Questo weekend Londra si preprara a ospitare il FILL – Festival of Italian Literature in London. Una due giorni (21 e 22 Ottobre) ricca di eventi con incontri e ospiti d’eccezione (da Hanif Kureishi a Zerocalcare, da Iain Sinclair a Olivia Laing), un confronto aperto tra letteratura, politica, migrazioni, genere, musica. Un ponte tra l’Italia e una delle capitali d’Europa.
Abbiamo chiesto ai due ideatori del festival, Marco Mancassola e Claudia Durastanti, cosa dobbiamo aspettarci da questa prima edizione nella capitale inglese. Intanto vi diamo appuntamento a Londra, al Teatro Coronet di Notting Hill, sabato e domenica. Ci sarà da divertirsi, e pare che troveremo anche uno stand che vende ottima focaccia. Il sold out è vicinissimo, e quello spirito di restare in controtendenza all’era Brexit che anima il festival ci piace.
Il programma dell’intero festival lo trovate qui
Partiamo con la domanda diretta: com’è venuta fuori l’idea di un festival di letteratura italiana a Londra?
MM: La foltissima presenza italiana a Londra include una forte comunità creativa e intellettuale, e una parte di questa comunità si è ritrovata intorno al progetto di organizzare un festival letterario. Senza un lavoro di gruppo – e senza il coinvolgimento dell’Istituto di Cultura che ha sposato questo progetto dal basso – il FILL non sarebbe nato. Abbiamo voluto organizzare un nuovo grande appuntamento culturale italiano (e quindi europeo) nella Londra della Brexit. C’era anche l’idea di creare un festival letterario nuovo rispetto al panorama di altri festival letterari “nazionali” , che non fosse solo una sfilata di autori italiani presentati al pubblico londinese ma corrispondesse a un’idea di italianità più fluida, in moto, in confronto. Per questo la maggior parte degli eventi mescola voci italiane e internazionali. L’urgenza principale, però, era quella di rispondere al nuovo bisogno di comunità culturale, di incontro e di riflessione, che la Brexit ha creato. Abbiamo scommesso su questo quando abbiamo pensato al festival, e la risposta ci ha dato ragione: a pochi giorni dal festival veleggiamo verso il sold out di tutti gli eventi del festival, con un totale previsto di 1,500 presenze.
Gli eventi in programma sono vari, dalla letteratura ai fumetti, dalla musica alla poesia. Come avete scelto gli ospiti e il tema degli incontri?
CD: Attraverso una serie di lunghi dibattiti al Picturehouse Central di Piccadilly, ormai la sede ufficiale di FILL e delle sue riunioni semi-carbonare. All’inizio l’idea è stata quella di abbinare autori italiani e inglesi che avessero delle corrispondenze tematiche, cercando di individuare quelli con un approccio più militante. Del team fanno parte scrittori, giornalisti, accademici, agenti letterari ed esperti di media. Ovviamente ognuno di noi ha delle preferenze legate ai propri ambiti di competenza. Sapevamo da subito di volere un evento come Citizens of Nowhere?, e siamo felici che due autrici come Lauren Elkin ed Helena Janeczek siano accomunate non solo dalla loro ricerca sull’identità e come questa si sovrapponga o disintegri l’idea di nazione, ma anche dalle figure e i linguaggi che usano per parlare di questi temi. Penso alle flâneuse che hanno reinventato le città europee di Elkin, o a Gerda Taro ne La ragazza con la Leica di Janeczek. Mi pare un esempio di come si possa fare una conversazione politica senza mettere da parte la letterarietà, l’innovazione stilistica e il merito specifico di un testo. Quasi tutti gli inviti hanno risposto a questo criterio.
Tra gli incontri ce ne sarà uno – The Secret History of Italian (and British) music – che proverà a indagare l’influenza della musica britannica su quella italiana. Esiste ancora oggi questo vivo scambio tra cultura e musica inglese e italiana, oppure si è un po’ assopito?
