In giro per l’Italia per un Instore Tour alle Librerie Feltrinelli (ieri a Napoli, incontro moderato da Federico Vacalebre), e in attesa del tour che partirà a marzo, Francesco De Gregori presenta il suo ventiduesimo album, il primo interamente di cover “Amore e Furto – De Gregori canta Bob Dylan” uscito il 30 Ottobre per Sony Music. Il più dylaniano dei cantautori italiani si cimenta, dunque, dopo una vita di corteggiamenti e giochi di specchi, con il grande musicista americano. Fin dagli esordi al Folkstudio (dove, la notte del 5 gennaio del 1963, Dylan farà la sua prima apparizione in Italia dov’era arrivato per seguire la fidanzata di allora, Suze Rotolo) passando per quella Buonanotte Fiorellino ispirata apertamente a Winterlude fino a precedenti cover, qui riproposte (Non dirle che non è così che compare per la prima volta ne La valigia dell’ attore, 1997, e Come il giorno, contenuta nel doppio Mix del 2003), il cantautore romano non ha mai nascosto la sua passione per Dylan fino a definirlo “un maestro di canto che mi ha insegnato a fregarmene della bella calligrafia musicale”.
Gli anni duemila hanno poi segnato l’inizio di più tangibili prove di dialogo: da Non dirle che non è così inserita nella colonna sonora di Masked and Anonymous, scritto e interpretato da Dylan, passando per l’inizio di Roll On John di Dylan (Tempest del 2012) che, forse per un caso, forse per reminiscenza o per un omaggio silenzioso, è identica all’inizio di Generale, fino al concerto dello scorso luglio in cui a De Gregori è stato offerto il piacere e l’onore di calcare il palco del Lucca Summer Festival in apertura al set di Dylan, che in quell’occasione presentava il suo personale album di cover dedicato a Frank Sinatra.
Se l’omaggio di Dylan al crooner americano ha avuto come cifra stilistica quella di una rivisitazione totale dei brani negli arrangiamenti e nel modo di cantarli, in queste undici canzoni pescate nella vastissima produzione di Dylan con una predilezione per la fase a cavallo tra Oh Mercy del 1989 e quel Love and Theft del 2001 (da cui è tratta Tweedle Dum & Tweedle Dee) cui ruba il titolo e l’idea di omaggiare i propri miti musicali, De Gregori sceglie, invece, la strada di una maggiore fedeltà.
Registrato in gran segreto durante le tappe del tour precedente De Gregori traduce in italiano tutti i testi ma ne lascia pressoché immutati gli arrangiamenti. La band che supporta De Gregori è come sempre di altissimo livello e il risultato finale non può non piacere anche ai fan di Dylan più esigenti; certo l’assenza dell’armonica, scelta personale di De Gregori come per rispetto reverenziale a un suono troppo unico, è molto particolare e in alcune situazioni come in Via della Povertà lascia spazio a qualche perplessità, ma nel complesso il disco è suonato benissimo e registrato altrettanto, meglio anche di alcune canzoni di Dylan che, quando non è stato affiancato da produttori di livello, è stato accusato di una certa sciatteria in sala di registrazione.
È evidente che un’operazione di questo genere, verso la quale alcuni hanno storto il naso, ha senso nelle traduzioni e nel canto. De Gregori, che ricorda come “cantare sia un’ulteriore traduzione”, compie il miracolo, con parecchi salti mortali, di riuscire a cucire addosso alle musiche un testo in italiano senza tradire, di fatto, mai o quasi l’originale, e non era ovviamente facile. Del resto De Gregori stesso ha raccontato che proprio questa è stata una delle linee guida nella scelta dei pezzi e di aver lasciato nel cassetto molte canzoni, My back pages su tutte, per un’impossibilità a tradurle e renderle attraverso il canto in italiano. La tavolozza timbrica di Dylan manca al cantautore romano ed ecco allora la dolcezza della sua voce sostituire i passaggi più cinici della poetica dylaniana con un risultato che va oltre le migliori aspettative. Ovviamente non sempre tutto fila liscio. Acido seminterrato, versione della leggendaria Subterranean Homesick Blues è probabilmente il solo vero passo falso della raccolta e per diversi motivi: il Dylan mercuriale che con chitarra elettrica in mano sconvolgeva i puristi del folk è quello più lontano da De Gregori, il testo è legato al Dylan di Tarantula, quello che si accompagnava ad Allan Ginsberg e s’ispirava alla Beat Generation ed è praticamente intraducibile, infine, il modo di cantare che Dylan usa in quel pezzo è francamente non nelle corde di De Gregori che in questo pezzo fa il suo bel lavoro ma alla fine sembra sfiorare un compitino che rasenta la sufficienza.
Ben diversa è la versione di Via della Povertà (che chiudeva Highway 61 Revisted), che De Gregori aveva già tradotto insieme a Fabrizio de Andrè per l’album Canzoni del 1974. La traduzione di allora, molto libera (“Fabrizio ed io eravamo troppo giovani e commettemmo l’errore di non farci bastare le undici strofe e di voler aggiungere del nostro”), qui viene migliorata rendendola più fedele all’originale; l’arrangiamento, armonica a parte, è al livello se non addirittura migliore di quello di Dylan grazie ad una tensione che riesce a non far avvertire alcun momento di stanchezza in una canzone di ben dieci minuti. Il fantasma onnipresente di De André, per una volta, non sembra fare la sua comparsa; la versione del ’74 del cantautore genovese era talmente personale da evitarne il confronto.
Se sorprende, molto positivamente, il gospel di Servire Qualcuno, che risale al periodo della conversione al cristianesimo di Dylan, piacevoli conferme sono la nuova versione di Non dirle che non é così che, tra quelle di Dylan, è sempre stata la canzone più degregoriana sia per quello che riguarda la musica che per il testo (che nel suo sguardo pieno di dolcezza verso un amore finito, quello con la moglie Sara, ricorda le tante canzoni d’amore di De Gregori) e Come un giorno (qui proposta, tra le innumerevoli possibili, nella versione con la Band dal concerto immortalato in Last Waltz da Martin Scorsese).
Perfettamente a suo agio nel singolo Un angioletto come te (da Infidels del 1983) è nei pezzi che risalgono a Oh Mercy che De Gregori dà il meglio di sé: Mondo Politico e le due takes a suo tempo escluse dall’album ma provenienti da quelle sessioni, Serie di sogni (probabilmente la migliore cover dell’intero disco) e la conclusiva Dignità (che De Gregori esegue nella versione comparsa su Greatest Hits Vol. 3). Altrettanto bella è Non è buio ancora, autentico capolavoro del 1997 da Time Out of Mind, riflessione amara sull’avvicinarsi della morte con un testo splendido che davvero meritava di essere tradotto per poterne appieno coglierne ogni sfumatura (è lo stesso De Gregori a porre l’accento, con orgoglio, sull’“importante aspetto divulgativo della musica di Dylan” dell’intera operazione).
De Gregori dà alle stampe, in definitiva, un disco con una sua precisa identità, essenziale per i suoi fan come per quelli di Dylan e che riesce lì dove forse poteva fallire: nella sua dichiarazione di amore, infatti, De Gregori, prendendosi il rischio di mettere in luce tutti suoi debiti, riesce a ricordare, invece, che a partire da quell’ispirazione ha saputo essere da più di trent’anni, qualcosa di ben diverso e con una sua personalissima identità.
Foto di copertina: Andrea Sartorati