso a nuovo nel 1875, si estende su ben tre ettari di terreno, con al centro la “Great Hall”, l’enorme spazio ideale per ospitare quell’evento. Uno luogo capace di contenere oltre diecimila persone senza creare grossi affollamenti, permettendo a tutti di andare in giro, garantendo spazi vitali accettabili. Purtroppo un nuovo incendio, a inizio anni Ottanta distruggerà, e questa volta definitivamente, quel posto che sta per fare la storia.

14th Hour Techicolor Dream

L’idea alla base dell’evento è quella di riproporre in scala molto più grande le serate dell’Ufo club, conservandone le modalità, lo spirito e anche la grafica. E’ così che comincia a prendere forma il sogno psichedelico. Non un semplice concerto, ma un evento di poesia/teatro/musica e arte, destinato a durare fino all’alba del giorno successivo. Fu fissata la data: 29 aprile ’67, e trovato il nome: 14th Hour Techicolor Dream, seguito dalla promessa di “un gigantesco evento di beneficenza, contro l’azione degli sbirri.” Il risultato è epocale.

Il cuore di Londra improvvisamente si colora e tutti, questa volta, lo notano. Sfilano vestiti coloratissimi che faranno epoca, tra incenso, campanellini, lunghe chiome agghindate, sorrisi e tanta voglia di stare insieme. Perfino i canali nazionali, per non “bucare” l’evento, improvviseranno dirette televisive per riprendere il flusso ininterrotto che popola la manifestazione: a rivivere dinanzi agli occhi increduli degli spettatori londinesi era un nuovo e pervasivo scenario hippie. Sono tanti i curiosi più o meno noti che si aggirano nell’enorme spazio. Pare che proprio grazie a uno di questi collegamenti televisivi, John Lennon si ricordò dell’appuntamento e con l’amico e gallerista John Dumbar si precipitò all’Alexandra Palace completamente sotto effetto di acido.

Un tabellone luminoso, simile a quello di Time Square, proponeva ininterrottamente il passaggio di frasi e slogan, come titoli in movimento, della rivista IT, in modo da attirare all’interno. Non titoli innocui per l’epoca, tra gli altri: “Questa è la rivoluzione imminente”, “Le uniche innegabili proprietà private sono la vostra mente e il vostro corpo”, “Non ci sono capi”, “Perché dobbiamo aspettare che muoiano tutti per sistemare il mondo?”.

Alexandra Palace

All’interno il clima rispettava in pieno le premesse su cui si era costruita la manifestazione. Le varie performance avevano i propri spazi. Alle due estremità dell’enorme sala, uno di fronte all’altro, i due palche pronti a ospitare la musica, disseminate lungo i muri e il centro del salone installazioni, piccoli spettacoli, punti informativi, tra danze più o meno coscienti. Si perché anche le droghe, sintetiche e naturali, col passare del tempo annebbiavano aria e menti. Alcuni chimici proposero delle nuove droghe psichedeliche, che impiegavano un po’ di tempo a fare effetto, tempo che invece veniva interpretato come un nulla di fatto da chi le assumeva, che pensava non fossero sufficienti le dosi e ne assumevano altre. Questo portò anche a situazioni pericolose con gente fuori di testa, che si arrampicava sulle impalcature che sostenevano le varie strutture, allarmando gli stessi organizzatori, tanto da fermare la musica per farli scendere e metterli in sicurezza. Lo zoccolo duro di atisti e frequentatori proveniva, come detto, dall’esperienza dell’Ufo Club, ed era una chiamata a raccolta per chi già si conosceva ma anche un tentativo di accrescere quella che si definiva una nuova tribù. Lo stesso John Dumbar sisntetizzò quella sensazione affermando che gli sembrava di trovare lì anche chi aveva visto una sola volta nella sua vita. Tra le tante testimonianze video dell’evento anche la performance “ Cut Piece” (La distruzione dell’arte), di Yoko Ono, apprezzata artista dell’avanguardia americana.

Naturalmente alla musica fu affidato il ruolo di colonna sonora che avrebbe accompagnato le ore più tarde della notte. Sul palco si alternano band non ancora conosciutissime; ma insomma parliamo pur sempre di Soft Machine, Arthur Browne (pioniere anche del corpse paint), i psichedelici Pretty Things e i Tomorrow. L’esibizione di questi gruppi fa salire l’adrenalina fino all’apparizione, a notte fonda, sul palco principale, dei Pink Floyd, gruppo di punta dell’underground.