CD: Proprio come la produzione di musica “nuova” è stata massicciamente influenzata dai fantasmi del passato in tutte le forme declinate da Mark Fisher, Simon Reynolds e Valerio Mattioli che sarà con noi al festival, è inevitabile che anche le contaminazioni tra culture musicali di paesi diversi siano state caratterizzate da questi omaggi verso il passato degli altri. In ambito generalista, persistono ancora dinamiche di colonialismo musicale e condiscendenza verso la periferia dell’impero, che quando emerge all’estero lo fa proprio perché feticizzata come periferia, distante nel tempo e nello spazio. Una volta sentii dire a Dirty Beaches che il più grande artista italiano era Adriano Celentano, qualche anno fa gli Iceage fecero una cover di Mina, a Londra si organizzano tante serate Italo-Disco. Fino a che punto una conversazione così asimmetrica è davvero una conversazione? Ma è una dinamica che fa parte di una problematica più generale, non riguarda solo gli scambi musicali tra Italia e Inghilterra. Il presente arranca ancora un po’. C’è poi da dire che questa operazione di recupero di un certo passato di solito dimenticato, come dimostrano sia Rob Young sia Valerio Mattioli nei loro testi al centro dell’evento The Secret History…, ha anche una funzione politica positiva, di infrazione dell’ortodossia.
Il FILL parte da una domanda ambiziosa, la Brexit sta cambiando le coordinate del romanzo contemporaneo? Non vogliamo la risposta, vogliamo capire perché un evento come la Brexit potrebbe effettivamente avere un impatto oggi sul romanzo contemporaneo.
CD: A pensarci bene, più che esercitare un’influenza diretta sulla letteratura o a entrare nel romanzo, fenomeni come Brexit in UK e Trump negli Stati Uniti sono stati anticipati dalle scritture più interessanti degli ultimi anni: in ambito anglosassone, ma questo inizia a verificarsi anche in Italia, c’è stata un’effervescenza di speculative fiction, distopie e narrazioni legate alle implicazioni politiche dei confini. Non credo che la grande tradizione del realismo inglese e dei suoi autori più noti verrà scossa particolarmente dalla fuoriuscita dall’Europa. Brexit potrà essere un tema declinato in maniera sociologica, e dunque parzialmente inutile e noioso. Mi aspetto slanci maggiori dalla poesia, dalla non fiction e dalle scritture trasversali ai generi. Non a caso tra i nostri ospiti abbiamo autori come Olivia Laing e Iain Sinclair che si muovono in questa direzione.
Che tipo di pubblico vi aspettate?
MM: Un pubblico di londinesi. Italiani in maggior parte, ma anche britannici, europei, “cittadini del mondo”. Gli eventi del festival sono in inglese o con traduzione in inglese, questo era un punto importante per noi. In termini di età credo sarà un pubblico abbastanza giovane, almeno a giudicare dalla festa di lancio e finanziamento che abbiamo fatto alcuni giorni fa.
Si parla molto di come la lingua americana oggi stia contaminando quella inglese, ma se pensiamo al mondo contemporaneo e alla società interconnessa in cui viviamo in realtà tutte le lingue si contaminano l’una con l’altra. Una lingua come l’italiano in questo senso oggi, come sta vivendo questa contaminazione? Si sta effettivamente rinnovando?
CD: Anche la lingua americana è contaminata a sua volta: uno dei migliori autori contemporanei che insegna negli States è Yuri Herrera, e scrive in spagnolo. È impensabile che l’inglese resti inerte e che il suo dominio non sia corrotto, nello stesso modo in cui non possiamo immaginare Los Angeles nel 2049 del nuovo Blade Runner come composta da replicanti quasi tutti bianchi; sono rappresentazioni disoneste non solo per ragioni etiche e politiche, ma proprio perché sono poco plausibili in chiave logica. Quando si tratta di traduzioni, non si tratta tanto di difendere una lingua nazionale dalla barbarie, quanto di difendere la sua intima bellezza e stranezza, che però si trasforma con il tempo. Sarà bizzarro che a far aumentare il numero di iscritti ai corsi di italiano sia stata Elena Ferrante, in fondo non fa nulla di particolarmente strabiliante per la lingua, ma il risultato è che adesso c’è un numero crescente di lettori interessanti al suono e alle specificità dei vari italiani possibili. Se ne parlerà proprio durante l’incontro After Ferrante che aprirà FILL con un appuntamento speciale all’Istituto di Cultura. La questione va messa al plurale, altrimenti parliamo di un italiano considerato auspicabile, quello della tradizione novecentesca, e conduciamo tutte le battaglie in suo nome. Ci sono vari registri da salvare invece, e c’è un italiano contemporaneo scritto e in traduzione che si propone di fare il lavoro sporco e di sfondare alcune barriere, per dare all’italiano quello che ancora non ha: una duttilità rispetto a determinate questioni socio-politiche, per esempio.
Quali sono gli autori italiani più letti in Uk?
CD: Al di là dell’ovvia risposta su Elena Ferrante, parliamo di sessanta libri italiani tradotti in UK nello scorso anno, il che è un ottimo numero anche se solo una piccola parte di questi è data da literary fiction. Giorgio Agamben e Bifo, per dire, sono più letti di qualsiasi romanziere nella media. Vanno bene gli autori di noir : Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo – che verrà a parlarci di Suburra con Hanif Kureishi – stanno avendo un buon riscontro. Un caso interessante è quello di Can You Hear Me? Di Elena Varvello, uscita per Two Roads Book e tradotta da Alex Valente. C’è il potenziale sia di vendite sia di critica, mentre con gli italiani all’estero in genere si ottiene quasi sempre solo la seconda.
Vivete a Londra da qualche anno, avevate intuito un certo sentimento brit che avrebbe portato di lì a poco a votare per uscire dall’Europa?
CD: Brexit è stata l’ultima delle sorprese. L’Inghilterra ha ancora la struttura sociale più classista di Europa, la sua sinistra non ha mai avuto una fortissima vocazione internazionalista. Ci sono più food bank e di converso grattacieli in costruzione che passeggeri nella tube. Metti in giro qualche pettegolezzo su chi ne ha la colpa e il risultato è fatto. Come altro poteva andare?
Il Fill sembra nascere in controtendenza a quella che è l’era Brexit, e a tutti quei sentimenti nazionalisti che stanno attraversando l’Europa. Potremmo definirlo un vero e proprio invito all’apertura e allo scambio. Siete ottimisti sul futuro?
MM: La Brexit ha creato uno stato di incertezza e impermanenza ancora maggiore di quello che esisteva prima. Nei sondaggi, oltre la metà degli europei a Londra, con lavori intellettuali e creativi o meno, non sanno se vogliono restare. Attendono di vedere le conseguenze pratiche della Brexit. Questo rende l’esperienza di Londra ancora più temporanea, transitoria, “pop-up”, disgrega le comunità. La Brexit ha messo in crisi in generale, e su molti piani, proprio il concetto di comunità. Come accennato da Claudia, non è che Londra prima fosse un paradiso: era già un campo di battaglia di speculazioni immobiliari e disuguaglianze. Ma la Londra post-Brexit sarà un luogo ancora più difficile, ancora più pieno di disuguaglianze, e con un tessuto di comunità – nazionali o di altro tipo – meno saldo. Le contraddizioni di Londra avevano bisogno di ben altre risposte della Brexit, e i londinesi lo sapevano bene quando hanno votato “Remain”.
Quali sono state le difficoltà nell’organizzare il festival?
MM: Il budget ovviamente. Andare in pari, assieme alla forte risposta del pubblico, all’adesione di tanti ospiti autorevoli, e all’interesse sensazionale suscitato dal festival, sarà il nostro successo maggiore. Per il resto, abbiamo lavorato in libertà, anche divertendoci. I media inglesi finora non ci hanno dato moltissimo spazio, Londra è densa di eventi e noi andiamo in diretta concorrenza, per le date scelte, con il festival letterario del Southbank Centre. Ma stiamo lavorando anche su quello.
Dateci due ottimi motivi per venire a trovarvi a Notting Hill.
Quando altro vi capiterà di passare una giornata a Notting Hill, in un teatro storico come il Coronet, e di sentire Hanif Kureishi e Zerocalcare, Olivia Laing e Andrea Lissoni della Tate Modern, “Italian politics for dummies” e Pietro Bartolo che lancia l’edizione inglese del suo libro suoi migranti a Lampedusa…? Sarà un festival perfettamente italiano, perfettamente londinese, e – speriamo – all’altezza dei tempi che stiamo vivendo. Se non vi basta, ci sarà pure uno stand che vende focaccia.