L’alba dei Pink Floyd

“I Pink Floyd erano arrivati alle tre e mezzo del mattino, dato che avevano fatto una serata in Olanda ed erano tornati in traghetto, erano stanchi e spompati e sia il loro manager, Peter Jenner, sia Syd Barrett, erano in acido. I floyd avevano chiesto di entrare in scena all’alba, e non appena le prime dita di luce brillarono atraverso il rosone sul lato orientale dell’edificio, Roger Waters attaccò la vibrante linea di basso di Interstellar Overdrive”. Barry Miles

“Avevo buttato giù una pasticca mentre andavamo al concerto e incominciava a salire mentre stavamo arrivando. Dovevo guidare il furgoncino attraverso qualcosa di molto piccolo e c’era un sacco di gente che vagava totalmente fuori di zucca. C’era gente che si arrampicava su impalcature, era un edificio straordinario con tutto il vetro l’Ally Pally…mentre sorgeva il sole perché era estate. Un’esperienza meravigliosa, davvero psichedelica, Lì c’era il mondo intero, ci suonavano tutti e fu un’occasione magica.” Peter Jenner

Le luci psichedeliche, sparate direttamente sui musicisti, segnano una nuova dimensione del live-show. A guidare l’emergente band britannica, il giovanissimo e geniale Syd Barrett, che scaraventa nella sala, pezzi poi diventati storici come Interstellar Overdrive, See Emily Play e Arnold Layne. Sarà il degno epilogo della nottata come è facilmente comprensibile dalle parole di Barry Miles:

“La loro musica era inquietante e misteriosa, solenne e rilassante. Dopo una notte di festa, di spasso e di troppo acido, ecco la celebrazione dell’alba. In tutta la sala la gente prese la mano di chi gli stava accanto. I Floyd erano stanchi e probabilmente non suonarono poi così bene, ma in quel momento furono superbi. Diedero voce al sentimento della folla. Gli occhi di Syd ardevano mentre le sue note si innalzavano nella luce crescente e l’alba si rifletteva negli specchietti della sua famosa Telecaster Esquire, con la luce che danzava tra la gente. Poi venne la rinascita dell’energia, un altro giorno e con il sole un’esplosione di danze e di entusiasmo”.

Il mondo e l’Inghilterra sono pronti per la psichedelia. Cominciano i Beatles, che già qualche anno prima, con Tomorrow Never Knows, ultima traccia di Revolver, avevano dato un chiaro segno in questo senso, che si completa con l’uscita, all’inizio di Giugno, di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, album che anticipa, anche musicalmente, l’estate psichedelica del ’67. Siamo anche nei mesi della consacrazione di Jimi Hendrix. Dagli studi di Abbey Road arriva anche l’esordio dei Pink Floyd, che, con Syd Barrett al comando, lanciano lo scintillante The Piper at the Gates of Dawn.

Quell’estate sancì insieme l’apice e la fine di quel movimento che si trascinò ancora per un po’ ma all’alba del sessantanove tendeva già a svanire. Come afferma qualcuno dei protagonisti con una battuta, non è che ci fu un riflusso, semplicemente molti di loro, dopo due anni, andarono a letto.

Resta la forza propulsiva di quell’happening che ha disintegrato il modo di pensare e realizzare i live, creando in nuce quello che sarebbe stato lo spirito e, talvolta, la forma di aggregazione dei grandi Festival a venire. Per certi versi ci si potrebbe spingere fino ai più moderni rave, se pensiamo al numero infinito di ore per raggiungere l’alba. C’è chi pensa che quello sia stato l’atto finale del movimento “underground” inglese prima della commercializzazione. Una cosa è certa. Quelle 14 ore di musica hanno rivoluzionato il senso di live e di festival, sia sopra che sotto ad un palco.

“Dopo che avevamo finito gironzolai un po’ in mezzo a quell’enorme folla. Per tutta la vita mi ero sentito un outsider, uno strano, in totale dissidio con la mia epoca. Adesso, all’improvviso, capii per la prima volte, di non essere solo. Ero circondato da migliaia di altre versioni di me stesso. Facevo parte di una tribù, di un movimento, di una gigantesca anima” David Allen, Soft Machine

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